“L’anima e il suo destino” è il titolo di un saggio del teologo Vito Mancuso. Il libro ha suscitato infuocate polemiche, poiché l’autore, pur dichiarandosi cattolico, mette in discussione alcuni dogmi di Santa Madre Chiesa. In effetti, mi domando per quale motivo Mancuso continui ad aderire al Cattolicesimo, visto che ne contesta gran parte della discutibile dottrina. Non intendo qui recensire il volume che non è privo di qualche pregio, benché costruito su premesse scientifiche e filosofiche alquanto farraginose. E’, però, lodevole che l’autore si interroghi circa i novissimi, sull’orizzonte ultraterreno dell’uomo, accantonate le questioni sociali o pseudo-etiche cui indulgono in modo corrivo sacerdoti e vescovi dal pulpito e soprattutto in televisione.
Il saggio in oggetto è dunque uno sprone per collocare tra parentesi temi insulsi e cercare risposte sul nostro destino. Il tema dell’immortalità dell’anima, dibattuto sin dagli albori della filosofia, è oggi per lo più ignorato: la scienza quasi sempre identifica l’anima con il cervello, dichiarandone de facto la caducità; la filosofia preferisce esplorare altri territori. Resta, però, ineludibile la domanda: che cosa ci attende, dopo che sarà conclusa l’esperienza su questo pianeta? Le risposte sono sostanzialmente tre: il nulla, l’esistenza in un altro corpo, un’altra vita in una realtà non fisica.
Tutto sommato, la prima ipotesi non è poi così indesiderabile, viste le torture e le storture della condizione umana, tormenti che non sappiamo se la morte cancellerà ipso facto o no.
A proposito della seconda possibilità, mi sono già espresso nell’articolo “Reincarnazione” cui rimando.
Bisogna ora sfiorare la terza congettura. Qui mi comporto da avvocato del diavolo e riconosco che, nonostante gli studi condotti sulle near death experiences ed il lascito di antiche, venerande tradizioni, a tutt’oggi l’idea di immortalità dell’anima resta labile ed affidata alla fede del singolo, a meno che non si abbia esperienza delle sfere invisibili. I racconti dei “ritornati in vita”, pur essendo indizi significativi, di per sé non dimostrano molto: potrebbero essere, infatti, il risultato di ricordi e di immagini introdotti dall’”esterno”. Il tanatologo Cesare Boni, convinto assertore dell’immortalità dell’anima, asserisce che i defunti ed i luoghi scorti da chi varca il limitare tra la dimensione terrena ed il regno oltremondano sono generati dalla coscienza stessa: non sono dunque “oggettivi”, essendo archetipi sedimentati nell’inconscio che l’io desta nel momento cruciale del trapasso. Di per sé non provano che, dopo il momento fatale, si dipani un’altra vita e ci si inoltri in una plaga metafisica.
Comunque stiano le cose, è palese che l’uomo difficilmente rinuncia a nutrire la speranza che la sua identità non si perda, una volta scritta la parola “fine”.
Alcuni confidano nella resurrezione del corpo, credenza probabilmente di matrice persiana che, se non si intende il soma come un quid trascendente la pura materialità (il corpo glorioso di Shaul), rischia di sdrucciolare in una concezione grossolana, prefigurando per gli eletti un paradiso simile ad un noioso villaggio turistico. Si è che l’eternità non è nel tempo, mentre il corpo (anche rigenerato) è nello spazio-tempo, ossia in uno stato incompatibile con la beatitudine. Vogliamo forse vagheggiare un mondo in cui si conservino indefinitamente le spoglie fisiche?
Se l’anima esiste, non è ilica: così è libera dal carcere spazio-temporale, causa di ogni patimento. Il suo stato è forse contiguo ad un sereno nulla o, per lo meno, ad un’estasi leggera, eterea, impalpabile. Se l’anima non esiste, l’individualità si sbriciola con il soma e… morta lì.
Esiste la vita dopo la morte? E’ questa la domanda che echeggia nel vuoto della nostra ignoranza.
Un altro interrogativo è forse, però, più abissale: esiste la vita dopo la nascita?
Il saggio in oggetto è dunque uno sprone per collocare tra parentesi temi insulsi e cercare risposte sul nostro destino. Il tema dell’immortalità dell’anima, dibattuto sin dagli albori della filosofia, è oggi per lo più ignorato: la scienza quasi sempre identifica l’anima con il cervello, dichiarandone de facto la caducità; la filosofia preferisce esplorare altri territori. Resta, però, ineludibile la domanda: che cosa ci attende, dopo che sarà conclusa l’esperienza su questo pianeta? Le risposte sono sostanzialmente tre: il nulla, l’esistenza in un altro corpo, un’altra vita in una realtà non fisica.
