Natura facit saltus
Più volte ci siamo chiesti per quale motivo la "realtà" si sia addensata a tal punto che essa ha preso il sopravvento sulla coscienza. Il cerchio si è quasi chiuso: così il pensiero tradizionale (ad esempio, i Veda) si connette ad alcuni indirizzi pionieristici della scienza contemporanea, declinazioni che virano, inevitabilmente, verso l'ontologia e la metafisica. In parole semplici: pare che reale sia solo la coscienza universale con le sue manifestazioni individuali, mentre energia, spazio, tempo quasi certamente sono assi virtuali, proiezioni della mente.
E' questa la conclusione cui sono pervenuti molti di coloro (da Platone a Bohm) che hanno indagato la struttura del mondo. Si tratta di una conclusione cui sono giunti per vie diverse ed attraverso diverse esperienze, differenti intelletti: è quindi un risultato teoretico plausibile che tuttavia non scioglie alcuni nodi. Vediamo quali sono questi nodi: se la realtà vera è mentale, perché gli enti materiali paiono concreti e discreti, ossia di-visi? Per quale motivo la coscienza si è esteriorizzata, uscendo da sé? Quali conseguenze sono collegate a tale esteriorizzazione? Per quale ragione l'esteriorizzazione è permeata dal Male, dall'entropia?
Se l'Uno ha generato il due (dualità, di-visione, di-avolo), come riportare la dualità all'unità? Come può scaturire l'imperfezione dalla Perfezione, la Tenebra dalla Luce? Si ha l'impressione che la realtà materiale, con tutta la sua sordida e sorda refrattarietà, si sia, ad un certo punto ipostatizzata, svincolandosi dalla Sorgente. Questo è un altro problema che lascia supporre l'esistenza di una frattura tra l'Essere e la materia, il non essere che, in qualche modo, è. Se non si fosse creata questa frattura, allora potremmo influire sugli enti concreti con estrema facilità. Ora non sostengo che non sia possibile incidere sul virtuale con il pensiero, ma reputo che sia molto arduo.
Un'altra domanda decisiva è la seguente: se il mondo in cui crediamo di vivere è illusorio, allora anche il dolore lo è? Siddharta Gautama, pur considerando il tutto velo di Maya, si adoperò per liberare l'umanità dalla sofferenza concretata nella malattia, nella vecchiezza e nella morte. Si sfocia dunque nel paradosso secondo il quale è tutto apparente, inconsistente e fallace, tranne il dolore? E' logico? Mi pare di no. Dunque risulta più consequenziale il pensiero del marchese de Sade che, pur nell'ambito di un piatto e sterile pensiero materialista, afferma che il male non esiste, ricordando, nell'ambito delle sue dissertazioni filosofiche intercalate alle sequenze narrative dei suoi dissacranti romanzi, che uccidere veramente è impossibile: infatti l'assassino semplicemente scompone un aggregato di atomi, ma gli atomi di per sé, sono eterni ed indistruttibili.
Tutto si trasforma quindi, ma niente può essere distrutto. Sull'altro versante, il pensiero idealista ed olografico (da Berkeley ad Aspect), finisce, invece, in un cul de sac. Se la materia è solo apparenza, perché l'apparenza può soffrire in modo anche atroce e perché si avverte l'esigenza etica di preoccuparsi di ciò che è evanescente come un'ombra? Non si sarà aperto uno iato tra la dimensione dell'essere e quella del (non)-essere? Se ciò è accaduto, si deve forse ad un fatale errore nel programma? Sono queste delle domande. Non so se siano le domande giuste, ma sono comunque quesiti cui vorrei tentare di dare qualche abbozzo di risposta.
Più volte ci siamo chiesti per quale motivo la "realtà" si sia addensata a tal punto che essa ha preso il sopravvento sulla coscienza. Il cerchio si è quasi chiuso: così il pensiero tradizionale (ad esempio, i Veda) si connette ad alcuni indirizzi pionieristici della scienza contemporanea, declinazioni che virano, inevitabilmente, verso l'ontologia e la metafisica. In parole semplici: pare che reale sia solo la coscienza universale con le sue manifestazioni individuali, mentre energia, spazio, tempo quasi certamente sono assi virtuali, proiezioni della mente.
