13 giugno, 2018

Le ragioni del silenzio



Le ragioni del silenzio sono molteplici: in primo luogo, ci si è sempre più allontanati dall’attualità. La cronaca, sebbene incida spesso sulle nostre condizioni materiali, è il cascame della storia e la storia stessa è misero simulacro della miseria umana.

La massa “vive” come se dovesse vivere per sempre; così non è. Alla massa appartiene non solo il volgo profano, ma soprattutto chi crede di essere sveglio, perché ha capito che il potere è perverso (grande scoperta!). Al popolino appartengono specialmente tutti quegli idioti saccenti che dispensano nuove teorie scientifiche a proposito della "realtà" nella sua interezza, senza conoscere né il significato di “teoria”, senza essersi mai chiesti che cosa sia la “realtà”. [1]

Per questo, se si scrive, si cerca di scavare in profondità, di strappare al destino un brandello di senso, altrimenti non è il caso neppure di cimentarsi. A che pro soffermarsi sul tragicomico spettacolo della “realtà” che ci circonda? Essa ha valore solo - e solo se - lascia trasparire qualcosa che sta oltre. L’universo fisico ha un significato soltanto se vi si può leggere in controluce una filigrana metafisica. La stessa filosofia vale, se si può trascenderla per tenderla in modo parossistico verso il paradosso, poiché l’esistenza, che è il fulcro del pensiero, è paradosso.

Siccome, però, alludere a tale situazione irrazionale con il linguaggio, che è pur sempre strumento logico, è arduo, sovente quanto si elabora si riduce ad un aforisma, lontano dall’articolo atteso dai lettori.

Un altro problema è costituito dal fatto che i testi filosofici sono spesso fraintesi, a causa della densità concettuale che li rende ostici anche a chi li concepisce e li appronta.

Per queste ragioni, si può decidere di interrompere l'aggiornamento della pagina personale: eppure, quanto più ci si chiude nel silenzio, tanto più anche in una sola frase si coagula la dynamis di un saggio formato da mille pagine. In poche parole si può concentrare una potenza dirompente, proprio poiché l’idea è imprigionata in un ambito ristretto, a somiglianza di quando si confina un'energia smisurata in uno spazio limitato. Si perde in estensione, ma si acquista in spessore ed efficacia.

[1] Che cos’è, infatti, la “realtà”? Un insieme di cose o di eventi, come ritengono i più? Una neurosimulazione? Un ologramma? Una proiezione della coscienza? O che cos’altro? Qual è lo statuto ontologico del “reale” di là dal senso comune? Qual è la differenza tra un modello scientifico e la "realtà"? Non bisogna mai rinunciare ad uno spirito critico affinché non si dia per scontato alcunché. Solo in questo modo ci si può emancipare dalla schiavitù nei confronti dell’”oggetto” per asserire i diritti dell’esegesi: questo non è relativismo ma consapevolezza che l’universo è una sfida formidabile ad ogni tentativo di comprensione esaustiva. Sebbene le domande sulla natura intrinseca del mondo siano destinate a naufragare nell’oceano dell’incomprensibile, è più opportuno, come scrive Manzoni, “tormentarsi nel dubbio che adagiarsi nell’errore”. Leggere Husserl, Wittgenstein, Kuhn, Feyerabend etc. potrebbe giovare a chi si è... appiattito su posizioni dogmatiche, pur convinto, con infinita spocchia, di aver rivoluzionato la scienza, di aver rifondato la cultura.

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