E’ nato prima l’uovo o la gallina? Se rivolgiamo questa domanda, quasi tutti risponderanno con sicumera: “L’uovo!”. E’, infatti, dalla cellula-uovo che si sviluppa l’individuo e non solo nel caso della gallina. Ce lo insegna la biologia.
Eppure, come avviene spesso, il common sense e la “scienza” provinciale, i cui araldi appartengono allo squallido C.I.C.A.P., dimostrano ancora una volta di bandire una visione acritica ed asfittica del mondo. Gli aderenti al gretto comitato osano affermare di non essere gli epigoni del Positivismo ottocentesco! Hanno ragione: sono molto più indietro. Abbarbicati alla logica aristotelica o, peggio, ad una sua parodia, reagiscono piccati, non appena sono capovolti o contestati i loro schemi post-peripatetici. Eppure è probabilmente più vicino ad una possibile verità Platone, rispetto ad Aristotele: il primo, postulando l’esistenza delle idee, si riferisce ad un archetipo di cui le cose “concrete” sono un riflesso.
Certo, è difficile immaginare che ciascun ente empirico trovi la sua ragion d’essere in un modello a priori, come se una Mente elaborasse dei concetti tradotti poi in cose. I problemi sono numerosi e complessi. Nessun rasoio di Ockam può essere utile. Esiste un archetipo di ciascun genere o di ogni cosa o, come ritiene l’ultimo Platone, solo delle “verità” matematiche e dei valori estetici ed etici? Quando un ente singolo o una categoria (ad esempio, la specie del Diplodoco) si estingue, resta il suo stampo, pronto per essere all’occorrenza riusato? Se la risposta fosse affermativa, si potrebbe pensare che la morte del singolo e l’estinzione di una specie non siano definitivi. Essi sopravvivono come forme e pre-esistono come tali, in un archivio in cui sono custoditi innumerevoli prototipi.
Qui il discorso si potrebbe estendere ai simboli, da non considerare solo significati culturalmente determinati, quanto matrici metafisiche. L’uomo penserebbe per simboli, perché da essi pensato. Anche le immagini oniriche, come opina Jung, sarebbero contenuti universali ed a-storici. Ciò potrebbe render conto delle strutture preformanti la lingua che è un sistema simbolico, le cui configurazioni potrebbero essere innate (si pensi al generativismo) e della codificazione che sembra soggiacere al mondo naturale.
Altre questioni si pongono: il numero enorme di specie animali e vegetali implica un altrettanto enorme numero di idee, con l’impressione di ridondanza: il mondo come eccesso di essere e di esseri. Le idee sono collocabili tutte nello stesso dominio o alcune (le idee e le rispettive estrinsecazioni sensibili che paiono aberranti, ad esempio, quella di un parassita micidiale e di abominii, come Paolo Attivissimo) hanno un’altra matrice? Le idee aberranti sono transitorie?
E’ nella biologia, di là dalla stessa querelle tra fissismo ed evoluzionismo, che il tema della specie-archetipo si palesa in tutta la sua enormità: ciascuna specie denota, oltre i tratti dell’individualità, un carattere generale, un disegno intrinseco ed immutabile, che sembra il risultato di un pro-getto.
Il discorso mi induce ad accennare al dominio degli intelligibili che è designato, nella tradizione orientale, akasha. Akasha, la base e l’essenza delle cose nel mondo immanente, è tradotto con “spazio” o con “etere”: in questa sorta di data-base universale, sono contenuti non solo gli esemplari delle cose, ma pure le memorie di azioni, pensieri, emozioni…
Dove si situano poi lo spazio ed il tempo in cui si collocano gli oggetti e gli eventi, sottoinsiemi di un insieme? Anche spazio e tempo potrebbero appartenere all’universo delle categorie o essere percezioni e non costanti universali. Platone definisce il tempo “immagine mobile dell’eternità”, sottolineando il suo valore percettivo ed illusorio (immagine) nonché atemporale (eternità). Nei confronti di tale definizione, appare rozza quella aristotelica: lo Stagirita, infatti, che concepisce il tempo come “il numero del movimento secondo il prima ed il poi”, accozza ad una visione empirica elementare e “soggettiva” (il prima ed il poi), una nozione quantitativa ed “oggettiva” (il numero).
