23 dicembre, 2018

Misandra



Misandra” è il titolo del romanzo scritto da Aurelius. Il protagonista, Mauro, è un uomo solitario e taciturno, un contemplativo, eroico nella sua ripulsa per la mediocrità dilagante: la sua anima è consacrata all’amore per Misandra, donna dalla venustà sovrumana, medusea.

Sì, un romanzo, ma sui generis, perché l’autore svolge il filo sottile dell’intreccio, simile al ricamo di un arazzo prezioso e variopinto, non tanto per raccontare, quanto per descrivere scenari di straordinaria e maestosa bellezza, per evocare sensazioni quasi ineffabili. L’opera è dunque lungi dal triviale gusto comune, adatta piuttosto a palati fini che amano delibare sapori delicati e fragranti, immergersi in atmosfere trasognate, vivere esperienze intime dove la realtà di continuo si trasfigura per assumere le sembianze più disparate, ora seducenti ora terribili.

Si suole ripetere che i classici sono i libri che non smettono mai di arricchirci, testi dove si scopre ad ogni lettura un aspetto nuovo. In “Misandra” la Natura è “classica”: l’autore, con la sua perizia e sensibilità, indugia sul mare e il cielo, le vette e le selve, i giardini fioriti e i colli, il sole, la luna, la notte, sempre rinnovando l’incanto dei colori, delle forme, dei chiaroscuri. Misandra stessa sembra assurgere a simbolo della Natura, intesa come energia primigenia che tutto genera e trasforma, nel perenne, incessante ciclo dei mondi e delle esistenze.

Ciclico è anche il viaggio di Mauro che percorre sentieri tra i boschi, cammina lungo le sponde, erra in sale di edifici esotici e misteriosi, s’imbatte in creature elusive, per ritrovarsi poi ogni volta sul limitare delle sue inquietudini (“Sentiva in sé il tormento dei desideri e della volontà, la tempesta senza fine delle passioni, la tortura della vita” - capitolo X), per essere risospinto, dissoltasi la visione, eclissatesi le immagini oniriche, nel monotono e stritolante ingranaggio della vita quotidiana, poiché “”la felicità non esiste e l’uomo che la cerca piangerà le lacrime amare della disperazione”. Per il protagonista vale l’aforisma di Novalis “Cerchiamo sempre l’infinito e troviamo soltanto cose”: eppure queste cose, che paiono a volte esalare il respiro dell’eternità, sono profondamente amate, sentite, vissute, in un abbraccio panico, in situazioni dove la sensualità si mesce ad aneliti mistici: “Oh fuggire, fuggire via per sempre dal mondo, via da se stesso, non essere più, finalmente dissolversi nell’eterno fluire del Tutto” (capitolo XIV).

“Misandra” è un’opera dove la grande lezione dei Romantici e dei Simbolisti è leggibile in filigrana: romantico è soprattutto il dissidio tra l’uomo e la società, un’insofferenza che conduce Mauro lontano dallo squallido ambiente urbano alla ricerca di un senso, di una serenità che è solo nell’oblio. (“Perché la volgarità autentica sta tutta in quella perdita volontaria di immaginazione, in quell’immergersi nella quotidianità che rende inevitabilmente limitati, anonimi, vuoti ed ottusi). Romantiche sono le atmosfere inquietanti di certi luoghi, come la profondità malinconica dei pensieri che culminano nel capitolo XX, mirabile meditazione sul fato e sulla morte. Romantica è la pittura degli orizzonti e delle prospettive: in particolare il pensiero corre ai quadri di Caspar David Friedrich, dove i viandanti, assorti e malinconici, contemplano il paesaggio per compenetrarne l’insondabile sublimità. Così le pagine di “Misandra” sono spesso olî bellissimi, percorsi da bagliori corruschi, intinti nelle ombre più cupe. Oltre che da questa cifra figurativa, il romanzo è impreziosito da accordi e cadenze musicali: i periodi, dal lessico elegante e dalle movenze solenni, non di rado lasciano avvertire l’armonia di un’assonanza, la vibrazione di una rima.

Una vasta, tragica sinfonia è l’apocalittico epilogo del romanzo: qui si compie il destino di Misandra, ancipite ed enigmatica divinità, e con lei, quello di Mauro, ora emblema di un’umanità in procinto di affrontare la sfida più importante e cruciale… l’ultima?

