17 aprile, 2010

Codice Genesi

“Codice Genesi” è la recente pellicola per la regia dei fratelli Albert ed Allen Hughes, con Denzel Washington, Mila Kunis e Gary Oldman, tra gli interpreti principali. Il titolo originale, snaturato nella versione italiana, è l’augusto "Book of Eli", trasparente e scontata allusione alla Bibbia. In un mondo post-nucleare, cumulo di rovine e deserto punteggiato di alberi scheletriti, il protagonista, un uomo solitario, cerca di portare in salvo la Bibbia, l'opera che può offrire una speranza all'umanità del futuro. Il pellegrino è osteggiato e blandito dal malvagio Carnegie (Gary Oldman), ma - come si conviene negli intrecci più bolsi - aiutato dalla di lui figlia, Solara (Mila Kunis).

Che il filone post-apocalittico abbia ormai stuccato, Hollywood sembra non accorgersi, visto che continua ad ammannire queste produzioni in cui alla povertà delle idee si tenta di sopperire con una pletora di citazioni colte e di significati pretenziosi. Qui addirittura, tra le altre fonti, si scomoda il capolavoro di Ray Bradbury, "Fahreneit 451", per imbastire un apologo didattico dove la Bibbia diventa simbolo ambiguo del potere e della conoscenza, come se gli uomini, liberatisi della soffocante mediazione costituita dalle gerarchie sacerdotali, dovessero comunque accettare la mediazione degli interpreti.

Quale sarà l'interpretazione corretta, quella che più avvicina alla verità? Chi, se non l'eroe integerrimo ed impavido, cerca e custodisce la Gnosi? Non sono quindi casuali, benché inopportuni, i riferimenti omerici nell'ulissiaco protagonista che vede perché cieco e che a Carnegie, il quale gli domanda "Chi sei tu?", risponde: "Nessuno" (sic). I valori emblematici nel film si sprecano (dal nome Eli, adombrante il profeta Elia ed Elohim, a Solara che riempie d'acqua la borraccia del sitibondo viandante, in una prosaica evocazione dell'età acquariana) e sono simili a quelle perline scintillanti, ma di nessun valore che i visi pallidi donavano ai nativi americani per ingraziarseli o per ottenere merci pregiate.

In effetti, si adotta una furbesca captatio benevolentiae nei confronti dello spettatore medio soprattutto statunitense che sul comodino tiene la Bibbia accanto alla scatola dei sonniferi. Il testo sacro, che non bruciava nei roghi con cui gli inquisitori incendiavano i libelli degli "eretici", è l'oggetto di una devozione monolitica, di una fede che rischia di sdrucciolare nel fondamentalismo di chi brandisce la Bibbia, senza averla mai letta. Non è forse una coincidenza se, in questo come in altri lavori cinematografici, il ruolo del campione è affidato ad un attante dal nome ebraico, quasi, alla fine, la prospettiva per l'avvenire dovesse passare per un sentiero determinato. [1]

Così, attraverso la grandiosità dei campi lunghi di un film in cui sceneggiatura e soggetto hanno il fiato corto, "The Book of Eli", culmina in un'Apocalissi… ma senza alcuna Rivelazione.

[1] Si pensi al bellissimo Dark city.


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APOCALISSI ALIENE: il libro

4 commenti:

  1. Caro Zret, ti seguo sempre anche se ultimamente causa salute precaria - visite e test clinici - faccio curare spesso il mio blog da persona di fiducia. Sai ho materiale per una trilogia di Scandurra. A parte le cose mie, ti faccio i miei complimenti, ma ormai sono obbligatori, per il livello qualitativo e ispirativo del tuo spazio virtuale. Il film in questione lo hai benissimo recensito e interpretato al meglio. C'è un onda psichica collettiva che ci avvicina a tematiche apocalittiche, anche quando i produttori cinematografici ne sfruttano la moda, concorrono loro malgrado a rendere leggibili tali forze. Lo fanno con la roncola, beninteso. Ma lo fanno. Rendono palesi i miti, le paure, le speranze di un mondo alla fine. In Italia c'è Svaporidis, gli amorazzi giovanilistici o le pecorecce avventure ai Caraibi, terremoto permettendo.
    La fine prossima ventura, non avrà confessioni privilegiate con passaporto verso la dimensione promessa, cattolici o ebrei o islamici, indù o taoisti ecc. ecc. dovremo tutti, chi più chi meno fare i conti con il nostro paesaggio interiore, fertile o desertico dipende dai casi. Lo spirito non fa sconti.
    Angelo Ciccarella

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  2. Gentilissimo, ti ringrazio per le belle parole che contraccambio. Ti auguro di ristabilirti al più presto e che tu possa tornare quanto prima ad occuparti del tuo blog, su cui seguo gli incontri con Scandurra.

    "La fine prossima ventura, non avrà confessioni privilegiate con passaporto verso la dimensione promessa, cattolici o ebrei o islamici, indù o taoisti ecc. ecc. dovremo tutti, chi più chi meno fare i conti con il nostro paesaggio interiore, fertile o desertico dipende dai casi. Lo spirito non fa sconti".

    Credo proprio sia così.

    Ciao e grazie.

    P.s. Svaporidis appartiene ad un cinema evaporato.

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  3. Grande Zret, io invece seguo il tuo blog non solo per i contenuti che mi fanno riflettere molto , ma anche per il tuo lessico fantastico. A mio avviso, scrivere è come dipingere, un quadro. Tu stai creando dei capolavori. Tornando a questo film devo dire che l'ho visto e non mi è piaciuto proprio per il messaggio che dava, troppo evangelico. Per dirla tutta, di questi tempi, comincio nutrire dei seri dubbi sul significato reale della bibbia stessa. Sarò pessimista.....

    Un abbraccio da Jena

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  4. E' vero, Jena, (ti sei scelto uno pseudonimo che sono certo vale e contrario, senza dimenticare che le jene sono animali che assolvono un ruolo preciso nella natura) "scrivere è come dipingere un quadro". Come molti quadri, che implicano ripensamenti, anche i testi sono il risulato spesso di laboriose stesure.

    Giustamente Angelo Ciccarella nota che il cinema statunitense, a differenza del misero e pecoreccio cinema italiano, è più sensibile alle sollecitazioni dei cambiamenti, benché l'eccesso di simbolismi renda Codice Genesi un film pesante e presuntuoso.

    Ciao e grazie

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