07 aprile, 2010

Redenzione

Redenzione è letteralmente "riscatto". Com'è misero, eppure evocativo il significato letterale! Ci riporta all'"economia" dell’universo. I conti vanno pareggiati, prima o poi, i debiti saldati.

La necessità della redenzione implica il concetto di caduta. Impossibile stabilire se essa fu necessaria, dunque nell'ordine delle cose oppure la conseguenza di un errore o di un’infedeltà. Nella caduta il Ribelle trascinò parte del cosmo: diventa ineludibile una riparazione.

Testimonianza del traviamento è l'uomo: il discorso antropologico accentra in sé la riflessione non per antropocentrismo, ma come enigma cogente. Indagare la natura umana in bilico tra gli abissi della turpitudine e l'empireo della purezza, con tutta la gamma intermedia, è il quesito per antonomasia, poiché condensa in sé l'inestricabile, gordiana contraddizione del reale.

La verità oltraggiata e soprattutto l’innocenza punita sono i trofei del male, ma esiste un "male irredimibile", come lo definì Carlo Emilio Gadda? Occorre versare del sangue per lavare via il sangue, il cui valore vitale e purificatorio è espresso in quelle raffigurazioni dove dal liquido che sgocciola su un prato sbocciano dei fiori rossi.

Il tema della ferita aperta nel corpo della creazione è stato trasfigurato e trasposto nei miti basati sul tema del sacrificio. Sacrificio è azione sacra (anche nel senso di terribile per chi, con abnegazione, assume il male su di sé per espiarlo); gli dei che si immolano per l'umanità vivono più l'angoscia del destino che quella della morte. Mi chiedo in che misura questi sacrifici redimano e quanto di essi, invece, appartenga ad una retorica della sofferenza, della flagellazione, tra voluptas dolendi e tratti autolesionistici. Mi chiedo quale sia la condizione che possa offrire una speranza di salvezza: a lasciar intravedere uno spiraglio, non sono né il merito né la predestinazione – cocci di elucubrazioni teologiche – ma è forse la silenziosa fedeltà a sé stessi.

Il sacrificio vale come gesto esemplare o come atto che salva? Se il capro espiatorio cancella le colpe, il male può essere annichilito, ma anche dimenticato? La sua cancellazione pare implicare la distruzione definitiva, irreversibile di chi lo incarna, di chi vi aderisce con piena e pervicace consapevolezza. La redenzione potrebbe significare apocatastasi o fiamma distruttrice.

E’ possibile che alcune delle luci siano solo fuochi fatui.



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6 commenti:

  1. "Mi chiedo in che misura questi sacrifici redimano e quanto di essi, invece, appartenga ad una retorica della sofferenza, della flagellazione, tra voluptas dolendi e tratti autolesionistici. Mi chiedo quale sia la condizione che possa offrire una speranza di salvezza: a lasciar intravedere uno spiraglio, non sono né il merito né la predestinazione – cocci di elucubrazioni teologiche – ma è forse la silenziosa fedeltà a sé stessi."
    Con l'ultima frase, credo tu abbia colto nel segno. La strada per la redenzione (ammesso che la questione si ponga per davvero) credo sia un mistero assoluto, che trascende le nostre limitatissime leggi della fisica, dell'etica, o anche il semplice 'senso comune', e la percezione dei sensi. Dalla dimensione limitata in cui (per ora) siamo stati relegati, possiamo solo intuire alcune dinamiche, come immagini viste attraverso un vetro smerigliato. "Salvatico è chi si salva", hai citato una volta: il punto di partenza per cominciare a capire, secondo me, è lì.

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  2. Idonee le tue parole, Artemyus. In verità, il tema della redenzione è uno dei più ostici che ho provato a trattare sicché ho solo vergato qualche riflessione rapsodica e "storta come un ramo".

    "Dalla dimensione limitata in cui (per ora) siamo stati relegati, possiamo solo intuire alcune dinamiche, come immagini viste attraverso un vetro smerigliato".

    E' proprio così, secondo il mio parere.