Vietata la riproduzione - Tutti i diritti riservati

APOCALISSI ALIENE: il libro

07 settembre, 2018

La crisi delle scienze contemporanee



Abbiamo sovente lamentato il declino della “scienza” accademica. Purtroppo, però, anche la “scienza pioneristica” è in condizioni pietose. Mancano a quasi tutti i ricercatori attuali sia l’umiltà, tipica del vero scienziato, sia un’adeguata preparazione epistemologica. Così, dopo aver elaborato le loro teorie, neppure con esperimenti mentali, ma per mezzo di congetture spesso arbitrarie o di lambiccate fantasie, presto cominciano a dispensare la loro “verità”. Divulgano verità, quando ancora non hanno compreso che cosa sia la “realtà”.

Verità e “realtà” non sono sovrapponibili, isomorfiche, checché ne pensino molti logici. Lo possiamo dimostrare con un esempio: prendiamo la parola “verde”. Si potrebbe asserire che il seguente enunciato: “la foglia del platano in primavera ed estate è verde” è vero, nel momento in cui si stabilisce una corrispondenza biunivoca tra il verde e la foglia del platano. Tuttavia questo asserto come sarà recepito da un daltonico che confonde il verde con l’ocra? Come sarebbe stato recepito dagli antichi Greci che, quando si riferivano con l’aggettivo “kloros” al verde, pensavano ad una tinta pallida e grigiastra, o dai Celti per cui un tempo un unico aggettivo designava sia il verde sia l’azzurro, di cui valorizzavano le trasparenze e la brillantezza? Esistono innumerevoli tonalità di verde, alcune sconfinano nell’azzurro, altre nel celeste, altre nel grigio. Inoltre che cosa può significare per un animale la visione di un oggetto verde? Come lo percepisce? E’ una questione sia fisiologica, di come l’encefalo capta e traduce i dati “oggettivi”, sia linguistica, dove l’idioma rispecchia e, al tempo stesso, modella il “reale” così come un’etnia lo struttura sotto una spinta genetica e soprattutto culturale. Si capisce che la simmetria tra il verde e la foglia del platano in primavera ed estate non è per nulla ovvia. La correlazione, che senza dubbio esiste, non è univoca, ma problematica, poiché tende a diramarsi. Non è quindi una linea retta e continua a congiungere il verde alla foglia, bensì un segmento spezzato e ramificato. Ecco perché ha ragione Socrate quando dichiara: “La verità è una dea pericolosissima, specialmente per chi crede di possederla”, come, tra gli altri, André Gide che esorta a diffidare di chi proclama la “verità”.

I ricercatori di frontiera, come gli accademici, hanno fatto strame della Scienza, nel momento in cui l’hanno ridotta ad ideologia, a propaganda, a strumento di controllo colluso con il potere, a strategia di consenso. Codesti ciarlatani ottengono il consenso di quelli che si ritengono “evoluti”, costruendo un sistema attraente e narcotico: basta snocciolare dogmi del tipo "tutto è Uno", "la Coscienza evolve", "il libero arbitrio è onnipotente", "gli uomini sono Dio", neanche dei, Dio in persona e assurdità simili!

Chi acclamerebbe lo scienziato che, invece, dovesse delineare un paradigma non solo suscettibile di ulteriori definizioni, ma pure soggetto a falsificazione? Se poi questo modello, in luogo di solleticare l’egocentrismo e la superbia umana, dovesse ipotizzare che la “realtà”, oltre ad essere in gran parte enigmatica, è nel complesso refrattaria all’azione degli uomini, ricondotti ai loro limiti biologici ed ontologici, come pensiamo che sarebbe accolto? In questi schemi teorici si manifesta una hybris assai pericolosa, un antropocentrismo che possiede alcunché di diabolico.

Tuttavia i guru olografici sanno che i loro acritici seguaci hanno bisogno di essere blanditi ed illusi: ai sostenitori non interessa progredire nella conoscenza dell’universo con ricerche che richiedono sacrifici ed onestà intellettuale, piuttosto possedere una “verità” da diffondere, a loro volta, fra altri adepti. Questa "verità" – lo ribadiamo – deve gratificarli; deve prospettare un cosmo edulcorato, rassicurante. Non si accorgono - perché non vogliono accorgersene - delle contraddizioni che minano le dottrine dei santoni quantici: se qualcuno li invita a notare tali antinomie, essi reagiscono con furore, come i proseliti di un culto i cui fondamenti sono indiscutibili.

