L’uomo è incline a catalogare, ad etichettare: la grammatica, dal settore linguistico, viene facilmente traslata nel mondo della vita. Ecco: viene costruita la grammatica della vita e la vita si sclerotizza nelle forme. L’uomo tende spesso a categorizzare: tale inclinazione, nata come esigenza di ordine, come “sfida al labirinto (I. Calvino), degenera in un’attitudine all’incasellamento più rigido, proprio laddove tale esigenza non si può applicare. La vita e la coscienza rifuggono da ogni schema, da ogni norma normalizzante. La vita viola le norme, le coercizioni. Insofferente di limiti, anela ad espandersi oltre l’oltre. Essa si riconosce nelle regole, principi regali e profondi attinti dal Sé, ma spezza le catene delle costrizioni empiriche e concettuali.
Quando qualcuno ci chiede se crediamo in Dio, in lui agisce in modo più o meno inconscio, il solito istinto classificatorio, di stampo dualistico. Bisognerebbe rispondergli: “Non so se Dio creda in me oppure no”. La risposta che incenerisce la domanda, provocatoria e paradossale, è la vera risposta. Se poi la provocazione è spinta, proiettata anzi fino al koan, l’affermazione apparentemente assurda e straniante, avremo reso la pariglia all’interlocutore che intende chiuderci nella trappola del gruppo. Cristiano, buddhista, induista, musulmano, ebreo, ateo, agnostico…: tutte classificazioni, generalizzazioni più false che detestabili.
Credere in Dio? E se fossimo dei credenti perplessi o degli atei fidenti o dei cercatori? Se la realtà trasgredisce il principio di non contraddizione, perché noi dovremmo essere sempre logici, razionali, quadrati? Se l’esistenza ci pone di fronte ad interrogativi, se essa smentisce sé stessa in ogni istante e rovescia i suoi assiomi, se la vita è permeata di morte, se si nega affermandosi, dovremmo noi ridurre il nostro essere alla bidimensionalità di un’etichetta? La vera identità non si lascia identificare, perché è anima e “per quanto tu possa camminare – scrive Eraclito l’oscuro - e neppure percorrendo intera la via, tu potresti mai trovare i confini dell'anima.”
Le verità che offriamo sono simili a fiocchi di neve che cadono sul deserto: si sciolgono, ancora prima di sfiorare il suolo. Come possiamo dispensare la verità assoluta a proposito di una “realtà” su cui possiamo formarci solo delle speculazioni e teorie che difficilmente non entreranno in contrasto con la logica e con gli elementi percepiti dai sensi? Scrivono Shea e Wilson: “Questa mancanza di contraddizioni è rara: alcuni conflitti tra la teoria e la logica non vengono scoperti per secoli (per esempio, l’allontanamento di Mercurio dal calcolo newtoniano della sua orbita). Anche quando la si ottiene, l’assenza di incongruenze è soltanto la prova che la teoria non è totalmente falsa: mai in nessun caso, dimostra che la teoria è totalmente vera, dato che un numero indefinito di teorie simili può essere elaborato in ogni momento, partendo da dati conosciuti.”
Così le scienze esatte (esatte nella loro perfetta astrazione, avulse come sono dal cuore dell’esperienza umana), si rivelano le più inidonee per comprendere la natura intima delle cose, proprio come i giudizi che vengono trinciati sugli altri, sulla base per lo più di impressioni e pregiudizi. Siamo ossimori viventi, antitesi inconciliabili, antinomie dirompenti: le nostre parole assurgono a disfatta, non appena dimenticano l’assurdo ed il silenzio.
“Non giudicate e non sarete giudicati”: anche perché il giudizio mancherà clamorosamente il bersaglio, come una freccia scoccata a caso da un arciere bendato.
Quando qualcuno ci chiede se crediamo in Dio, in lui agisce in modo più o meno inconscio, il solito istinto classificatorio, di stampo dualistico. Bisognerebbe rispondergli: “Non so se Dio creda in me oppure no”. La risposta che incenerisce la domanda, provocatoria e paradossale, è la vera risposta. Se poi la provocazione è spinta, proiettata anzi fino al koan, l’affermazione apparentemente assurda e straniante, avremo reso la pariglia all’interlocutore che intende chiuderci nella trappola del gruppo. Cristiano, buddhista, induista, musulmano, ebreo, ateo, agnostico…: tutte classificazioni, generalizzazioni più false che detestabili.
