02 febbraio, 2011

Tre minuti

Tre minuti, erano solo tre minuti: eravamo adolescenti – adolescenza, età circonfusa d’oro, riflesso di un’epoca incommensurabilmente lontana nello spazio e nel tempo – quando, in modo inatteso, si viveva l’estasi.

Poteva essere una canzone che ci trascinava in un vortice di sensazioni ineffabili, poteva essere la contemplazione del cielo azzurro dove sprofondavamo in un’ebbra vertigine, la corsa a perdifiato in un campo inondato dal sole.

Il tempo si annullava – il tempo, questa bolla elettromagnetica in cui siamo imprigionati – la vita era un incantesimo, il brillio di un cristallo.

Il mondo là fuori, con le sue ferite purulente, si dileguava. La vita pareva allora un’avventura fantastica. Ogni emozione coinvolgeva tutto l’essere, trasfigurandoci, anche se solo per pochi minuti.

Oggi all’esperienza dell’incanto si è sostituita la sua descrizione attraverso i libri, la sua sciacquatura in concetti. La spensieratezza è defunta. Oggi – ammettiamolo – la felicità che non è la condizione dell’uomo volgare, ma insopprimibile impulso cui tendono le creature (l’aveva inteso Giacomo Leopardi) è, nel migliore dei casi, un piacere freddo, intellettualistico. Oggi un oscuro senso di colpa, dai contorni chiarissimi, ci divora il cuore, mentre presagi di disfacimento scivolano tra le ombre del crepuscolo. Soprattutto, simile ad una folgore, ci colpisce il dubbio che sia tutto sbagliato, privo di senso: dolore e gioia, principio e fine, cielo ed inferno… la stessa cosa. Siamo insignificanti errori di un gigantesco scarto dalla giusta rotta. Alla nostra voce di disperata speranza risponde solo l’eco della stessa voce.

E’ appena un istante, ma che resta per sempre: cicatrice indelebile sull’anima.



APOCALISSI ALIENE: il libro

6 commenti:

  1. Un tempo per sempre perduto. Temo.

    Ciao

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  2. "Un tempo per sempre perduto", questo è vero per noi. Ma la magia di questi "attimi eterni" si rinnova ogni giorno, incarnandosi nelle vite dei giovani di oggi e lo sarà in quelle di domani. Dunque è forse la nostra innata visione egocentrica che ci rende ormai insensibili. Eppure in alcuni momenti la vicinanza di un bambino mi fa rivivere quelle sensazioni, anche se in modo diverso e più mediato.
    E allora sento che non tutto è perduto.

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  3. E' forse qualcosa di analogo al mito del buon selvaggio che cerchi di rievocare con questo tuo amaro post? Ma - dico io - il 'buon selvaggio' non era forse il frutto di una 'diminutio', di una rinuncia pre-natale e pertanto congenita ad una condizione ontologica superiore,ovvero ad una autocoscienza di tipo trascendente e quindi compiuta?

    Allora non conviene forse smettere di pensare al passato come trascorso pregnante e qualitativamente superiore al presente? Trattasi di un 'vizio' molto comune e verosimilmente innato al funzionamento dell'anima umana. Nei suoi libri Mircea Eliade si è soffermato infinite volte su tale caratteristica tipica delle popolazioni aborigene dedite al culto del passato da loro visto come carico di prestigio nei confronti di un presente molto svuotato di significati.

    Ma forse è di equivoco, di percezione ingannatrice che si tratta. Una volta che si sia riusciti a restaurare in noi la giusta percezione,credo che smetteremo di ricordare gli eventi passati come avvolti da un'aura numinosa, da uno 'charme' che avrebbe in sè attributi quasi mitici. Di preciso non saprei, ma potrebbe darsi.

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  4. Paolo, esiste un punto in cui la linea filogenetica si raccorda a quella ontegenetica, come se l'infanzia dell'individuo fosse un'ombra luminosa e numinosa dell'infanzia vissuta dall'umanità, antecedente alla caduta, al tempo stesso. Chissà forse anche lo Zep tepi, l'Età del Sogno e dell'oro sono nel futuro e non nel passato e poi che cos'è il passato, se non un vento di nulla?

    Ciao e grazie.

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  5. Maxsognatore, si suole ripetere che le nuove generazioni sono il nostro futuro: se passeranno attraverso la cruna, sarà così...

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