"Le case vicino al torrente" è l'unico romanzo scritto da Luciano De Giovanni, poeta nato a Sanremo nel 1922 e morto a Montichiari nel 2001. Con questo "libro di memorie, più che autobiografia" (S. Verdino), l'autore, in brevi capitoli, rievoca uomini, donne ed animali incrociati tra l'infanzia e la maturità. La narrazione tende a bloccarsi in ritratti, per gettare un barlume sul profilo di presenze, restituite per un attimo vive, palpitanti. Lo stile sobrio ed il tocco leggero evitano sia indugi descrittivi sia riflessioni sull'inconsistenza delle esperienze umane, affidando alle cose ed agli eventi, da quelli quotidiani alle avversità della guerra, il compito di abbozzare un possibile disegno.
Si alternano così incontri e scorci di "fasce" coltivate ad ortaggi ed a vigne, interni intimi e squarci di mare in lontananza: sono episodi e scenari che De Giovanni riscopre con doloroso distacco, senza indulgere né alla nostalgia né cercando di estrarne un senso. Ogni incontro, non appena avviene, è già una perdita: abissi di silenzio ci separano dagli altri e gli avvenimenti si prosciugano come ombre al sole di mezzogiorno. "Fra le cose che accadevano e quelle che immaginavo non ponevo un preciso limite. Ne gustavo il vago sapore. Non avrei saputo spiegarlo: il gusto, può darsi, della vita che non sappiamo cogliere che pure preme, chiama di là dei confini".
La vita si sfalda, mentre una linea scura si insinua nel cuore. Con sommessa rassegnazione, il protagonista confronta gli anni in cui le colline di Sanremo erano disseminate di piccole case, tra ortivi e limoneti, con la successiva espansione urbanistica il cui danno non è solo nello scempio di valli e declivi, quanto nello sradicamento dalla terra, da un'esistenza dura ma viscerale. Chi ha assistito a questi cambiamenti soffre lo stesso silenzioso dolore che strappa le pagine finali del libro, dove il commiato dalle origini rende ancora più amaro il dolce che ancora si assapora in bocca, il ricordo dell'infanzia.
“Avrei voluto mutarmi in pietra, in tronco d’albero, partecipare più intensamente di questo mondo segreto del quale m’ero, chissà perché chissà per come, dimenticato. In ogni caso – e lo sapevo – m’era negato ormai. Non resistevo più di tanto: bastava un niente a riportarmi alla mia magra realtà”.
La vita si immerge nella caducità, poiché "nulla dura in questo strano mondo di pentimenti" e perché "la morte vince sempre": l'epilogo del romanzo scolora nella lieve dipartita del padre, in un mesto pomeriggio.
Alla fine l'autore con un filo di voce sembra chiedersi se sia più vano l'inafferrabile presente o il deserto ormai muto del passato.
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Si alternano così incontri e scorci di "fasce" coltivate ad ortaggi ed a vigne, interni intimi e squarci di mare in lontananza: sono episodi e scenari che De Giovanni riscopre con doloroso distacco, senza indulgere né alla nostalgia né cercando di estrarne un senso. Ogni incontro, non appena avviene, è già una perdita: abissi di silenzio ci separano dagli altri e gli avvenimenti si prosciugano come ombre al sole di mezzogiorno. "Fra le cose che accadevano e quelle che immaginavo non ponevo un preciso limite. Ne gustavo il vago sapore. Non avrei saputo spiegarlo: il gusto, può darsi, della vita che non sappiamo cogliere che pure preme, chiama di là dei confini".
La vita si sfalda, mentre una linea scura si insinua nel cuore. Con sommessa rassegnazione, il protagonista confronta gli anni in cui le colline di Sanremo erano disseminate di piccole case, tra ortivi e limoneti, con la successiva espansione urbanistica il cui danno non è solo nello scempio di valli e declivi, quanto nello sradicamento dalla terra, da un'esistenza dura ma viscerale. Chi ha assistito a questi cambiamenti soffre lo stesso silenzioso dolore che strappa le pagine finali del libro, dove il commiato dalle origini rende ancora più amaro il dolce che ancora si assapora in bocca, il ricordo dell'infanzia.
“Avrei voluto mutarmi in pietra, in tronco d’albero, partecipare più intensamente di questo mondo segreto del quale m’ero, chissà perché chissà per come, dimenticato. In ogni caso – e lo sapevo – m’era negato ormai. Non resistevo più di tanto: bastava un niente a riportarmi alla mia magra realtà”.