Se, però, modelli vincenti e dominanti come il Darwinismo, la teoria del Big bang, la stessa relatività sono stati e sono messi in discussione nei loro capisaldi, perché non dovremmo analizzare in modo critico le pseudo-filosofie di frontiera? Combattiamo la “scienza” che assurge a dogma imposto dall’establishment, ma pure gli imbonitori che, mentre fingono di contrastare l’establishment, mirano solo ad instaurarne un altro, non meno ottuso, non meno dispotico.

Vietata la riproduzione - Tutti i diritti riservati

APOCALISSI ALIENE: il libro

13 giugno, 2018

Le ragioni del silenzio



Le ragioni del silenzio sono molteplici: in primo luogo, ci si è sempre più allontanati dall’attualità. La cronaca, sebbene incida spesso sulle nostre condizioni materiali, è il cascame della storia e la storia stessa è misero simulacro della miseria umana.

La massa “vive” come se dovesse vivere per sempre; così non è. Alla massa appartiene non solo il volgo profano, ma soprattutto chi crede di essere sveglio, perché ha capito che il potere è perverso (grande scoperta!). Al popolino appartengono specialmente tutti quegli idioti saccenti che dispensano nuove teorie scientifiche a proposito della "realtà" nella sua interezza, senza conoscere né il significato di “teoria”, senza essersi mai chiesti che cosa sia la “realtà”. [1]

Per questo, se si scrive, si cerca di scavare in profondità, di strappare al destino un brandello di senso, altrimenti non è il caso neppure di cimentarsi. A che pro soffermarsi sul tragicomico spettacolo della “realtà” che ci circonda? Essa ha valore solo - e solo se - lascia trasparire qualcosa che sta oltre. L’universo fisico ha un significato soltanto se vi si può leggere in controluce una filigrana metafisica. La stessa filosofia vale, se si può trascenderla per tenderla in modo parossistico verso il paradosso, poiché l’esistenza, che è il fulcro del pensiero, è paradosso.

Siccome, però, alludere a tale situazione irrazionale con il linguaggio, che è pur sempre strumento logico, è arduo, sovente quanto si elabora si riduce ad un aforisma, lontano dall’articolo atteso dai lettori.

Un altro problema è costituito dal fatto che i testi filosofici sono spesso fraintesi, a causa della densità concettuale che li rende ostici anche a chi li concepisce e li appronta.

Per queste ragioni, si può decidere di interrompere l'aggiornamento della pagina personale: eppure, quanto più ci si chiude nel silenzio, tanto più anche in una sola frase si coagula la dynamis di un saggio formato da mille pagine. In poche parole si può concentrare una potenza dirompente, proprio poiché l’idea è imprigionata in un ambito ristretto, a somiglianza di quando si confina un'energia smisurata in uno spazio limitato. Si perde in estensione, ma si acquista in spessore ed efficacia.

[1] Che cos’è, infatti, la “realtà”? Un insieme di cose o di eventi, come ritengono i più? Una neurosimulazione? Un ologramma? Una proiezione della coscienza? O che cos’altro? Qual è lo statuto ontologico del “reale” di là dal senso comune? Qual è la differenza tra un modello scientifico e la "realtà"? Non bisogna mai rinunciare ad uno spirito critico affinché non si dia per scontato alcunché. Solo in questo modo ci si può emancipare dalla schiavitù nei confronti dell’”oggetto” per asserire i diritti dell’esegesi: questo non è relativismo ma consapevolezza che l’universo è una sfida formidabile ad ogni tentativo di comprensione esaustiva. Sebbene le domande sulla natura intrinseca del mondo siano destinate a naufragare nell’oceano dell’incomprensibile, è più opportuno, come scrive Manzoni, “tormentarsi nel dubbio che adagiarsi nell’errore”. Leggere Husserl, Wittgenstein, Kuhn, Feyerabend etc. potrebbe giovare a chi si è... appiattito su posizioni dogmatiche, pur convinto, con infinita spocchia, di aver rivoluzionato la scienza, di aver rifondato la cultura.