Tutto sommato, la prima ipotesi non è poi così indesiderabile, viste le torture e le storture della condizione umana, tormenti che non sappiamo se la morte cancellerà ipso facto o no.
A proposito della seconda possibilità, mi sono già espresso nell’articolo “Reincarnazione” cui rimando.
Bisogna ora sfiorare la terza congettura. Qui mi comporto da avvocato del diavolo e riconosco che, nonostante gli studi condotti sulle near death experiences ed il lascito di antiche, venerande tradizioni, a tutt’oggi l’idea di immortalità dell’anima resta labile ed affidata alla fede del singolo, a meno che non si abbia esperienza delle sfere invisibili. I racconti dei “ritornati in vita”, pur essendo indizi significativi, di per sé non dimostrano molto: potrebbero essere, infatti, il risultato di ricordi e di immagini introdotti dall’”esterno”. Il tanatologo Cesare Boni, convinto assertore dell’immortalità dell’anima, asserisce che i defunti ed i luoghi scorti da chi varca il limitare tra la dimensione terrena ed il regno oltremondano sono generati dalla coscienza stessa: non sono dunque “oggettivi”, essendo archetipi sedimentati nell’inconscio che l’io desta nel momento cruciale del trapasso. Di per sé non provano che, dopo il momento fatale, si dipani un’altra vita e ci si inoltri in una plaga metafisica.
Comunque stiano le cose, è palese che l’uomo difficilmente rinuncia a nutrire la speranza che la sua identità non si perda, una volta scritta la parola “fine”.
Alcuni confidano nella resurrezione del corpo, credenza probabilmente di matrice persiana che, se non si intende il soma come un quid trascendente la pura materialità (il corpo glorioso di Shaul), rischia di sdrucciolare in una concezione grossolana, prefigurando per gli eletti un paradiso simile ad un noioso villaggio turistico. Si è che l’eternità non è nel tempo, mentre il corpo (anche rigenerato) è nello spazio-tempo, ossia in uno stato incompatibile con la beatitudine. Vogliamo forse vagheggiare un mondo in cui si conservino indefinitamente le spoglie fisiche?
Se l’anima esiste, non è ilica: così è libera dal carcere spazio-temporale, causa di ogni patimento. Il suo stato è forse contiguo ad un sereno nulla o, per lo meno, ad un’estasi leggera, eterea, impalpabile. Se l’anima non esiste, l’individualità si sbriciola con il soma e… morta lì.
Esiste la vita dopo la morte? E’ questa la domanda che echeggia nel vuoto della nostra ignoranza.
Un altro interrogativo è forse, però, più abissale: esiste la vita dopo la nascita?
Credo che la vita e la morte sia tutto un divenire continuo: la vita, è un solo ininterrotto flusso di coscienza.
RispondiElimina"La morte come noi la intendiamo, come ci è stata insegnata e tramandata, semplicemente non esiste."
"Al momento della morte non vi è interruzione di flusso di coscienza."
"La vita e la morte sono un solo ininterrotto flusso di coscienza."
"E' una esperienza comune a tutti che al momento del passaggio non ci si accorga di essere morti, si abbia la consapevolezza di essere ancora ben vivi, si vede, si sente, si parla, si tocca, si odora, ma i viventi non ci vedono, non ci sentono, non ci parlano, non si sentono toccati."
Questo è in sintesi di quello che ci viene detto, il mio pensiero va completamente in senso opposto: per me il divenire materia è indice di sofferenza fino dal concepimento, perlopiù in un mondo che ci è ostile; il freddo la fame, il caldo, il dolore mentale che fisico ci chiude in una gabbia che ci accompagna fino alla dipartita.
Ho letto molti libri e vari scritti di persone, guru, religiosi, ecc. ecc. tutti hanno le loro risposte benevoli, con certezze che si ritornerà a vivere in un corpo nuovo fintanto che il "Karma" sarà mondato dagli errori delle vite passate.
Mi auguro vivamente che quando giungerà l'ora liberatoria, l'energia di cui siamo fatti, vada ad unirsi da dove tutto è scaturito, senza più ricordi di vite passate, e senza più dover ritornare ad essere materia.
wlady
PS: se non erro abbiamo già scritto in passato di questo argomento, del "Bardo" e della "Reincarnazione"; comunque è sempre attuale, anche se non ci è dato capire per l'ignoranza e la cattiva informazione (voluta) che si perpetua da millenni da parte degli arcontici demiurghi.
Concordo in toto con Te, Wlady. Abbiamo già sviscerato l'argomento che si lega anche al tema del male. Ebbene, comunque la pensino insigni filosofi ed esoteristi, credo che, come scrisse Anassimene, il male è nelle cose. Il "peccato originale" è all'origine, nell'essere che si estrinseca nella materia e nello spazio-tempo.
