L’ultima fatica di Mauro Biglino, “Non c’è creazione nella Bibbia: la Genesi ci racconta un’altra storia”, implica una radicale rivisitazione di consolidati criteri interpretativi. L’autore, nella restituzione della Bibbia al contesto storico e sociale in cui nacque e si formò, disconosce che la Torah includa un livello simbolico. [1] Ha ragione? Crediamo proprio di sì. I significati esoterici e cabalistici scaturiscono da successivi interventi: sono ingegnosi e persino mirabili, ma estranei al testo. Sono simili alle decorazioni barocche con cui si nasconde la sobria architettura di una chiesa romanica: potranno pure essere pregevoli, ma non appartengono al manufatto originario.
Ammiriamo coloro che si industriano nell’invenzione di sensi reconditi, di inediti accostamenti, di fantasiose etimologie: essi, però, sono degli artisti, non degli storici. E’ credibile che un rozzo popolo di pastori creò un’opera plurivoca e non piuttosto un resoconto volto a mettere in risalto la propria identità etnico-culturale? Sarebbe come pensare che l’Iliade e l’Odissea codifichino chissà quali valori ermetici, invece di essere l’espressione letteraria di una società aristocratica tra il II millennio a.C. e Medioevo ellenico. Ciò non toglie che nell’épos greco non enuclereemo alcune immagini simboliche, ma sono circoscritte a pochi versi e talora sono idee posteriori. Quando si menziona l’ethos omerico, si sottolinea proprio la sostanziale oggettività con cui il rapsodo ripercorre le vicende e delinea personaggi e luoghi.
Sappiamo che il letteralismo non piace. Non piace soprattutto poiché rompe la magia, dissolve un alone incantevole: la verità nuda e disadorna è poco attraente. Bisogna, però, essere onesti e discernere le situazioni in cui un’interpretazione emblematica è non solo legittima, ma persino doverosa (si pensi all’Apocallise di Cerinto o alle Metamorfosi di Apuleio), e quei casi dove è, invece, arbitraria. Il letteralismo suscita tante scomposte reazioni, ma pochissimi tentativi di confutazione. Ecco allora la levata di scudi contro chi vede nell’arca dell’Alleanza un oggetto tecnologico. Ecco allora una pioggia di dardi infuocati contro i traduttori che scorgono nel termine Elohim un plurale.
Ci sia permessa qui una breve digressione linguistica: Elohim è un plurale, ma non un pluralis maiestatis che fu introdotto dalla Chiesa nicena nel IV secolo d.C. Ci si rassegni, evitando di alambiccarsi per tentare di dimostrare ciò che dimostrabile non è. Agli esperti l’onere di giustificare il numero plurale all’interno del Pentateuco prodotto da una gente che, a torto, è ritenuta da molti monoteista ab origine. Noi possiamo solo constatare il dato morfologico. [2]
E’ naturale: i simboli esistono, ma in precisi campi. [3] Gran parte dei libri biblici più antichi ne è priva. Questa è la premessa, a nostro modesto parere corretta, da cui è scaturita la ricerca rigorosa ed onesta di Mauro Biglino. E’ pacifico che tale approccio non esaurisce le indagini né scioglie tutti gli enigmi: ad esempio, la cultura ebraica conserva, anche se in modo confuso e grossolano, antiche conoscenze sumeriche ed egizie già criptate nell’alfabeto. Come motivarle nel quadro di un discorso circa le origini dell’umanità? Veramente meritorio è stato Luca Bitondi che, in un articolo pubblicato su "X Times" di dicembre, ha rispolverato un’intuizione di Corrado Malanga circa le somiglianze formali tra i 22 grafemi dell’alfabeto ebraico ed i 21 amminoacidi essenziali. [4]
Insomma, Peter Kolosimo ha trovato un continuatore che, a differenza dell’archegeta, offre un cospicuo equipaggiamento di dati linguistici e filologici tali da avvalorare congetture ieri come oggi disdegnate, perché ritenute fantasie fanciullesche. E’, infatti, sempre più veemente la polemica di chi rifiuta di prendere in considerazione l’ipotesi extraterrestre in ordine al passato dell’umanità, arrocandosi nell’interpretazione parafisica, come se le due teorie fossero incompatibili. [5]
Si accennava al substrato glottologico su cui Biglino può fondare certe affermazioni: ha ragione Alessandro Demontis, di cui è riportato lo stralcio di uno studio, quando scrive: “A mano a mano che si va avanti nel tempo, nelle derivazioni di una lingua all’altra, i significati perdono di specificità materiale ed acquistano generalizzazione ed estensione”. Anche in questo modo, rammentando che i significati concreti precedono quelli traslati, si ridimensionano pristine civiltà. E’ un ridimensionamento che consuona con una visione disincantata a proposito di “dei” per nulla divini, fossero visitatori interstellari, discendenti degli Atlantidei o chissà chi… In particolare gli Israeliti sono declassati ad uno dei tanti popoli medio-orientali - non certo tra i più raffinati - la cui lingua fu un dialetto assurto ad idioma importante, per una serie di circostanze fortuite.