Vietata la riproduzione - Tutti i diritti riservati

APOCALISSI ALIENE: il libro

06 maggio, 2018

A Silvia



Nessun pastore e un solo gregge! Tutti vogliono le stesse cose, tutti sono uguali. (F. Nietzsche)

Tutto è falso. (T.W. Adorno)

La standardizzazione del modo di pensare e di operare assume estensioni nazionali o addirittura continentali. (A. Gramsci)

Le epiche gesta di Silvietta sono sfociate in un'iniqua sentenza. Eppure - sarà un tòpos - non tutti i mali vengono per nuocere: così abbiamo avuto l'opportunità di approfondire un caso antropologico quanto mai istruttivo. Per compiere lo studio, abbiamo, infatti, seguito qualche simposio del C.I.C.A.P. cui è intervenuta la Professoressa Silvia Bencivelli, "giornalista scientifica", di recente riciclatasi come autrice di romanzi d'appendicite.

In primo luogo, con l'aspetto avvenente, quasi angelicato della nostra eroina, stride il linguaggio che ella affetta: è costellato di espressioni che, mentre ambiscono ad essere alla moda, risultano grottesche e sgradevoli. Ci riferiamo specialmente al turpiloquio, esibito per apparire giovanili, sovente incastonato in discorsi pretenziosi e vani. La volgarità gratuita è un oltraggio all’”idioma gentile” (E. De Amicis), oltre che segno di cattivo gusto. Date queste premesse, che la sua zuccherosa fatica pseudo-letteraria sia un abominio è facile concludere. Leggiamo l’incipit della goffa opera, “Le mie amiche streghe”, libro incensato da una coorte di adulatori: "E' podalico. Lorenzo deve nascere tra un mese, ma è podalico e non ha nessuna intenzione di girarsi. Solo che Valeria il cesareo non lo vuole fare. Non vedo alternative, le ho detto. E lei ha scosso la testa". In poche righe una serqua di strafalcioni: il più intollerabile è il solito pleonasmo. La prosa di Paolo Attivissimo, al confronto, è di rara eleganza.



Che cosa pensare poi delle sue pose piene di malcelato sussiego, atteggiamenti di studiata naturalezza, usuali nei negazionisti storici con cui la Bencivelli condivide molti tratti del contegno? Accrescono l’immagine di una donna le cui frustrazioni sono sublimate nello specioso ruolo sociale: dietro si estende il deserto dei sentimenti e degli ideali. E' un ruolo costruito grazie all'alacre collaborazione di cortigiani zelanti ed onnipresenti nel circo della disinformazione: editori, scienziati, registi, attori, gazzettieri, fumettisti, scrittori... il cui folgorante successo è nell'essere dei perfetti falliti... ma con le giuste aderenze.

E' dunque questa l’”umanità”? Quando non è formata da esseri malvagi e perversi, è un brulichio di omuncoli tronfi, di donnicciole imbellettate, gonfie di vuoto come le labbra della Lilli Gruber. Davvero molte persone sono personae, ossia maschere: le loro caratteristiche le omologano in stereotipi che rendono assai agevole classificarle in un’unica categoria, quella della massa acefala. Ci vengono in mente le profetiche parole di Nietzsche che preannunciò l’avvento degli ultimi uomini, individui talmente degeneri da trasformarsi in un cumulo amorfo, omogeneo. Tra gli animali non si rileva altrettanta, deprecabile uniformità.

Vietata la riproduzione - Tutti i diritti riservati

APOCALISSI ALIENE: il libro

03 aprile, 2018

Perché l'ipotesi di Felice Vinci è tanto osteggiata?



Perché l'ipotesi di Felice Vinci, secondo cui i poemi omerici erano in origine ambientati nella regione baltica, è tanto osteggiata sino alla denigrazione? Le cause di tale ostilità ci sembrano molteplici. In primo luogo, Vinci è un ingegnere, uno studioso dalla formazione tecnico-scientifica: gli umanisti, usi a compulsare i classici, a sviscerare fonti antiche, a collazionare codici, si sentono, in un certo senso scavalcati e percepiscono le esegesi dei "non addetti ai lavori" come un'interferenza, come il gesto temerario di un profano.