E' questa la conclusione cui sono pervenuti molti di coloro (da Platone a Bohm) che hanno indagato la struttura del mondo. Si tratta di una conclusione cui sono giunti per vie diverse ed attraverso diverse esperienze, differenti intelletti: è quindi un risultato teoretico plausibile che tuttavia non scioglie alcuni nodi. Vediamo quali sono questi nodi: se la realtà vera è mentale, perché gli enti materiali paiono concreti e discreti, ossia di-visi? Per quale motivo la coscienza si è esteriorizzata, uscendo da sé? Quali conseguenze sono collegate a tale esteriorizzazione? Per quale ragione l'esteriorizzazione è permeata dal Male, dall'entropia?
Se l'Uno ha generato il due (dualità, di-visione, di-avolo), come riportare la dualità all'unità? Come può scaturire l'imperfezione dalla Perfezione, la Tenebra dalla Luce? Si ha l'impressione che la realtà materiale, con tutta la sua sordida e sorda refrattarietà, si sia, ad un certo punto ipostatizzata, svincolandosi dalla Sorgente. Questo è un altro problema che lascia supporre l'esistenza di una frattura tra l'Essere e la materia, il non essere che, in qualche modo, è. Se non si fosse creata questa frattura, allora potremmo influire sugli enti concreti con estrema facilità. Ora non sostengo che non sia possibile incidere sul virtuale con il pensiero, ma reputo che sia molto arduo.
Un'altra domanda decisiva è la seguente: se il mondo in cui crediamo di vivere è illusorio, allora anche il dolore lo è? Siddharta Gautama, pur considerando il tutto velo di Maya, si adoperò per liberare l'umanità dalla sofferenza concretata nella malattia, nella vecchiezza e nella morte. Si sfocia dunque nel paradosso secondo il quale è tutto apparente, inconsistente e fallace, tranne il dolore? E' logico? Mi pare di no. Dunque risulta più consequenziale il pensiero del marchese de Sade che, pur nell'ambito di un piatto e sterile pensiero materialista, afferma che il male non esiste, ricordando, nell'ambito delle sue dissertazioni filosofiche intercalate alle sequenze narrative dei suoi dissacranti romanzi, che uccidere veramente è impossibile: infatti l'assassino semplicemente scompone un aggregato di atomi, ma gli atomi di per sé, sono eterni ed indistruttibili.
Tutto si trasforma quindi, ma niente può essere distrutto. Sull'altro versante, il pensiero idealista ed olografico (da Berkeley ad Aspect), finisce, invece, in un cul de sac. Se la materia è solo apparenza, perché l'apparenza può soffrire in modo anche atroce e perché si avverte l'esigenza etica di preoccuparsi di ciò che è evanescente come un'ombra? Non si sarà aperto uno iato tra la dimensione dell'essere e quella del (non)-essere? Se ciò è accaduto, si deve forse ad un fatale errore nel programma? Sono queste delle domande. Non so se siano le domande giuste, ma sono comunque quesiti cui vorrei tentare di dare qualche abbozzo di risposta.
Zret, se il programma fosse perfetto, ma il nostro libero arbitrio ci portasse a condurre una vita diversa dalla visione del disegno originario?
RispondiEliminaTutto di trasforma e varia da un punto di vista energetico, ma se ogni atomo vibra all'unisono nell'universo, tutto è collegato e permeato dalla stessa forza.
Anche il dolore e la gioia a quel punto possono essere universali, l'apparente convinzione che siano reali in quel momento per ognuno di noi, irreali e non manifestati su altri piani dimensionali.
Grazie, buona serata...
Lascio la parola agli esperti!
E' una possibile risposta: può essere che del libero arbitrio qualcuno abbia abusato. Forse, come congetturi, in altre dimensioni vive ciò che muore qui, come hanno ipotizzato alcuni fisici quantistici. Comunque è difficile trovare risposte univoche ed esaustive.
RispondiEliminaCiao e grazie.
Oscar Bettelli è un fisico che tratta argomenti complessi in modo semplice ed efficace. Sullo spazio-tempo che si curva, si veda, però, quanto scritto in Etere o non etere? (seconda parte) di prossima pubblicazione.
