Gli antichi usavano un metro spesso diverso dal nostro quando valutavano il carattere degli animali. Il cane, per loro, non era, se non raramente, il miglior amico dell’uomo. Nell’Odissea, il fedele Argo muore felice, dopo aver riconosciuto l’amato padrone, tornato ad Itaca dopo venti anni di assenza. Altri episodi di fedeltà canina sono raccontati da qualche autore classico, ma, per quanto illustri, non sono bastevoli a bilanciare la cattiva reputazione di cui l’animale godeva sia presso i Greci sia presso i Romani.
Elena, ad Ilio, dopo anni di conflitto, si accorge di quanti lutti abbia provocato la sua fuga con Paride, l’attraente ma inetto figlio di Priamo. Egli l’ha sedotta, facendole dimenticare la patria Sparta e la famiglia, ma, col tempo, si è rivelato un vanitoso ed un debole, capace di pensare solo alla sua bellezza ed alle donne, come gli rinfaccia aspramente il fratello Ettore. Elena si dispera, si vergogna e crede che tutti dovrebbero sdegnarla. Non servono a niente le parole di Priamo che tenta di rincuorarla. Non serve il discorso dei vecchi troiani, secondo i quali “per una simile donna non è un’onta che i Teucri e gli Achei dai solidi schinieri soffrano a lungo dolori”. Impietosa verso sé stessa, Elena parla dei propri “occhi di cagna”.
Atteone era il figlio di Aristeo. Egli era stato allevato dal centauro Chirone, che gli aveva insegnato l’arte della caccia. Fu divorato sul monte Cicerone, dai suoi cani. Esistono differenti versioni di questa morte: la maggior parte dei mitografi la attribuisce all’ira della dea Artemide, che era stata vista da Atteone mentre si bagnava ad una fonte. La dea lo tramutò in cervo e rese furiosi i cinquanta cani che costituivano la sua muta, aizzandoli contro di lui. I cani sbranarono il cacciatore, non riconoscendolo, poi lo cercarono invano per tutto il bosco in cui echeggiarono i loro lai. Sebbene avessero cercato il padrone, i cani si erano comportati come feroci lupi.
Anche i Romani, in genere, non ebbero un’alta considerazione del cane: infatti se Plinio il Vecchio asserisce che il cane è l’amico più fedele dell’uomo, nel contempo, senza alcuna compartecipazione per il destino delle vittime, ricorda che ogni anno alcuni cani erano appesi vivi ad una forca di sambuco tra il tempio della Giovinezza e quello di Summano: alla specie, infatti, non era stato mai perdonato di non aver difeso il Campidoglio dai Galli guidati da Brenno.
Virgilio definisce le cagne obscenae, ossia orribili, turpi; Orazio reputa il cane immundus, immondo.
Tra i “cristiani” si leggono analoghi vituperi: per Giovanni Crisostomo il cane è “l’animale più vile” e “coloro che vivono in irrimediabile empietà e non hanno alcuna speranza di redimersi” sono dei cani. Per Agostino il cane è “disprezzabile ed ignobile”, è “l’ultimo degli uomini e delle bestie”.
Probabilmente per questa sua pessima fama, il cane, insieme con un serpente, un gallo ed una scimmia, era rinchiuso nel sacco (culleus) del parricida.
Nel mondo antico, del miglior compagno dell’uomo si apprezzavano soprattutto le capacità venatorie, ma anche il suo ruolo di custode della casa e delle greggi. Omero cita cani da pastore, di Argo dice che era addestrato per la caccia ai cervi, alle volpi ed alle capre selvatiche. Come cane da guardia e da pastore nel mondo ellenico era usato il molosso d’Epiro, mentre per la caccia era diffuso il lacone. Forse incrocio tra il molosso ed il lacone era il mastino cretese. Queste razze furono introdotte in Italia, dove si aggiunsero a quelle locali: il cane umbro, il salentino, l’etrusco ed il molosso. Di quest’ultimo ci fornisce un’accurata descrizione Columella nel De re rustica (I sec.d.C.). Un tipo di levriero veloce fu importato dalla Gallia ed usato per le corse.
È evidente che l’affezione che molti oggi dimostrano (o credono di dimostrare) per il cane era sentimento quasi ignoto agli antichi, per i quali prevalevano considerazioni utilitaristiche. Il fenomeno si può ricondurre, in questo, come in molti altri ambiti, ad una visione antropocentrica, tipica del mondo classico (e non solo) che l’umanità non è riuscita a trascendere, una visione non scevra di pregi ma gravida di limiti.