Inoltre molti grecisti - Rosa Calzecchi Onesti è l'eccezione che conferma la regola - sono contraddistinti da un atteggiamento conservatore, quasi retrivo: le novità sono riguardate come azioni audaci, se non sacrileghe, dunque rigettate a priori. Chiusi nella torre eburnea del tempo preterito, oggetto di venerazione, parecchi specialisti sono degli eruditi che, quanto più si ampliano gli studi, tanto più si concentrano sul loro hortus conclusus da cui non osano uscire.

Pur di smentire le congetture dell'ingegner Vinci - che sono appunto modelli interpretativi e non verità - non si peritano di esporsi al ridicolo: ad esempio, giustificano il fatto che gli eroi omerici, anche d'estate, indossano pesanti mantelli, combattono mentre spesso infuriano vento e pioggia, fantasticando di un antico clima ellenico molto più rigido e piovoso di quello attuale.

Le acquisizioni di Vinci dirimono molte apparenti antinomie disseminate nell'Iliade e nell'Odissea; sono state in buona misura avvalorate da altri ricercatori e da ulteriori scoperte archeologiche, paleobotaniche etc. Nonostante ciò, si continua ad ignorarle o a tacciarle di inattendibilità, spesso con malcelato livore.

Ex oriente lux? Sì, ma l'Oriente fu l'unico terreno dove germogliò la civiltà o anche in altre aree furono gettati i semi di culture primeve? L'Europa settentrionale fu tra quelle? Pur senza disconoscere reciproci influssi ed un'origine comune, che è tuttavia arduo definire nella sua genesi, è possibile che il Nord Europa fu un importante centro d'irradiazione etnico-culturale. D'altronde - un esempio tra i numerosi - i Siculi (I Sekelesh della stele egizia di Medinet habu) erano insediati, intorno al 2000 a.C., nell'attuale Austria (il Norico dei Romani) o nell'Illiria (Dalmazia): da lì, valicate le Alpi o attraversato l'Adriatico, si diressero nel Lazio dove si fusero per motivi che sono tutt'altro che chiari con gli antichi Liguri, per poi trasferirsi in Sicilia, l'isola che da loro prende il nome. Qualche autore considera i Siculi proto-germanici, comunque quasi tutti ammettono che erano Indoeuropei.

Il presente ha radici molto profonde, quindi per lo più nascoste. L’odierna disintegrazione dell’identità europea, intesa come patrimonio linguistico, etico, spirituale, come retaggio che si manifesta in una specifica visione del mondo, in un attaccamento ad un passato donde sgorgano le sorgenti della contemporaneità, si attua forse anche attraverso un più o meno consapevole attacco all’ipotesi settentrionalista di cui Vinci è tra i fautori.

Vietata la riproduzione - Tutti i diritti riservati

APOCALISSI ALIENE: il libro

03 marzo, 2018

Rime e ricordi



Che cosa è più musicale e piacevole di una rima? Tuttavia le rime sono pure le graffe che agganciano una parola ad un’altra, quasi una sinopia incognita ed invisibile legasse suoni e sensi. Subito, come un’eco fatale, un timbro ne evoca un altro, trascinandosi dietro le ombre e le impronte dei significati. Le rime assomigliano ai ricordi, anelli di una catena che ci incatena all’identità.

Se è vero che le memorie, con la loro persistenza non-locale, non dipendono dai neuroni che, rinnovandosi costantemente, non possono conservare le tracce mnestiche, allora la facoltà di rammentare probabilmente si situa nella coscienza. La coscienza, non coincidente con l’encefalo da considerare una sorta di trasduttore, pare il substrato dell’identità, l’archivio delle reminiscenze che, insieme con la loro controparte di attese e di previsioni, formano la concrezione che chiamiamo l’io.

Sì, la psiche è affine ad “un fascio di sensazioni” (David Hume), ma il fascio delle varie facoltà s’innerva nel sottosuolo: le facoltà dello spirito sono simili a radici che, per reperire l’acqua necessaria alla vita dell’albero, scendono fino a quando attingono il prezioso liquido da una falda profonda.

Che cos’è dunque l’identità? Una sussistenza oltre lo spazio ed il tempo, una continuità di là dall’ininterrotto, confuso flusso di emozioni, stati d’animo, sentimenti. I teologi ed alcuni filosofi la definiscono “anima”. L’identità come peso, pensiero… e vorremmo che pensiero rimasse solo con leggero.

