Abbiamo avuto la ventura di leggere l’ultima intervista a Tullio De Mauro, noto glottologo che fu anche ministro della Pubblica istruzione (?). Ecco, quando ti imbatti in testi del genere, ti cadono le braccia. Sicuramente De Mauro, come tutti gli intellettuali organici al sistema, è sempre stato sopravvalutato, tuttavia da un esponente dell’intellighenzia ci si aspetterebbe qualcosa di più. Com’è noto, lo scadimento del linguaggio è il primo sintomo (causa ed effetto insieme) di un declino culturale ed etico.
Così constatare che De Mauro accoglie nel suo scalcinato vocabolario termini come “sindaca” ed “inclusione” suscita infinito avvilimento: non è tanto un problema lessicale, quanto la dimostrazione che ormai le idee distorte e perverse bandite dall’establishment hanno colonizzato anche le coscienze di chi pensavamo avesse preservato un minimo di discernimento. Una parola becera ed ipocrita come “inclusione” (fino a poco tempo fa si usava con lo stesso intento “accoglienza”) trascina dietro di sé una serie di concetti malsani, quelli propugnati dal mondialismo. Il termine “inclusione”, tolta la vernice, significa disintegrare la società, demolire le ultime roccaforti delle culture nazionali per creare un orrido miscuglio in cui le tensioni e gli squilibri fra le etnie, tra clandestini e cittadini autoctoni porteranno a ridisegnare il contesto socio-economico nella direzione della barbarie, dell’ingiustizia e della miseria.
Se il presente è disfatto, il futuro che si para innanzi a quest’ultima disgraziata generazione è putrefatto.
Se la popolazione in modo compatto e reciso rifiutasse di adeguare il suo registro linguistico agli obbrobri boldriniani, se la maggioranza degli Italiani (e non solo) avesse il coraggio di escludere, di esautorare e di espellere tutti gli ideatori ed i collaborazionisti della sciagurata politica globalizzatrice, il mondo finalmente potrebbe vedere una svolta positiva.
In caso contrario continueremo ad inserire qualche foto di scie tossiche sulle piattaforme di condivisione, a pubblicare articoli sui danni causati dai vaccini, a tuonare contro gli usurai internazionali, ma, svegliandoci al mattino, ci ritroveremo sempre sotto lo stesso cielo velenoso, mentre ci strappano quel poco che ci è rimasto: una catapecchia che ci costa una fortuna e quattro soldi bucati, guadagnati con il sangue.
Così constatare che De Mauro accoglie nel suo scalcinato vocabolario termini come “sindaca” ed “inclusione” suscita infinito avvilimento: non è tanto un problema lessicale, quanto la dimostrazione che ormai le idee distorte e perverse bandite dall’establishment hanno colonizzato anche le coscienze di chi pensavamo avesse preservato un minimo di discernimento. Una parola becera ed ipocrita come “inclusione” (fino a poco tempo fa si usava con lo stesso intento “accoglienza”) trascina dietro di sé una serie di concetti malsani, quelli propugnati dal mondialismo. Il termine “inclusione”, tolta la vernice, significa disintegrare la società, demolire le ultime roccaforti delle culture nazionali per creare un orrido miscuglio in cui le tensioni e gli squilibri fra le etnie, tra clandestini e cittadini autoctoni porteranno a ridisegnare il contesto socio-economico nella direzione della barbarie, dell’ingiustizia e della miseria.
Se il presente è disfatto, il futuro che si para innanzi a quest’ultima disgraziata generazione è putrefatto.
Se la popolazione in modo compatto e reciso rifiutasse di adeguare il suo registro linguistico agli obbrobri boldriniani, se la maggioranza degli Italiani (e non solo) avesse il coraggio di escludere, di esautorare e di espellere tutti gli ideatori ed i collaborazionisti della sciagurata politica globalizzatrice, il mondo finalmente potrebbe vedere una svolta positiva.
In caso contrario continueremo ad inserire qualche foto di scie tossiche sulle piattaforme di condivisione, a pubblicare articoli sui danni causati dai vaccini, a tuonare contro gli usurai internazionali, ma, svegliandoci al mattino, ci ritroveremo sempre sotto lo stesso cielo velenoso, mentre ci strappano quel poco che ci è rimasto: una catapecchia che ci costa una fortuna e quattro soldi bucati, guadagnati con il sangue.
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