Credere in Dio? E se fossimo dei credenti perplessi o degli atei fidenti o dei cercatori? Se la realtà trasgredisce il principio di non contraddizione, perché noi dovremmo essere sempre logici, razionali, quadrati? Se l’esistenza ci pone di fronte ad interrogativi, se essa smentisce sé stessa in ogni istante e rovescia i suoi assiomi, se la vita è permeata di morte, se si nega affermandosi, dovremmo noi ridurre il nostro essere alla bidimensionalità di un’etichetta? La vera identità non si lascia identificare, perché è anima e “per quanto tu possa camminare – scrive Eraclito l’oscuro - e neppure percorrendo intera la via, tu potresti mai trovare i confini dell'anima.”
Le verità che offriamo sono simili a fiocchi di neve che cadono sul deserto: si sciolgono, ancora prima di sfiorare il suolo. Come possiamo dispensare la verità assoluta a proposito di una “realtà” su cui possiamo formarci solo delle speculazioni e teorie che difficilmente non entreranno in contrasto con la logica e con gli elementi percepiti dai sensi? Scrivono Shea e Wilson: “Questa mancanza di contraddizioni è rara: alcuni conflitti tra la teoria e la logica non vengono scoperti per secoli (per esempio, l’allontanamento di Mercurio dal calcolo newtoniano della sua orbita). Anche quando la si ottiene, l’assenza di incongruenze è soltanto la prova che la teoria non è totalmente falsa: mai in nessun caso, dimostra che la teoria è totalmente vera, dato che un numero indefinito di teorie simili può essere elaborato in ogni momento, partendo da dati conosciuti.”
Così le scienze esatte (esatte nella loro perfetta astrazione, avulse come sono dal cuore dell’esperienza umana), si rivelano le più inidonee per comprendere la natura intima delle cose, proprio come i giudizi che vengono trinciati sugli altri, sulla base per lo più di impressioni e pregiudizi. Siamo ossimori viventi, antitesi inconciliabili, antinomie dirompenti: le nostre parole assurgono a disfatta, non appena dimenticano l’assurdo ed il silenzio.
“Non giudicate e non sarete giudicati”: anche perché il giudizio mancherà clamorosamente il bersaglio, come una freccia scoccata a caso da un arciere bendato.
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RispondiEliminaL'eterno ritorno all'indeterminatezza della vita. Ogni avvenimento che accade è positivo o negativo? Ovviamente la risposta non c'è, o ce ne sono infinite.
RispondiEliminaForse che la scienza non si è sempre mossa più sull'intuizione che sulle teorie accademiche? E non trovano forse la loro legittimazione se non in funzione delle successive teorie, che le supereranno per poi proseguire su una strada di "evoluzione" che in realtà non potrà mai giungere a conclusione?
Come hai ben sottolineato non ci resta che ricorrere al più profondo dei giudizi: il silenzio.
Glossa che sottoscrivo in toto, Massimiliano. La scienza dovrebbe dimostrare umiltà, invece che insuperbirsi delle sue transeunti conquiste.
RispondiEliminaCiao e grazie.
Sono d'accordissimo con ciò che hai scritto.
RispondiEliminaCiao Rossano.
RispondiElimina:)
aiutoo, ma dove hai studiato? cioè da dove sei uscito? Simpaticamente parlando s'intende. Non ho capito bene su cosa verte il discorso. Io mi pongo domande certo e medito ma, giuro che di risposte ne ho. Ma probabilmente non ho capito il problema di fondo. Gentilmente mi riassumi in parole povere, appena hai tempo s'intende. ciaooo
RispondiEliminaFrancesca, in parole semplici, la riflessione è una critica delle etichette e di chi vuole etichettare ad ogni costo.
RispondiEliminaCiao
ok..scusa non avevo proprio capito niente. L'etichettamento spesso ce lo autoapplichiamo, ancora prima di farlo con gli altri.
RispondiEliminaForse etichettare ci serve per distinguerci o riconoscerci. Io non posso non decidere chi mi è vicino e chi voglio tenere lontano e di conseguenza applico delle etichette o no? Aiutoo sono un'etichettatriceee, lo faccio sì ma non condanno nessuno, questo sia chiaro, anche se su certe cose sono abbastanza estremista nell'estromettere...