Vietata la riproduzione - Tutti i diritti riservati

APOCALISSI ALIENE: il libro

20 gennaio, 2018

Dante a Bussana

A Bussana Nuova, (frazione di Sanremo) sorge una chiesa eretta in solo due anni per volontà di don Francesco Lombardi e dedicata al Sacro cuore di Gesù. E' un maestoso edificio in stile neo-rinascimentale bramantesco. [1]

Nel visitatore suscita notevole impressione un’opera singolare, collocata nell’altare laterale sinistro e dovuta agli artisti Bogliaghi e Paleni, non solo perché compenetra in modo mirabile scultura e pittura, ma pure per il soggetto non diffusissimo, ossia la raffigurazione delle anime del Purgatorio.



In alto domina il Cristo, cinto da un alone costellato di raggi dorati e rosso fuoco. Ai lati dei battenti bronzei, istoriati con episodi biblici e cosparsi di sfavillii, troneggiano ieratici gli angeli Gabriele e, armato di spada, Michele. In basso sono scolpite le anime purganti, alcune in preghiera, altre ripiegate nella contrizione, altre protese verso l’adito con una tensione parossistica tradotta dall’artista con superfici e campiture su cui la luce e l’ombra vibrano nervose sì da suggerire l’intenso anelito delle anime verso la liberazione. Muscoli e tendini delle figure sono modellati con maestria talmente mirabile da ricordare quasi quei capolavori michelangioleschi dove il dinamismo delle forme traduce il travaglio spirituale.

Il fremito che percorre i corpi ed i panneggi si trasmette infine ai drappi dipinti ai lati della composizione: ivi gli incavi ed i rilievi del marmo sono risaltati mediante una pittura trompe-l’oeil.

Di grande effetto è il contrasto fra la parte superiore dell’opera, in cui prevale una solenne quiete, e quella inferiore, tutta palpiti e moti.

Di là dall’iconografia religioso-dantesca, si legge nell’opera la condizione umana immersa nel flusso incessante e distruttivo del tempo, perciò sempre volta, con disperata speranza, ad una pace radiosa.

[1] Il tempio fu costruito dopo che un rovinoso sisma, il 23 febbraio del 1887, ebbe devastato Bussana poi detta “vecchia”, oggi villaggio diroccato in cui si risiedono artisti.


Vietata la riproduzione - Tutti i diritti riservati

APOCALISSI ALIENE: il libro

12 gennaio, 2018

Domani



E’ inevitabile: gli uomini non riescono a vivere il presente, piuttosto tendono a proiettarsi nel futuro, quando non si ripiegano sul passato. Si è che l’adesso, oltre ad essere insoddisfacente, è quanto mai effimero: così ci protendiamo, pieni di ingenue speranze, verso l’avvenire. Non sappiamo neppure se domani saremo ancora vivi, ma non ci stanchiamo mai di progettare, antivedere, concepire, come se il futuro ci appartenesse, come se fosse una miniera di opportunità e di gratificazioni.

Lo stesso Nietzsche, fra i pochi pensatori che non si lascia incantare dal miraggio dell’avvenire, dalle “magnifiche sorti e progressive”, nel momento in cui esorta a vivere l’istante onde sia riempito di gioiosa accettazione dell’esistenza, non vince del tutto l’istinto a proiettarsi nel tempo futuro, dacché, spinto da un disperato ottimismo, è incline a vagheggiare in un'età lontana l’avvento dell’oltreuomo.

La religione e la scienza, ma pure la politica promettono l’eldorado: basta saper aspettare… e si aspetta Godot.

“Domani”: mai vocabolo fu più evocativo, mai vocabolo fu più vuoto.

A differenza di quanto il volgo ripete, l’incitamento di Orazio “carpe diem” non solo non significa “cogli l’attimo”, bensì “afferra il giorno”, ma soprattutto non esprime un triviale edonismo, quanto un’esortazione a strappare ad un destino avaro le pochissime gioie che ci può forse offrire, con la consapevolezza che il domani incombe, foriero di incognite e di insidie.

Più dei filosofi, i poeti additano le verità, non di rado sgradevoli. Leopardi, nel celeberrimo “Sabato del villaggio”, c’insegna a non riporre fiducia alcuna nel futuro: “diman tristezza e noia recheran l’ore”. La fede nell’avvenire è solo una delle tante illusioni che consentono all’umanità di sopravvivere: è il monito che echeggia pure nel “Dialogo di un passeggere e di un venditore di almanacchi”. L’anno nuovo, che popoliamo di disegni e di sogni, se non sarà simile all’anno che l’ha preceduto, sarà peggiore.