La vita si immerge nella caducità, poiché "nulla dura in questo strano mondo di pentimenti" e perché "la morte vince sempre": l'epilogo del romanzo scolora nella lieve dipartita del padre, in un mesto pomeriggio.
Alla fine l'autore con un filo di voce sembra chiedersi se sia più vano l'inafferrabile presente o il deserto ormai muto del passato.
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Credo che pochi abbiano letto le sue poesie, poesie di una semplicità di altri tempi, ma così attuali in un mondo che distratto passa sopra ad ogni cosa senza soffermarsi un attimo a cogliere la bellezza della semplicità del vivere.
RispondiEliminaIl Luciano De Giovanni, lo posso definire come un pittore ad acquerello che impressiona la sua tela in un carrugio sottoscala, un poeta affine alla lirica anche se restio a pubblicare le sue opere.
La sua poesia ed il suo modo semplice (ma consapevole) di scrivere, anche quando la vita si fa più cupa, è di una semplicità disarmante ma con un contenuto che quando la leggi vedi quei posti come in un film, le sue poesie sono dei film che la gente ormai non sa più tradurre in immagini.
wlady
E' un vero piacere apprendere che tu, Wlady, conosci questo poeta semplice ed introspettivo. Hai saputo apprezzarne lo stile e l'ispirazione sorgiva.
RispondiEliminaRicordo che, tempo fa, pubblicasti una commovente pagina in cui descrivevi, con sapiente e contenuta nostalgia, la Liguria... di un tempo.
Ciao e grazie.
Il processo che De Giovanni descrive nei suoi scritti corrisponde a quello che uno psicologo non del tutto profano quale James Hillman ha denominato 'perdita di anima'. Ed anche a quello che, da un punto di vista metafisico, Guénon etichettò come perdita della dimensione qualitativa della manifestazione all'interno del processo ciclico di involuzione.
RispondiEliminaProcesso dapprima lento e quasi impercettibile ma poi sempre più accelerato fino a divenire rovinoso nell'ultima parte del ciclo stesso.
Ma si dice che niente vada perso e che tutte le emozioni e tutti i sapori di quanto ci circonda vengano come tesaurizzati in quell'immenso serbatoio che i neoplatonici e gli ermetisti chiamavano 'Anima Mundi'.
Per inciso, anche Virgilio, ormai urbanizzatosi, rievocò nelle Georgiche il contesto magico della dimensione agreste vissuta nella campagna mantovana durante i verdi anni.
Evidentemente il meccanismo psicologico all'opera rimane sempre lo stesso, nel poeta antico come nei suoi epigoni contemporanei.
Tutto è custodito nell'Akasha? Nulla si perde veramente? Probabile.
RispondiEliminaCiao e grazie.
Bellissimo, non lo conoscevo ma i versi riportati pungono sul vivo, e oserei per fortuna, utilizzando il termine "vivo" nel senso della consapevolezza del cammino accompagnato dal fluire del dolore il quale, solo per contrasto, mai per usufrutto puo´far scegliere di vivere o morire e non certo nelle membra.
RispondiEliminaAntonella, giustamente Paolo notava che il processo descritto nel breve romanzo di De Giovanni si può definire "perdita di anima", ma solo ciò che è perso può essere ritrovato e con surplus.
RispondiElimina"Avrei voluto mutarmi in pietra, in tronco d’albero". Si avverte qui un panismo, un anelito di comunione che, nella nostalgia di una perfezione originaria, indica la direzione giusta.
Ciao e grazie.
Si, e non é certo una facile individuazione, ma é sempre stata lí. Ma come dici tu é quella giusta. Forse solo questo individua il bene o il male nel senso.. energetico del termine. Peró non ci sono percorsi complicati, é semplice. Dovrebbe essere cosi, invece si é tutto capovolto; si é fatto in modo che l´arrivare a tale essenza diventasse un districarsi di rovi.
RispondiEliminaLa pagine finali del libro
RispondiEliminastrappano
lo stesso silenzioso dolore.
Sono le pagine finali del libro che strappano il dolore e non il dolore che strappa le pagine.
A meno che tu non voglia indicarci una catarsi di tale portata da disfare il libro fra le mani del lettore.
Con te, tutto è possibile.
No. Connotazione.
RispondiEliminaIl silenzioso dolore non può avere, a mio avviso, quella connotazione; esso non agisce, è sommesso e chiuso in sè stesso.
RispondiEliminaIl dolore, comunque, resta esperienza strettamente personale.
Vexata quaestio.
Traduco: "strappa" nel senso metaforico di "culmina". Il silenzio è sovente il grido più straziante. Non scrisse Seneca che i dolori più atroci sono quelli muti?
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