RispondiEliminaMolte sono le risposte consolatorie sulla morte, mentre pensare che l'esistenza debba continuare in una condizione imperfetta o di dolore è inaccettabile.
Ciao
Errata corrige: Anassimandro
RispondiEliminaNel passo sopra riportato, Anassimandro, il filosofo dell’apeiron (lo si traduca con “indeterminato” e non con “infinito”) sembra rispecchiare il concetto orfico di colpa originaria. Il frammento, giuntoci per tradizione indiretta, è oscuro ed involuto, ma decisivo nel suo nucleo semantico che definisce un errore primigenio. Se l’errore è letteralmente errare, ossia movimento, si comprende la sua consustanzialità all’essere, allorquando si manifesta nel cerchio spazio-temporale.[1] Il pensatore intreccia tragicamente la “nascita” (in greco “physis” che è anche “natura” e la natura è madre perennemente generatrice: il suffisso “attivo e produttivo” –ura lo attesta) con la “rovina”.
Il nascimento è l’energia cosmica che crea e disgrega. Ab origine Anassimandro coglie il cedimento ontologico, in un’ottica fatalista sottolineata dalle espressioni “ciò che deve essere” e da “secondo il decreto”. Tale deviazione iniziale è causa e conseguenza insieme dell’”ingiustizia” (insufficienza) inerente alle cose: è lo stato di difetto che implica sia la “punizione”, cioè l’espiazione dell’errore, sia la “vendetta” che allude forse ad un riscatto alla fine dei tempi o del ciclo. La redenzione è il suggello della nemesi, poiché nulla può essere riparato senza sacrificio. L’ingiustizia degli enti è negli enti in quanto tali e non nelle loro determinazioni. Così il cosiddetto “peccato originale” più che essere la decisione (libera?) da cui dipese la caduta dei protoplasti e della loro progenie, pare retrocedere verso un atto precedente.
Il sapere che rifiuta questo principio è condannato ad adagiarsi nell’inganno e nel narcotico della perfezione, non riuscendo a dar conto dello sdrucciolamento.
In questo solco interpretativo, l’aforisma di Carlo Michelstaedter, “la nascita è il caso mortale”, strappato dalle sue radici esistenziali, si staglia, duro e netto, su un orizzonte metafisico.
“Le cose da cui proviene la nascita alle cose che sono, peraltro sono quelle in cui si sviluppa anche la rovina, secondo ciò che deve essere: le cose che sono, infatti, subiscono l'una dall'altra punizione e vendetta per la loro ingiustizia, secondo il decreto del Tempo”.
RispondiElimina(Simplicio, Commento alla "Fisica" di Aristotele
Caro Zret, bellissimo,il tuo ultimo post. Sono del parere, che la caduta in questo sistema spazio-tempo, sia in effetti una sorta di condanna architettata dalle forze avverse, arcontiche, per poter suggere preziose energie dell'anima ed impedire o rallentare la Vera Conoscenza dell'Essere, che , non penso possa trovare spiegazione esauriente, in questo sistema di "vita-sonno". L'umanità è profondamente addormentata nonchè, immersa in una sorta di pozzo nero, caratterizzato dall'ignoranza del Sè: i drammi umani sono creati "a tavolino" per dirigere le coscienze verso il basso ed impedire, sempre più, di guardare verso le sfere dell'Oltre. La morte dovrebbe essere il punto fermo nelle riflessioni di ogni individuo che desideri cercare la Via e comprendere, così, la vacuità di questo sistema spazio-tempo, immerso nell'inganno, nel dolore, e nell'illusione.
RispondiEliminaSì, Andrea, questa dimensione è caduta nella caducità e nell'incoscienza.
RispondiEliminaI filosofi antichi ritenevano che la morte dovesse essere il fulcro di ogni speculazione. A ragione: l'essere è, infatti, un essere per la morte.(Heidegger docet)
Le entità arcontiche sono potenti: la loro potenza è nell'invisiblità e soprattutto nel fatto che quasi tutti ignorano il loro pernicioso influsso, non avvertendo il loro fiato mefitico.
Ciao
Premetto di non aver mai letto tale libro di Vito Mancuso. Non sapevo nemmeno nè dell' esistenza dell'autore nè del libro in questione. E nemmeno lo comprerò onde evitare di rimpinzare le tasche del medesimo.
RispondiEliminaDando una sbirciata al titolo su una libreria virtuale che va per la maggiore vedo addirittura 29 recensioni di persone che lo hanno letto, alcune entusiaste e altre decisamente deluse. Mai visti tanti commenti on-line per un singolo titolo.