E’ assodato che, una volta compiute investigazioni in àmbito storico, archeologico, paleontologico etc., resta la dimensione metafisica dove il Professor Biglino non vuole addentrarsi. Si leggano dunque gli autori che si avventurano in territori liminali, se si intende definire un disegno più ampio.
Con queste note metodologiche, affidiamo a lettori dalla mentalità aperta il saggio del Nostro. Siamo consci che tutto si ha da guadagnare da un incremento della conoscenza, pure qualora sia una conoscenza che dapprincipio sovverte convincimenti inveterati. Con la nuova resa della parte iniziale del Genesi l’autore demolisce uno dei pregiudizi più radicati: è emozionante scoprire che cosa si cela dietro il racconto della “creazione ex nihilo”…
Ammettiamo che il titolo del volume è un po’ brusco, ma il libro di Biglino merita una fruizione spassionata, emancipata dalle illusioni pseudo-esoteriche e soprattutto da ogni cieco fideismo.
[1] Il simbolo (Σύμβολον) per gli Elleni era una "tessera di riconoscimento" o "tessera ospitale": l'usanza voleva che due individui, due famiglie o anche due città spezzasero una tessera, di solito fittile, per conservare una delle due parti a conclusione di un accordo o di un'alleanza. Nel linguaggio comune e nella retorica, il simbolo è un’icona cui si associa un particolare significato. Di solito è bivalente, talvolta polisemico.
[2] Sulla vexata quaestio del singolare o plurale, si veda qui.
[3] Semplificando, si potrebbe distinguere tra simboli elementari (i segni, volgarmente "parole") ed i simboli complessi: se l'origine dei primi è difficile da conoscere, il discorso vale ancora di più per i simboli complessi, ossia le immagini stratificate, plurivoche, dense, gli archetipi sedimentati nel superconscio e che si palesano nell'arte, nelle esperienze oniriche, nei disegni dei bambini…
[4] Cfr L. Bitondi, “Adamo, il primo ibrido”, 2012. La corrispondenza numerica tra le lettere e gli amminoacidisi si realizza, aggiungendo alla ventunesima macromolecola l’immagine del D.N.A. adombrata dall’alef. Lo studio di Bitondi indugia pure sui Rossi per cui si veda il datato ma non irrilevante “Alla ricerca del sigillo reale”.
[5] Vedi Zeit und Geist, 2012
Antonio Marcianò (Tutti i diritti riservati)
Ammiriamo coloro che si industriano nell’invenzione di sensi reconditi, di inediti accostamenti, di fantasiose etimologie: essi, però, sono degli artisti, non degli storici. E’ credibile che un rozzo popolo di pastori creò un’opera plurivoca e non piuttosto un resoconto volto a mettere in risalto la propria identità etnico-culturale? Sarebbe come pensare che l’Iliade e l’Odissea codifichino chissà quali valori ermetici, invece di essere l’espressione letteraria di una società aristocratica tra il II millennio a.C. e Medioevo ellenico. Ciò non toglie che nell’épos greco non enuclereemo alcune immagini simboliche, ma sono circoscritte a pochi versi e talora sono idee posteriori. Quando si menziona l’ethos omerico, si sottolinea proprio la sostanziale oggettività con cui il rapsodo ripercorre le vicende e delinea personaggi e luoghi.
