10 dicembre, 2016

Come il sistema è riuscito a rovinarci la vita

Tralasciando tutti coloro cui il sistema ha distrutto l’esistenza, scaraventandoli sotto un ponte, bisogna riconoscere che il Leviatano è comunque riuscito, passo dopo passo, a rovinare la vita di chi, tutto sommato, non se la passava tanto male.

Lo Stato, con i suoi innumerevoli tentacoli (fisco, forze dell’ordine”, polizia municipale, tribunali, “sanità”, amministrazioni pubbliche...), ha lacerato il tempo in una serie di scadenze indifferibili, di assurdi obblighi. L’unica alternativa al giogo della disoccupazione è il giogo di un lavoro che consiste, nel migliore dei casi, nella ripetizione infinita di compiti inutili ed alienanti: è un versare acqua nel setaccio delle Danaidi.

Siamo costantemente ricattati in primo luogo con il denaro: chi non ha un reddito, per quanto esiguo, è gettato ai margini della società, costretto ad elemosinare o a “vivere” di assistenza.

In tutto questo si legge un preciso, diabolico proposito di trasformare gli uomini in schiavi, di controllarli in modo ossessivo. Se agli schiavi, nel mondo romano, durante i Saturnali era concesso di agire come liberi, oggi agli iloti sono elargite distrazioni tecnologiche: si vive sepolti in squallidi, angusti bilocali, ma con il wi-fi. Non mancheranno asociali contatti tramite le “reti sociali”.

Presto il totale servaggio sarà sancito attraverso il microprocessore sottocutaneo di cui l’identità digitale, introdotta in modo proditorio e surrettizio, è l’inquietante prodromo.

Fino a qualche anno fa, almeno, quando ci si sentiva soffocati dal cappio dell’esecrato sistema, si poteva assaporare qualche ora in cui ritemprare il corpo e lo spirito, con una passeggiata in campagna, un’escursione in un luogo silvestre o per mezzo di quattro passi in riva al mare. Oggi uscire significa entrare in una camera a gas: il cielo è perennemente insudiciato da scie mefitiche e la natura è un pallido, esangue simulacro di sé stessa.

Così ci hanno tolto quasi tutto e ci toglieranno quel poco che ci rimane. Eppure per chi disdegna “tutti i regni del mondo”, per chi può asserire come il filosofo: “Omnia mea mecum porto” (Porto con me ogni vero bene”), le razzie statali, pur abominevoli, sono effimere punture di spillo. E’ così: la filosofia, che mira all’eterno ed al vero, è un bene che niente e nessuno ci potrà mai strappare.[1]

[1] "Omnia mea mecum porto" è una locuzione che Cicerone (Paradoxa Stoicorum 1, 1, 8) attribuisce a Biante di Priene, uno dei Sette savi vissuto nel VI secolo a.C. Seneca, invece, la ascrive al filosofo Stilpone di Mégara. Egli, quando Demetrio I Poliorcete, conquistata Mégara, gli chiese se avesse perso qualcosa, rispose "Nulla: ho tutto con me!" (Seneca, Epistulae morales, 9, 18-19).

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