    Ciao e grazie

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  3. Io inoltre mi chiedo in che misura il concetto di 'caduta' abbia a che fare con la nostra concezione del tempo giudaico-cristiana. La freccia del tempo - inteso come successione cronologica di istanti, ossia come Chronos che mangia i suoi figli - mi pare sia alla base di tutta la speculazione religiosa nonche' filosofica dell'Occidente, almeno dai tempi biblici (con le nefande conseguenze del balordo concetto di progresso che sono sotto gli occhi di tutti). Se un errore o un'infedelta' vi e' stata, di certo non puo' essere imputabile all'umanita' come nel racconto biblico, in quanto l'espediente non fa che fornire un paradigma ancestrale per il senso di colpa, superbo e sempiterno strumento di dominio (purtroppo inculcato talvolta anche da chi ci dovrebbe amare). Ebbene in quest'ottica un evento espiatorio deve altresi' avvenire, come si evince dalle religioni monoteistiche, poiche' - chi piu' chi meno - tutte aspettano il ritorno del messia o del salvatore (persino nel Buddismo credo sia contemplato il ritorno del Bhudda). D'altra parte l'alternativa a questa visione del tempo e' quella ciclica, piu' consona alle filosofie e religioni orientali e tuttavia riproposta in Occidente da Nietzsche tramite la sua dottrina dell'eterno ritorno dell'uguale. Ma anche qui non possiamo non interrogarci sul senso di una simile idea, infatti ci si potrebbe chiedere: perché un altro anno, e un altro ancora, e così via eternamente, in cicli sempre uguali, sempre così disperatamente uguali a se stessi? Che ne è del desiderio di superamento dell’umanità in vista di un "avvenire" che sia "migliore del presente", di un’elevazione del genere umano, con questa idea 'a rotativa' di un identico eternamente tornante, eternamente inservibile, irrecuperabile? E cosa vale una vita, e sia pur cento, mille vite, se non se ne trae un’esperienza, se non se ne ricava un insegnamento da far fruttare "a favore di un tempo venturo"? Se il tempo e' un circolo e tutto e' destinato a ritornare, anche se non in maniera identica ma simile, allora un'eta' dell'oro dovra' ancora ripresentarsi all'orizzonte, ma a che pro se gia' era stata (ancorche' con diverse sfumature)? Chiedo venia se ricerco disperatamente un senso nel divenire, talvolta sono tristemente pervaso dall'agghiacciante dubbio che la stessa realta' esperita ne sia priva e che il nostro continuo domandare non sia che un bisogno "umano, troppo umano".

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  4. Rocco, credo che si possa uscire da questo dedalo solo ipotizzando un superamento del tempo, una dimensione ucronica: dunque il tempo sarebbe un'estrusione dell'essere, un'estrusione in attesa di essere riassorbita?
    Correttamente evochi il concetto del senso di colpa come strumento di controllo e pure rifletti sull'assurdità del tempo ciclico. Si narra che Nietzsche fu colto da un brivido abissale e paralizzato da un trauma spaventoso, quando intuì (intuizione non molto originale, per la verità), quando gli balenò nella mente l'idea dell'eterno ritorno dell'uguale. E' senza dubbio un'idea molto più tremenda della pur sconsolante caduta. Tuttavia il tempo appartiene al mondo della doxa e l'essere ne prescinde del tutto: perché l'essere si sia ritratto per dar vita al mondo, resta un mistero sigillato, visto che l'essere nella sua perfezione non ha certo bisogno di maturare esperienze.

    Le domande restano, ma nulla è più umano della domanda.

    Ciao e grazie.

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  5. Premetto che non sono un amante di Heidegger, ne'
    come filosofo ne' tantomeno come persona (pavido
    e pusillanime simpatizzante nazista senza nemmeno
    i coglioni di andare al funerale del suo maestro).
    Cio' detto per taluni ha un'importanza filosofica
    e, senz'altro, non sarebbe d'accordo quando
    affermi che l'essere puo' prescindere totalmente
    dal tempo: in quanto come noto per il nostro la
    temporalita' sarebbe caratteristica essenziale e
    fondante dell'"esserci". A meno che tu non ti
    riferissi all'essere Parmenideo ripreso ai
    giorni nostri da Severino, il quale tuttavia
    considera gia' tutti quanti etern per il solo
    fatto di esister. Io nel mio piccolo faccio
    fatica ad immaginare un essere immobile, statico
    e privo di differenziazioni a' la Parmenide
    appunto. Infatti non ultimo scopo della suddetta
    dottrina nietzscheana, pur nelle sue enormi
    contraddizioni, era di "imprimere al divenire il
    carattere dell'essere". E qui sembra che ci
    troviamo di fronte ad un empasse (probabilmente
    a causa della nostra estrema limitatezza.
    Grazie a te

    PS: preciso la chiusa del precedente intervento:
    non e'tanto il domandare quanto la ricerca del
    telos che talvolta mi spaventa in quanto potrebbe
    essere un illusorio antropomorfismo.

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  6. Rocco, la filosofia occidentale comincia proprio con Parmenide, con il suo celebre "l'essere è, il non essere non è", affermazione gravida di conseguenze ed implicazioni, pur nella sua tetragona logica. Che valore assume tale affermazione? Logico, ontologico, cosmologico? Il dibattito è aperto. E' difficile immaginare l'essere parmenideo, lo sfero perfetto pur nella sua finitudine, un essere che è e basta. Questo essere assomiglia ad un nulla da cui tutto sorge. Il Da-sein di Heidegger situa l'essere nell'esserci, nel tempo appunto, ma senza trasformarlo in qualcosa di meramente esistenziale. E' evidente che queste elucubrazioni si infilano in un cul de sac, mancandoci sia definizioni univoche sia una visione a 360 gradi: dal nostro limitato osservatorio percepiamo solo una parte dell'universo e per giunta in modo soggettivo. Non affermerò con Nietzsche che la verità non esiste, ma che è inconoscibile nella sua essenza.

    Ciao e grazie del bel contributo.

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