Sappiamo che il letteralismo non piace. Non piace soprattutto poiché rompe la magia, dissolve un alone incantevole: la verità nuda e disadorna è poco attraente. Bisogna, però, essere onesti e discernere le situazioni in cui un’interpretazione emblematica è non solo legittima, ma persino doverosa (si pensi all’Apocallise di Cerinto o alle Metamorfosi di Apuleio), e quei casi dove è, invece, arbitraria. Il letteralismo suscita tante scomposte reazioni, ma pochissimi tentativi di confutazione. Ecco allora la levata di scudi contro chi vede nell’arca dell’Alleanza un oggetto tecnologico. Ecco allora una pioggia di dardi infuocati contro i traduttori che scorgono nel termine Elohim un plurale.
Ci sia permessa qui una breve digressione linguistica: Elohim è un plurale, ma non un pluralis maiestatis che fu introdotto dalla Chiesa nicena nel IV secolo d.C. Ci si rassegni, evitando di alambiccarsi per tentare di dimostrare ciò che dimostrabile non è. Agli esperti l’onere di giustificare il numero plurale all’interno del Pentateuco prodotto da una gente che, a torto, è ritenuta da molti monoteista ab origine. Noi possiamo solo constatare il dato morfologico. [2]
E’ naturale: i simboli esistono, ma in precisi campi. [3] Gran parte dei libri biblici più antichi ne è priva. Questa è la premessa, a nostro modesto parere corretta, da cui è scaturita la ricerca rigorosa ed onesta di Mauro Biglino. E’ pacifico che tale approccio non esaurisce le indagini né scioglie tutti gli enigmi: ad esempio, la cultura ebraica conserva, anche se in modo confuso e grossolano, antiche conoscenze sumeriche ed egizie già criptate nell’alfabeto. Come motivarle nel quadro di un discorso circa le origini dell’umanità? Veramente meritorio è stato Luca Bitondi che, in un articolo pubblicato su "X Times" di dicembre, ha rispolverato un’intuizione di Corrado Malanga circa le somiglianze formali tra i 22 grafemi dell’alfabeto ebraico ed i 21 amminoacidi essenziali. [4]
Insomma, Peter Kolosimo ha trovato un continuatore che, a differenza dell’archegeta, offre un cospicuo equipaggiamento di dati linguistici e filologici tali da avvalorare congetture ieri come oggi disdegnate, perché ritenute fantasie fanciullesche. E’, infatti, sempre più veemente la polemica di chi rifiuta di prendere in considerazione l’ipotesi extraterrestre in ordine al passato dell’umanità, arrocandosi nell’interpretazione parafisica, come se le due teorie fossero incompatibili. [5]
Si accennava al substrato glottologico su cui Biglino può fondare certe affermazioni: ha ragione Alessandro Demontis, di cui è riportato lo stralcio di uno studio, quando scrive: “A mano a mano che si va avanti nel tempo, nelle derivazioni di una lingua all’altra, i significati perdono di specificità materiale ed acquistano generalizzazione ed estensione”. Anche in questo modo, rammentando che i significati concreti precedono quelli traslati, si ridimensionano pristine civiltà. E’ un ridimensionamento che consuona con una visione disincantata a proposito di “dei” per nulla divini, fossero visitatori interstellari, discendenti degli Atlantidei o chissà chi… In particolare gli Israeliti sono declassati ad uno dei tanti popoli medio-orientali - non certo tra i più raffinati - la cui lingua fu un dialetto assurto ad idioma importante, per una serie di circostanze fortuite.
E’ assodato che, una volta compiute investigazioni in àmbito storico, archeologico, paleontologico etc., resta la dimensione metafisica dove il Professor Biglino non vuole addentrarsi. Si leggano dunque gli autori che si avventurano in territori liminali, se si intende definire un disegno più ampio.
Con queste note metodologiche, affidiamo a lettori dalla mentalità aperta il saggio del Nostro. Siamo consci che tutto si ha da guadagnare da un incremento della conoscenza, pure qualora sia una conoscenza che dapprincipio sovverte convincimenti inveterati. Con la nuova resa della parte iniziale del Genesi l’autore demolisce uno dei pregiudizi più radicati: è emozionante scoprire che cosa si cela dietro il racconto della “creazione ex nihilo”…
Ammettiamo che il titolo del volume è un po’ brusco, ma il libro di Biglino merita una fruizione spassionata, emancipata dalle illusioni pseudo-esoteriche e soprattutto da ogni cieco fideismo.
