28 ottobre, 2008

La civetta

Articolo n. 1000

La civetta è un breve racconto di Tommaso Landolfi. E' difficile rendere la tragica bellezza di una novella che è soprattutto una descrizione di un'alba dai colori liquidi allagati da una luce prima fioca, poi radiosa, infine abbacinante. Landolfi usa le parole come fossero corpose pennellate con cui raffigurare lo scenario grandioso e terribile dove si consumano gli ultimi istanti di vita di una civetta colpita dalla cartuccia di un cacciatore.

E' necessario riportare qualche stralcio del testo per apprezzare la maestria pittorica di Landolfi.

Ecco l'incipit: "La civetta lentò il volo all'improvviso e si posò su una forca: un'uggia, un vago malessere cominciavano ad invaderla. Non è che già l'alba imbiancasse il cielo, ma pure d'oltre l'orizzonte cominciava ad incalzare e le stelle impallidivano un poco dalla parte d'oriente; avvicinandosi lo scatenato giorno, già un sospetto di chiaria velava gli occhi della civetta le più lontane cime. Di certo s'affrettava il funesto sole a passi di lupo per affacciarsi in un esoso trionfo di fra i gioghi".

Prezioso il brano in cui è dipinto il chiarore che si diluisce tra le colline ed il cielo: "S'argentavano gli olivi, il cielo, la brezza, le nubi; si doravano, si velavano di sangue. Polvere di smeraldi e di giade ondeggiava nell'alto ed il polveroso corallo dei cirri".

Il sole ormai sorto, dardeggiante raggi corruschi, è fissato in uno Spannung descrittivo: "Ruppe di botto il crestato signore del giorno e rapido grandeggiò fra le pietraie".

Da questi esempi emergono le qualità di una scrittura raffinata sino alla sontuosità, ma sempre venata da una dolorosa visione del mondo. Landolfi è scrittore, per certi versi, barocco, incline ad un'aggettivazione ridondante e ricercata, pungolato da un horror vacui che l''ispirazione sfrenata riempie di meravigliosi orrori, di ironici brividi, di incommensurabili particolari. Egli aveva intuito che la narrativa era destinata a morire, poiché si può solo raccontare l'immobile dramma dell'esistenza, in bilico tra l'assurdo e la morte per piantare lo spillo della scrittura su un pensiero abissale o su un brandello di "realtà".

Nel testo in esame, solenne poema della luce intesa come mortale fissità, il destino del pennuto, che sbarra i grandi occhi (reminiscenza della civetta pascoliana nei Poemi conviviali) e soffia disperatamente di fronte ai barbagli allucinanti, disegna il destino umano inchiodato al Da-sein, bruciato dalla vampa di un'impossibile gioia.

Nell'indifferenza cinica del cacciatore, che rinuncia al rapace notturno caduto vivo dall'albero, si consuma l'epilogo: "Ma, sebbene si sbattesse ancora lì a terra, davanti ad un cane che l'annusava diffidente e tentasse forse piccoli voli, pure la civetta non aveva più coscienza ed era felice".

Non avere più coscienza ed essere felici. Proprio così: solo nell'oblio, nel non essere, si rintana forse l'ultima illusione di felicità.



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6 commenti:

  1. Sì,nell'oblìo...forse...! Ma probabilmente la Felicità risiede anche nella condizione opposta: la Piena Coscienza di Sè! Scrivo questo,pur ammettendo che per essere felici in questo Sistema luciferino,ci vuole molta "fortuna"; diciamo pure che attualmente è contraddittorio vivere in questo mondo (che Cambia) ed essere felice!
    Uno ciao d'esordio,Zret! Spero di non essere stato molto invadente...!

    "VOMITARE&SOVVERTIRE"

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  2. Sognorosso, nella coincidentia oppositorum, gli antipodi si toccano e così la piena coscienza è felicità come l'assoluta incoscienza. Certamente non apparteniamo a questo mondo-Mund.

    Ciao e grazie.

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  3. Essere braccati DAI CACCIATORI è un crudo destino terreno, non solo per la povera civetta.
    Anche se poi ben viene la "liberazione" alla fine del racconto.
    L'ottimale sarebbe che il CACCIATORE facesse un altro mestiere e che ognuno potesse, dopo gli alti e i bassi della vita, "liberarsi" in modo più sensato, cioè naturale: quando è la sua ora. Una richiesta impossibile, lo so. E' questo che rattrista.
    Ciao.

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  4. Ginger, Landolfi è autore molto sensibile alla sofferenza degli animali.

    Il racconto ha certo una valenza metaforica: siamo come le civette e la liberazione non è impossibile.

    Ciao!

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  5. Un grande srittore, non c'è che dire. Ma come in quasi tutti gli scrittori e poeti italiani del Novecento, in Landolfi non compare nemmeno una virgola di spirituale, di metafisico.

    Stessa asciuttezza - o forse sarebbe meglio dire - deserto interiore che presiede alla visione del mondo di scrittori come Verga, come Pirandello.

    Eppure è un pò strano poichè dagli aggettivi che usa nella descrizione di oggetti e paesaggi si direbbe che in Landolfi esisteva una certa qual trasfigurazione del senso della vista. L'uso, ad esempio, di aggettivi come 'argentato', 'dorato', l'espressione 'polvere di smeraldo' e altre farebbero pensare che lo scrittore non vedeva l'ambiente circostante come il resto dei mortali.

    Pur senza arrivare alla 'cauda pavonis' di cui parlavano gli Alchimisti, vi sarebbe stata appunto in Landolfi una certa qual trasfigurazione interiore.

    Ma evidentemente non era così, visto il pessimismo di fondo ed incurabile della sua Weltanschauung.

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