Dunque un grande successo editoriale presso il pubblico scontento delle spiegazioni offerte su tali argomenti dalla Chiesa Cattolica per il tramite della sua fioritura dogmatica plurisecolare.
Apprendo che il Mancuso è uno spretato e che tale saggio si presenta con una prefazione del Cardinale Carlo Maria Martini S.J. (Ricordo, per chi non lo sapesse o l'avesse dimenticato,che la denominazione 'S.J.' significa 'a Societate Jesu', ovverosia membro della Compagnia di Gesù alias dei Gesuiti).
Non ho idea di che cosa possa avere scritto nella sua prefazione il Martini, personaggio che non fa mistero del suo scetticismo in materia religiosa. Scetticismo che per decenza non sconfina nell'ateismo dichiarato. Pertanto un Cardinale di Santa Romana Chiesa che da tempo non crede più in nulla e che trova finalmente il coraggio di lasciarlo fraintendere, anche se non 'apertis verbis'. Tanto di cappello!
Il tuo post, Zret, offre una quantità di spunti interessanti, ad esempio quello realtivo alla resurrezione della carne. Argomento prettamente esoterico sul quale nessuno che non abbia avuto rivelazioni ed esperienze interiori in proposito può affermare alcunchè di concreto.
Una eventuale resurrezione della carne non comporta evidentemente la carne fisicamente intesa ma la cosiddetta 'caro spiritualis'. ((Vedi in proposito alcuni mistici ed ermetisti del Rinascimento).
Riguardo poi al tema delle NDE mi permetto di dissentire da coloro che tentano di spiegare tale fenomenologia per il tramite di argomentazioni surrettizie. Mi sembra del tutto evidente che la coscienza dell'essere umano non è esclusivamente relegata al cervello fisicamente inteso.
Una consapevolezza può sussistere anche quando questo non risulta più funzionante. Altrimenti come si spiega il fatto che il moribondo veda spesso le sue spoglie fisiche giacenti nel contesto materiale e che, pur privo di esse, egli sia ancora in grado di sperimentare altre realtà e dimensioni?
Credo che le NDE possano essere considerate come vere e proprie occasioni, per chi le vive, di sbirciare oltre il velo, oltre la soglia.
Una volta eclissatesi le Misteriosofie antiche insieme ai loro ierofanti, quale strumento rimane dunque all'uomo moderno che tenta di esperire qualche assaggio del mondo invisibile?
All'uomo dei tempi ultimi rimane paradossalmente come unica vera, grande Iniziatrice la morte fisica. E' grazie ad essa che l'individuo può cominciare ad esperire ciò che era andato perduto nel corso della sua caduta nella materia.
Nell'ambito delle NDE dobbiamo poi operare delle distinzioni. Si passa da esperienze di non grande levatura ad esperienze intensissime che rasentano addirittura l'identificazione del moribondo con ll'Assoluto. Queste ultime sono ovviamente le più rare. Quasi che si potessero saltare a piè pari tutti i gradi dell'Iniziazione classicamente intesa. Sorta di Via Brevis definibile anche come 'ultrasecca'. Cosa che ha dell'incredibile.
Paolo, il tuo contributo, che mi trova concorde, è molto denso ed articolato. Dunque non vi soggiungo che poche note.
RispondiEliminaAnch'io ritengo che la coscienza prescinda dal cervello: secoli di scienza scientista e di materialismo hanno, però, convinto gli uomini che encefalo ed identità coincidono.
Circa il libro del Mancuso, non l'ho acquistato, ma preso in prestito in biblioteca. Per un testo con la prefazione di un emissario degli Arconti (tali sono molti porporati) non spenderei neppure un baiocco.
Ciao
Magari fuori dal carcere spazio temporale ci aspettano patimenti peggiori. Io per sicurezza spero (sempre che sperare possa avere un senso) nella prima ipotesi, che è in ogni caso meglio della beatitudine eterna.
RispondiEliminala reincarnazione, per quanta simpatia possa provare per le dottrine orientali, non mi convince. Credo che, anche se estremizzato, il virgolettato del primo commento di wlady non sia poi tanto lotano dalla realtà. Va spogliato forse da tutte le sensazioni terrene (odorato, tatto, percezioni varie) ma credo che qualcosa rimanga, e che questo qualcosa mantenga una sorta di coscienza di sè.
RispondiEliminaLe nde, dato il numero ormai elevato e indagato, non possono essere ignorate e quella sorta di comun denominatore (presenze, paesaggi, visti "in soggettiva") è significativo.
Cosa ci aspetta poi non lo so, ma di sicuro finiranno le catene della materia, forse anche il dolore ad esse legato. E forse non sarà indifferente il livello di consapevolezza delle cose che avremo maturato in questa vita per affrontare meglio l'altra in cui ci ritroveremo a nascere.