[1] Il simbolo (Σύμβολον) per gli Elleni era una "tessera di riconoscimento" o "tessera ospitale": l'usanza voleva che due individui, due famiglie o anche due città spezzasero una tessera, di solito fittile, per conservare una delle due parti a conclusione di un accordo o di un'alleanza. Nel linguaggio comune e nella retorica, il simbolo è un’icona cui si associa un particolare significato. Di solito è bivalente, talvolta polisemico.
[2] Sulla vexata quaestio del singolare o plurale, si veda qui.
[3] Semplificando, si potrebbe distinguere tra simboli elementari (i segni, volgarmente "parole") ed i simboli complessi: se l'origine dei primi è difficile da conoscere, il discorso vale ancora di più per i simboli complessi, ossia le immagini stratificate, plurivoche, dense, gli archetipi sedimentati nel superconscio e che si palesano nell'arte, nelle esperienze oniriche, nei disegni dei bambini…
[4] Cfr L. Bitondi, “Adamo, il primo ibrido”, 2012. La corrispondenza numerica tra le lettere e gli amminoacidisi si realizza, aggiungendo alla ventunesima macromolecola l’immagine del D.N.A. adombrata dall’alef. Lo studio di Bitondi indugia pure sui Rossi per cui si veda il datato ma non irrilevante “Alla ricerca del sigillo reale”.
[5] Vedi Zeit und Geist, 2012
Antonio Marcianò (Tutti i diritti riservati)
Ciao Zret,
RispondiEliminacome sempre i tuoi articoli offrono numerevoli spunti di riflessione.
La potenza del simbolo risiede proprio nella sua polisemia e nella stratificazione soggetiva dei significati associati.
Spesso il simbolo ha la magia di una semiotica a posteriori ossia la creazione di un significato successiva alla creazione del simbolo stesso nella sua accezione originale.
È probabilmente l'opera degli artisti di cui parli nell'articolo.
Un esempio di questo processo protrebbero essere le analogie che abbiamo riscontrato tra Gesuiti e Sith in un articolo del nostro blog.
Sei d'accordo?
Un saluto
Il simbolo è tutto e niente: va maneggiato con cura. Vederlo là dove non esiste porta ad interpretazioni fuorvianti. Il paradosso è che tante volte le esegesi simboliche non si applicano dove si dovrebbe e viceversa.
RispondiEliminaHo letto il Tuo istruttivo articolo sulle analogie tra l'emblema dei Gesuiti e quello di Sith: in effetti le somiglianze sono notevoli e conturbanti. La cupola nera coincide con i Gesuiti? Probabile, sebbene essi siano succubi di qualcun altro, ma questa è una mia opinione.
Ciao
Grazie della risposta!
RispondiEliminaL'articolo sulle analogie è velatamente ironico. Leggendo questo tuo post ci sono venuti in mente gli interventi ingegnosi e persino mirabili dai quali scaturiscono i significati esoterici e cabalistici della Torah.
Come gli artisti (e non storici) di cui parli, ci siamo industriti nell’invenzione (o forse no?) di sensi reconditi, di inediti accostamenti, di fantasiose etimologie.
Un esempio pratico che avvalora quanto da te scritto.
In un sistema piramidale, c'è sempre qualcuno più in alto (come in basso...), magari da ricercare in un altro piano (dimensione?).
Ti riferisci forse a questo, a proposito dei Gesuiti?
Saluti
oops, e.c.: "industriati".
RispondiEliminaCome ho scritto anche in altre occasioni, il simbolo è inerente a certi ambiti culturali, estraneo alle situazioni empiriche. Di solito, come il mito, possiede dei significati astronomici ed astrologici. Il simbolo par excellence, l'archetipo, giace negli abissi dell'ignoto. Talora ne affiora qualche velo, nei sogni, nell'Arte, nel linguaggio, ma è arduo comprenderne il valore. Imperscrutabile ed enigmatica, l'Immagine interroga chi la interroga, come la Sfinge tebana.
RispondiEliminaCiao
"L'immagine interroga chi la interroga". Sintesi perfetta, con questo hai detto tutto.
RispondiEliminaUn saluto