28 ottobre, 2006

Q.I.

Succede spesso che alcune persone chiedono quale sia il quoziente d’intelligenza. A tale domanda non saprei rispondere, perché non ho mai affrontato un test per misurare tale quoziente: infatti bisognerebbe prima stabilire che cosa sia l’intelligenza, che la maggior parte degli psicologi definisce come la capacità di risolvere problemi. È questa una definizione del tutto insufficiente, se non tautologica. Penso che l’intelligenza sia l’attitudine, etimologicamente, a vedere, cogliere (lego) dentro (intus), oltre le parvenze. È più sagace una persona che coglie i significati simbolici degli eventi e dei fenomeni di chi, invece, risolve sciarade numeriche o logiche, riuscendo ad indicare, ad esempio, quale cifra deve essere inserita in una serie o quale, fra alcune figure geometriche, si incastra in un’altra (qui è la mente a rimanere incastrata).

È intelligenza questa? Vi si può scorgere semmai un insieme di abilità logiche, la cui funzione è indiscutibile, ma che costituiscono solo la metà e la metà meno preziosa delle capacità individuali, comprendenti la creatività, l’intuizione, il senso estetico, l’empatia, l’intelligenza emotiva. Una persona che valorizza solo le competenze logico-deduttive, per di più in una forma schematica ed elementare, è una persona dimezzata, adatta ad un modello di controllo che aborre la fantasia e l’immaginazione, suscettibili di destabilizzare il sistema.

Più che quoziente d’intelligenza, bisognerebbe chiamarlo quoziente d’ignoranza, se è circoscritto ad una serie di rompicapo matematici. La matematica è una disciplina di notevole bellezza quando si avvicina alla filosofia, ma le sue applicazioni si sono rivelate perniciose per l’umanità. Non sarebbe preferibile vivere un’esistenza semplice ed ignara, piuttosto che, avendo scoperto i segreti della natura per dominarla e violentarla -Ruggero Bacone docet -, ritrovarsi in questo mondo mostruoso in cui il “progresso”, in primis matematico-scientifico-tecnologico, ha costruito una prigione di cemento sotto un cielo di alluminio?

Il matematico e filosofo lombardo Roberto Ardigò (1828-1920) morì, in veneranda età, suicida. Lasciò un biglietto con su scritto: “A che serve la vita?” Già, a che serve? A che serve, infine, la matematica?

3 commenti:

  1. Certo ci ha dato questo surrogato di "realtà", sempre meglio che niente, ma... L'ideale sarebbe unire yin e yang, ma non è facile. Ciao!

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  2. misurare l'intelligenza come lo facciamo oggi, è un insulto all'intelligenza stessa: sembra che sia più importante la soluzione di un complicatissimo calcolo (magari fine a se stesso) che una semplice riflessione (che magari ha dirette implicazioni sul modo di pensare di molte persone). Ad ogni modo concordo nel dire che toglierci una fetta della vera intelligenza sia un altro modo per imprigionare le nostre menti...

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  3. Ancora una volta sono d'accordo con te, Capitano Nemo. Misurare l'intelligenza: sempre numeri per persone numeri.

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