RispondiEliminaLa quinta dimensione
di Oscar Bettelli
Ecco una frase suggestiva, immaginarsi qualcosa fuori dal tempo e dallo spazio, una frase che pare chiara e che esprime una ben precisa idea a prima vista non equivocabile. Eppure tutta la nostra esperienza si fonda su queste due categorie dello spazio e del tempo (Kant); cosa possiamo immaginarci senza spazio e senza tempo ? La fisica con la teoria della relatività ci dice che lo spazio e il tempo sono intrinsecamente fusi in una unica entità: lo spazio-tempo; il tempo si trasforma in spazio e viceversa, inoltre una massa gravitazionale incurva lo spazio-tempo. Se rappresentiamo il tempo con un asse cartesiano e lo spazio con un altro asse cartesiano allora lo spazio-tempo è rappresentato da un piano, ecco che un punto che non giace sul piano è fuori dallo spazio e dal tempo nella nostra rappresentazione.
Come siamo giunti a ciò ? Con una analogia. Abbiamo supposto equivalenti i rapporti che esistono tra le rette di un piano e le categorie dello spazio e del tempo, abbiamo schiacciato lo spazio in una sola dimensione, attribuito al tempo una seconda dimensione e per la natura dello spazio che conosciamo a tre dimensioni ne è scaturita una dimensione libera che ci consente di uscire dallo spazio tempo. Questo suggerisce che possa esistere una quinta dimensione che ci consentirebbe di uscire dal nostro spazio-tempo a quattro dimensioni. Ma come sperimentare questa quinta dimensione ? Con alcune congetture siamo riusciti a pensare ad una quinta dimensione, ben altra questione è sperimentarne l'esistenza.
Di più se le dimensioni sono più delle quattro che usualmente sperimentiamo, ossia tre spaziali più il tempo, perché non ipotizzare che le dimensioni possano essere dieci o anche infinite ? Noi potremmo vivere in un universo ad infinite dimensioni senza rendercene conto !
Fatto sta che la nostra esperienza si basa su un universo a quattro dimensioni, di cui una, la dimensione temporale, è percorsa in un unico senso dal passato al futuro e non viceversa.
Queste considerazioni introducono ad alcuni aspetti rivelatori di come l'uomo costruisce le proprie congetture sul mondo. L'uomo costruisce le proprie teorie osservando le proprietà e le leggi tipiche della propria esperienza e trascendendo dalle esperienze originarie cerca un diverso campo di applicazione ragionando per analogia. La cosa sorprendente è che spesso questo metodo funziona, leggi e rapporti che sono validi in un certo ambito risultano essere validi anche in un ambito diverso e generalmente più ampio.
Tutto questo non significa che ciò che vale per il piccolo valga anche per il grande, la monade e l'universo, questo in generale non è vero; è vero però che leggi osservate nel piccolo sono ottimi suggerimenti di indagine che la mente esploratrice utilizza per afferrare le leggi più generali in un ambito più ampio, fatte le opportune distinzioni.
Come costruisce le proprie certezze una mente indagatrice ?
Innanzitutto è l'esperienza che costruisce la base delle teorie che verranno in seguito elaborate e con cui si confronteranno continuamente.
La nostra esperienza sensibile si fonda su cinque sensi, ma di indubbio peso è sicuramente la parola: noi generalmente ci fidiamo e prendiamo come veritiero ciò che gli altri ci vogliono insegnare; è un atteggiamento naturale per individui sociali quali noi siamo prestar fede agli altrui discorsi ed alle altrui esperienze. A volte però assumiamo un atteggiamento incredulo e vogliamo verificare personalmente ciò che ci viene raccontato.