Idee, cose, spazio, tempo: un tutto inesplicabile che è niente.
Eppure, come avviene spesso, il common sense e la “scienza” provinciale, i cui araldi appartengono allo squallido C.I.C.A.P., dimostrano ancora una volta di bandire una visione acritica ed asfittica del mondo. Gli aderenti al gretto comitato osano affermare di non essere gli epigoni del Positivismo ottocentesco! Hanno ragione: sono molto più indietro. Abbarbicati alla logica aristotelica o, peggio, ad una sua parodia, reagiscono piccati, non appena sono capovolti o contestati i loro schemi post-peripatetici. Eppure è probabilmente più vicino ad una possibile verità Platone, rispetto ad Aristotele: il primo, postulando l’esistenza delle idee, si riferisce ad un archetipo di cui le cose “concrete” sono un riflesso.
Certo, è difficile immaginare che ciascun ente empirico trovi la sua ragion d’essere in un modello a priori, come se una Mente elaborasse dei concetti tradotti poi in cose. I problemi sono numerosi e complessi. Nessun rasoio di Ockam può essere utile. Esiste un archetipo di ciascun genere o di ogni cosa o, come ritiene l’ultimo Platone, solo delle “verità” matematiche e dei valori estetici ed etici? Quando un ente singolo o una categoria (ad esempio, la specie del Diplodoco) si estingue, resta il suo stampo, pronto per essere all’occorrenza riusato? Se la risposta fosse affermativa, si potrebbe pensare che la morte del singolo e l’estinzione di una specie non siano definitivi. Essi sopravvivono come forme e pre-esistono come tali, in un archivio in cui sono custoditi innumerevoli prototipi.
Qui il discorso si potrebbe estendere ai simboli, da non considerare solo significati culturalmente determinati, quanto matrici metafisiche. L’uomo penserebbe per simboli, perché da essi pensato. Anche le immagini oniriche, come opina Jung, sarebbero contenuti universali ed a-storici. Ciò potrebbe render conto delle strutture preformanti la lingua che è un sistema simbolico, le cui configurazioni potrebbero essere innate (si pensi al generativismo) e della codificazione che sembra soggiacere al mondo naturale.
Altre questioni si pongono: il numero enorme di specie animali e vegetali implica un altrettanto enorme numero di idee, con l’impressione di ridondanza: il mondo come eccesso di essere e di esseri. Le idee sono collocabili tutte nello stesso dominio o alcune (le idee e le rispettive estrinsecazioni sensibili che paiono aberranti, ad esempio, quella di un parassita micidiale e di abominii, come Paolo Attivissimo) hanno un’altra matrice? Le idee aberranti sono transitorie?
E’ nella biologia, di là dalla stessa querelle tra fissismo ed evoluzionismo, che il tema della specie-archetipo si palesa in tutta la sua enormità: ciascuna specie denota, oltre i tratti dell’individualità, un carattere generale, un disegno intrinseco ed immutabile, che sembra il risultato di un pro-getto.
Il discorso mi induce ad accennare al dominio degli intelligibili che è designato, nella tradizione orientale, akasha. Akasha, la base e l’essenza delle cose nel mondo immanente, è tradotto con “spazio” o con “etere”: in questa sorta di data-base universale, sono contenuti non solo gli esemplari delle cose, ma pure le memorie di azioni, pensieri, emozioni…
Dove si situano poi lo spazio ed il tempo in cui si collocano gli oggetti e gli eventi, sottoinsiemi di un insieme? Anche spazio e tempo potrebbero appartenere all’universo delle categorie o essere percezioni e non costanti universali. Platone definisce il tempo “immagine mobile dell’eternità”, sottolineando il suo valore percettivo ed illusorio (immagine) nonché atemporale (eternità). Nei confronti di tale definizione, appare rozza quella aristotelica: lo Stagirita, infatti, che concepisce il tempo come “il numero del movimento secondo il prima ed il poi”, accozza ad una visione empirica elementare e “soggettiva” (il prima ed il poi), una nozione quantitativa ed “oggettiva” (il numero).
Idee, cose, spazio, tempo: un tutto inesplicabile che è niente.
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