29 gennaio, 2014

Noli me tangere


Ogni esperienza ha la sua età. Rammento le intense emozioni che provai quando lessi il romanzo breve di Herman Hesse, “Sotto la ruota”, la storia di un adolescente che, pieno di speranze, si affaccia alla vita per esserne schiacciato nell’arco di breve tempo. Non so se, rileggendo il libro dell’autore tedesco, a distanza di tanti anni, sarei capace di rivivere quelle ineffabili sensazioni.

Non sono le esperienze che ci permettono di maturare, piuttosto è il primo contatto con la realtà a donarci un’esperienza vergine ed ingenua, anzi è l’attitudine a non toccare le cose a preservarne la loro magia. Codesta è la vera comunione con il mondo.

Forse è per questo che il vissuto più coinvolgente è la visione del firmamento notturno. Ricordo quando, alcuni lustri addietro, contemplai la Via Lattea. Era una notte luminosa e cristallina: l’arcata della galassia, cosparsa di stelle, si dispiegava su un oceano profondissimo. La percezione era tutt’uno con il sentimento dell’infinito e della bellezza, perché nessuna riflessione e nessuna domanda sul senso del Tutto si insinuavano ad offuscare la sublime purità dello spettacolo.

Le cose, per essere comprese, non devono essere neppure sfiorate: è preferibile abbracciarle con lo stupore, accoglierle nell’anima.

“Amai solo le rose che non colsi”, scrive Guido Gozzano in una sua celebre poesia. Così si può veramente amare una voce senza volto o l’ombra del silenzio o perdersi nelle dissolvenze di un sogno. Per vivere un’avventura, per intraprendere un viaggio nell’infinito, è sufficiente ammirare una stilla di pioggia, mentre scivola sul vetro.

La felicità (se esiste) è simile ad un cristallo fragilissimo: basta un nonnulla per mandarla in frantumi. Il narratore Barbey d’Aurevilly osserva che le persone davvero felici tengono un contegno misurato, non lasciano quasi trasparire la loro gioia. Incedono come se stessero portando un vassoio su cui sono collocati dei calici pieni sin quasi all’orlo.

La vita e la felicità si sbriciolano, non appena le sfiora il tempo, quando le inseriamo nel diagramma della logica.

La vera esperienza ama immergersi nell’ignoto e nell’incanto affinché restino tali.

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5 commenti:

  1. Secondo la filosofia Zen, la vera felicità non riconosce cause nè oggetti: c'è e basta. Giusto inoltre quel che dice Barbey d'Aurevilly: l'uomo veramente felice in quanto trasformato nell'interiorità si comporta sobriamente e non lasciare trasparire gran che, almeno ad un occhio non allenato.
    Invece colui che dimostra di essere felice o meglio euforico è uno stolto. La vera felicità per giunta non è fragile ma una condizione stabile dell'animo mentre l'euforia dura un momento e poi se ne va. Solo il sapiente può essere felice.

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  2. Mi piace qui ricordare un aforisma di Blake: "La felicità è nello spazio tra due attimi".

    Io penserei più alla serenità che alla felicità. Nondimeno è vero che solo il sapiente è felice.

    Ciao

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  3. Ciao zret, come sempre ottimo post, molto riflessivo :)

    È vero quello che dici: "Non so se sarei capace di rivivere quelle ineffabili sensazioni".

    Purtroppo ciò che uno prova una volta non lo proverà mai nuovamente, ma forse è un bene, in quanto ciò che sentiamo è lo specchio della nostra condizione interiore e man mano che una persona matura interiormente vede il mondo con occhi diversi, provando sempre nuove sensazioni ed emozioni.

    Ciao :)

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    1. Sì, è un bene, Cresh. D'altronde siamo come nuvole, mai uguali a sé stesse.

      Ciao

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