Indicazioni bibliografiche:
W. Burkert, Homo necans, Berlin, 1972
E. Cantarella, I supplizi capitali, Milano, 2005
Enciclopedia dell’antichità classica, Milano, 2000, sotto le voci Atteone e cane
Fonti classiche:
Od. 17, 290-32
Il. 3, 3; 3, 161-165; 156-157; 180
Plin. N.H. 8, 61, 142; 29, 14, 57
Horat., Epist. 1, 2, 26
Verg. Georg. 1, 470
Johann. Crys. Homil. 10, 3
August. Quaest. in Heptateuc. 6, 7; 7, 73
Elena, ad Ilio, dopo anni di conflitto, si accorge di quanti lutti abbia provocato la sua fuga con Paride, l’attraente ma inetto figlio di Priamo. Egli l’ha sedotta, facendole dimenticare la patria Sparta e la famiglia, ma, col tempo, si è rivelato un vanitoso ed un debole, capace di pensare solo alla sua bellezza ed alle donne, come gli rinfaccia aspramente il fratello Ettore. Elena si dispera, si vergogna e crede che tutti dovrebbero sdegnarla. Non servono a niente le parole di Priamo che tenta di rincuorarla. Non serve il discorso dei vecchi troiani, secondo i quali “per una simile donna non è un’onta che i Teucri e gli Achei dai solidi schinieri soffrano a lungo dolori”. Impietosa verso sé stessa, Elena parla dei propri “occhi di cagna”.
Atteone era il figlio di Aristeo. Egli era stato allevato dal centauro Chirone, che gli aveva insegnato l’arte della caccia. Fu divorato sul monte Cicerone, dai suoi cani. Esistono differenti versioni di questa morte: la maggior parte dei mitografi la attribuisce all’ira della dea Artemide, che era stata vista da Atteone mentre si bagnava ad una fonte. La dea lo tramutò in cervo e rese furiosi i cinquanta cani che costituivano la sua muta, aizzandoli contro di lui. I cani sbranarono il cacciatore, non riconoscendolo, poi lo cercarono invano per tutto il bosco in cui echeggiarono i loro lai. Sebbene avessero cercato il padrone, i cani si erano comportati come feroci lupi.
Anche i Romani, in genere, non ebbero un’alta considerazione del cane: infatti se Plinio il Vecchio asserisce che il cane è l’amico più fedele dell’uomo, nel contempo, senza alcuna compartecipazione per il destino delle vittime, ricorda che ogni anno alcuni cani erano appesi vivi ad una forca di sambuco tra il tempio della Giovinezza e quello di Summano: alla specie, infatti, non era stato mai perdonato di non aver difeso il Campidoglio dai Galli guidati da Brenno.
Virgilio definisce le cagne obscenae, ossia orribili, turpi; Orazio reputa il cane immundus, immondo.
Tra i “cristiani” si leggono analoghi vituperi: per Giovanni Crisostomo il cane è “l’animale più vile” e “coloro che vivono in irrimediabile empietà e non hanno alcuna speranza di redimersi” sono dei cani. Per Agostino il cane è “disprezzabile ed ignobile”, è “l’ultimo degli uomini e delle bestie”.
Probabilmente per questa sua pessima fama, il cane, insieme con un serpente, un gallo ed una scimmia, era rinchiuso nel sacco (culleus) del parricida.
Nel mondo antico, del miglior compagno dell’uomo si apprezzavano soprattutto le capacità venatorie, ma anche il suo ruolo di custode della casa e delle greggi. Omero cita cani da pastore, di Argo dice che era addestrato per la caccia ai cervi, alle volpi ed alle capre selvatiche. Come cane da guardia e da pastore nel mondo ellenico era usato il molosso d’Epiro, mentre per la caccia era diffuso il lacone. Forse incrocio tra il molosso ed il lacone era il mastino cretese. Queste razze furono introdotte in Italia, dove si aggiunsero a quelle locali: il cane umbro, il salentino, l’etrusco ed il molosso. Di quest’ultimo ci fornisce un’accurata descrizione Columella nel De re rustica (I sec.d.C.). Un tipo di levriero veloce fu importato dalla Gallia ed usato per le corse.
È evidente che l’affezione che molti oggi dimostrano (o credono di dimostrare) per il cane era sentimento quasi ignoto agli antichi, per i quali prevalevano considerazioni utilitaristiche. Il fenomeno si può ricondurre, in questo, come in molti altri ambiti, ad una visione antropocentrica, tipica del mondo classico (e non solo) che l’umanità non è riuscita a trascendere, una visione non scevra di pregi ma gravida di limiti.
Indicazioni bibliografiche:
W. Burkert, Homo necans, Berlin, 1972
E. Cantarella, I supplizi capitali, Milano, 2005
Enciclopedia dell’antichità classica, Milano, 2000, sotto le voci Atteone e cane
Fonti classiche:
Od. 17, 290-32
Il. 3, 3; 3, 161-165; 156-157; 180
Plin. N.H. 8, 61, 142; 29, 14, 57
Horat., Epist. 1, 2, 26
Verg. Georg. 1, 470
Johann. Crys. Homil. 10, 3
August. Quaest. in Heptateuc. 6, 7; 7, 73
"....La dea lo tramutò in cervo e rese furiosi i cinquanta cani che costituivano la sua muta, aizzandoli contro di lui. I cani sbranarono il cacciatore, non riconoscendolo, poi lo cercarono invano per tutto il bosco in cui echeggiarono i loro lai. Sebbene avessero cercato il padrone, i cani si erano comportati come feroci lupi...."
RispondiEliminaPiù che una leggenda, più che una metafora, è semplicemente la descrizione di una tecnica millenaria usata dagli Illuminati, non trovi Zret???!?!??
L'abbiamo sotto gli occhi tutti i 'santi' giorni, sigh!
Avles
E' proprio così, purtroppo. Non dimentichiamo chi erano le elites greche e romane... Ciao
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