Se non crediamo che lo spazio-tempo si incurvi in presenza di masse gravitazionali, allora cominciamo a studiare la teoria della relatività con tutte le argomentazioni che gli studiosi hanno messo a punto per dimostrarlo, e quand'anche fossimo giunti ad afferrare tutte le sfumature dell'argomento e avessimo verificato gli esperimenti effettuati a favore, anche in tal caso saremmo sempre liberi di non accettare la curvatura dello spazio-tempo come verità assoluta ed immutabile. D'altra parte non avremmo tempo a sufficienza per verificare nei minimi dettagli tutto quanto ci viene continuamente insegnato nel corso di una vita, per cui molto spesso ci fidiamo. Ma supponiamo che qualcuno venga a dirci che è stato nella quinta dimensione, improvvisamente scattano in noi una serie di meccanismi di incredulità e diffidenza, vorremmo essere portati a toccare con mano una simile esperienza così lontana dalle esperienze ordinarie a cui siamo abituati.
Supponiamo che ci venga risposto che occorre una lunga preparazione psicologica e comportamentale che richiede parecchio tempo e impegno. In tal caso saremmo probabilmente propensi a pensare che chi dice di aver fatto una simile esperienza sia un mistico visionario e non vi presteremmo fede. Supponiamo invece che ci venga risposto di seguire il nostro curioso interlocutore su una astronave spaziale che viaggerà a velocità prossime a quelle della luce, in tal caso ci immaginiamo proiettati in una condizione di esistenza talmente diversa dalla solita che probabilmente ci avventureremmo al seguito del nostro guru prestandogli fede; e saremmo convinti che il nostro viaggio ci porterà fuori dallo spazio e dal tempo. Eppure in tutto ciò l'unica differenza è la fede.
http://www.ecplanet.com/canale/scienza-1/fisica-20/1/0/35850/it/ecplanet.rxdf
se si fosse sempre creduto che gli uomini potessero volare? oggi voleremmo!!
RispondiEliminaio credo di si!!!
dobbiamo ragionarci??
un caro saluto a tutti.anto-az
Mah direi che la materia non è apparenza, piuttosto è uno stadio energetico/dimensionale...forse in questo senso è apparenza...
RispondiEliminaper quanto riguarda la sofferenza , credo che esista, per mantenere una sorta di equilibrio...
Che ci piaccia o no la vita sulla terra è fatta di dualismi...forse l'unico modo per arrivare alla sorgente, all'unità, è la morte.
Ciao
Il Principe Siddharta era un illuso quando pensava di aiutare gli uomini a liberarsi dalla sofferenza. Questa è ineludibile e trovo perfettamente ridicolo escogitare degli 'escamotages' onde non rimanerne preda. Sarebbe come rimandare in continuazione gli esami quando sai benissimo che, se vuoi laurearti, li devi affrontare.
RispondiEliminaDunque questo caposaldo del Buddhismo è sicuramente sbagliato.
Conviene invece lasciare che la sofferenza, qualora ci prenda di mira, ci assalga e si sfoghi su di noi in modo che, in quanto 'ente' in azione, esaurisca la sua energia e finalmente giunta ad esaurire la propria energa, stramazzi al suolo e ci lasci libera la coscienza dalle 'torme delle cure'. Sarà in questa vita o in un'altra magari remota, lontanissima? Non saprei.
Il Cristianesimo appare almeno in questo pù saggio del Buddhismo nel metterci davanti agli occhi un modello di dolore per eccellenza nell'icona del Crocefisso.
Pur non sentendomi più cristiano di quanto non sia buddhista o pagano o altro ( ma in realtà sento che non sono niente di tutto ciò poichè nessun dio si è mai a me manifestato in un modo o in un altro), riconosco al Cristianesimo il merito di aver messo l'enfasi sul dolore inelluttabile dell'esistere, inteso oltre a ciò anche come mezzo precipuo dell'evoluzione e dell'afinamento interiore. Anche se poi tale religione ha sbagliato nel non far capire che esistono stati dell'Essere che si trovano al di là sia del Bene che del Male.
Ti chiedi, Zret, se anche il dolore sia un'illusione. Da un certo punto di vista sicuramente si. Ma noi quel punto di vista noi non lo vediamo nemmeno in cartolina. Per il momento ci troviamo più che mai avvinti dal vortice samsarico.
Se il dolore è questione di punti di vista, noi abbiamo quel punto di vista.
RispondiEliminaDalla nostra piattaforma di visione, il dolore è reale.
Concordo Emanuel. E' purtroppo molto reale.
RispondiEliminaCiao