Così, anche se siamo consci nel nostro intimo del perenne, sempre risorgente inganno, ci lasciamo ammaliare dalle sirene del futuro. Eppure, come le sirene che affascinano Ulisse, che cosa può garantire il futuro? Solo la morte.

Vietata la riproduzione - Tutti i diritti riservati

APOCALISSI ALIENE: il libro

01 gennaio, 2018

Legge e Giustizia



Per la guerra i danari si trovano sempre. (A. Manzoni)

Pochi sanno che i celebri versetti in cui Cristo afferma, dopo aver chiesto di esibirgli la moneta con l’effigie dell’imperatore, “Date a Cesare quel che è di Cesare, date a Dio quel che è di Dio”, furono mutilati di una significativa postilla: “Date a me quel è che mio”. E’ una glossa sopravvissuta in quello che è probabilmente il vangelo più antico, il libretto cosiddetto di Giuda Tommaso.

Ha ragione Renan a scrivere, nel suo noto saggio ‘Vita di Gesù,’ che, da un punto di vista della logica aristotelica, i discorsi del Messia sono talora piuttosto deboli: appunto perché è un messaggio che trascende la dialettica classica per situarsi in una dimensione differente. Come interpretare la risposta con cui il Maestro è interpellato sulla liceità di versare il tributo ai Romani? Risulta come un responso ambiguo e diplomatico, un responso che elude la questione, quasi un koan. Di solito s’interpreta come un asserto che sancisce la separazione tra la sfera temporale, il ruolo dello Stato, esercitato soprattutto attraverso la coercizione del fisco, e la sfera spirituale: ma è solo così o, anche tenendo conto del perentorio e scomodo “date a me quel che è mio”, siamo al cospetto di un’affermazione circa la sostanziale superiorità della dimensione etico-trascendente rispetto al campo politico? Non ci pare dunque un’istigazione a non pagare le imposte, ma una vena anti-statale attraversa tali parole: vi traspare un’insofferenza nei confronti del potere.

Più in generale, non poche frasi ed azioni del Messia manifestano tale insofferenza rispetto alla Legge costituita, intesa come insieme di aride formule e prescrizioni, avulse da principî non scritti radicati nella Coscienza. E’ il dissidio tra Legge, il diritto storto ed iniquo degli Stati, costruzioni demoniache, e la Giustizia, l’universo di valori che nessuna sentenza di tribunale e norma “umana” potrà mai cancellare. E’ il dissidio, anzi incompatibilità avvertita, ad esempio, da Thoreau che preferì il carcere piuttosto che pagare un balzello destinato a finanziare una delle tante vili aggressioni sferrate dagli Stati Uniti d’America.

Come si pone l’Uomo – siamo tentati di definirlo con Nietzsche ‘Oltreuomo’, riconoscendo in codesto termine più di una sfumatura anarchico-libertaria – nei confronti della Legge, ossia il diritto storto? Gli Uomini veri rispettano le regole, ma, nel momento in cui si accorgono che le norme sono ingiuste, giustamente le condannano. Pertanto se pagare le tasse, significa contribuire a finanziare conflitti sanguinosi e genocidi, le attività di geoingegneria clandestina ed il sistema dominato da plutocrati ed usurai, per non dir peggio, l’obiezione fiscale non solo è legittima, ma pure doverosa.

Alle persone pensanti il compito di stabilire a che cosa sono destinate in larghissima parte le tasse; alle persone pensanti il compito di regolarsi di conseguenza, il compito di scegliere se obbedire a Dio, all’Etica ed alla Coscienza o se servire lo Stato, perfetta incarnazione del Male. Quali saranno le conseguenze per chi si ribella agli oppressori, ma specialmente quali saranno le ripercussioni per chi coopera con il regime tirannico, in cambio di denaro e privilegi? Fino a quando e con quali prospettive di là da questa esistenza i servi del sistema imperverseranno?

N.B: la maiuscola di Stato e quella di Legge, nel testo il "diritto storto", sono ironiche.

Vietata la riproduzione - Tutti i diritti riservati

APOCALISSI ALIENE: il libro