03 marzo, 2018

Rime e ricordi



Che cosa è più musicale e piacevole di una rima? Tuttavia le rime sono pure le graffe che agganciano una parola ad un’altra, quasi una sinopia incognita ed invisibile legasse suoni e sensi. Subito, come un’eco fatale, un timbro ne evoca un altro, trascinandosi dietro le ombre e le impronte dei significati. Le rime assomigliano ai ricordi, anelli di una catena che ci incatena all’identità.

Se è vero che le memorie, con la loro persistenza non-locale, non dipendono dai neuroni che, rinnovandosi costantemente, non possono conservare le tracce mnestiche, allora la facoltà di rammentare probabilmente si situa nella coscienza. La coscienza, non coincidente con l’encefalo da considerare una sorta di trasduttore, pare il substrato dell’identità, l’archivio delle reminiscenze che, insieme con la loro controparte di attese e di previsioni, formano la concrezione che chiamiamo l’io.

Sì, la psiche è affine ad “un fascio di sensazioni” (David Hume), ma il fascio delle varie facoltà s’innerva nel sottosuolo: le facoltà dello spirito sono simili a radici che, per reperire l’acqua necessaria alla vita dell’albero, scendono fino a quando attingono il prezioso liquido da una falda profonda.

Che cos’è dunque l’identità? Una sussistenza oltre lo spazio ed il tempo, una continuità di là dall’ininterrotto, confuso flusso di emozioni, stati d’animo, sentimenti. I teologi ed alcuni filosofi la definiscono “anima”. L’identità come peso, pensiero… e vorremmo che pensiero rimasse solo con leggero.

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