Nel paese dei sogni
E’ nella cultura popolare che sopravvive oggi una fede ingenua nell’alterità e nel significato. Si pensi a quelle persone, di solito donne anziane, che ricordano perfettamente i sogni: di fronte ad un uditorio formato per lo più da increduli, non solo li raccontano, ma li interpretano, con un’istintiva conoscenza degli archetipi degna di un antropologo. Non di rado i sogni sono profetici e riguardano i defunti da cui si ricevono comunicazioni destinate ai “vivi”. I cosiddetti scettici obiettano che sono coincidenze: alcuni eventi sognati si sono adempiuti, ma molti altri no. Altri astanti, però, sono incuriositi ed inclini a ritenere che queste donne abbiano qualche dote: le ascoltano attenti, come si ascolta un oracolo.
E’ una realtà paesana di credenze e di corrispondenze, in cui la morte è addomesticata, esorcizzata ed il caso costretto a seguire un percorso, dove la magia coesiste con un cattolicesimo popolato di santi, madonne ed angeli custodi. In questo mondo agricolo-pastorale, ormai quasi del tutto scomparso, non si avverte alcuna incongruenza tra riti paganeggianti ed i dogmi della religione, poiché le contraddizioni non vi trovano cittadinanza. Così gli eventi obbediscono ad una ratio. Non ci si accorge che gli avvenimenti non paiono ottemperare ad una logica, almeno non alla logica rassicurante cui vorremmo si attenessero. Ivi il male stesso è inscritto in un disegno che, se non lo giustifica, lo spiega ora come colpa ancestrale ora come malocchio o influsso demoniaco.
Di questa fede vernacolare nel senso è rimasta traccia anche nella nostra società secolarizzata, sotto forma di superstizione o di bisogno disperato di una risposta. Così, quando muore un adolescente, i suoi coetanei, la cui esistenza conosce per lo più l’effimero divertimento, scoprono improvvisamente la sfera spirituale: il ragazzo o la ragazza, la cui vita si è spezzata, è salito in cielo, come angelo, vegliando da lassù sui suoi amici e compagni di scuola. Il luogo del decesso diventa un piccolo sacrario con fotografie, souvenirs, fiori che presto appassiranno… E’ ovvio che è una religiosità estemporanea e consumistica, destinata a perdersi quasi sempre nel turbinio delle “cotte” e delle trasgressive serate in discoteca.
Qualcuno, fortunatamente, è sfiorato da domande abissali: perché si vive? Perché si soffre? Perché si muore? E’ qui che le risposte rischiano di essere più dannose degli strazianti interrogativi. Arriva subito il sacerdote che ciancia di peccato, di redenzione, di libero arbitrio, di mistero della fede o, al contrario, il razionalista che liquida ogni problema, chiamando in causa la natura che è così perché è così.
Si resta annichiliti: crolla il mondo e, come insegna Nietzsche, Dio muore. Ricordo che, qualche anno addietro, alcuni studenti all’esame di stato, illustrando il pensiero del filosofo tedesco, citavano “la morte di Dio”. Si affrettavano, però, come per timore di essere considerati sacrileghi, a precisare che la morte di Dio è l’eclissi dei valori tradizionali, quasi non fosse soprattutto la constatazione che l’universo è irrazionale. L’ateismo è ancora un tabù fra la last-lost generation.
In genere si vive (si vive?), ignorando le questioni capitali, salvo occuparsene, quando un macigno ci cade sulla zucca o ci sbarra la strada. Qualcuno allora si rifugia nella consolazione del dogmatismo: si prende un testo sacro (la Torah, la Bibbia, il Corano… ) e se ne cavano tutte le risoluzioni, persino le previsioni del tempo, come ironizzava tempo fa Samuele Bersani in una canzone.
Superstiti superstizioni
Nel mondo occidentale la fede “cristiana” offre tutti gli appigli: Dio crea il cosmo, le piante, gli animali, infine Adamo ed Eva, che sono il vertice della creazione, perché “fatti ad immagine e somiglianza” dell’Altissimo. E’ tutto idilliaco, quando arriva il serpente a rovinare tutto etc. etc. Per fortuna poi Dio s’incarna in Cristo, redime l’umanità, sconfigge il peccato, anche se per il vero happy end bisogna attendere il Giudizio universale, quando finalmente, dopo tutta questa faticaccia, si andrà a dormire: “All'urtimo uscirà 'na sonajera d'angioli e, come si ss'annassi a letto, smorzeranno li lumi e bona sera”.(Giuseppe Gioacchino Belli, Er giorno der giudizzio)
Ecco, Belli, pescando con arguzia nell'immaginario popolare, evidenzia un tratto tipico delle religioni escatologiche (in ciò simili a molte ideologie, come il marxismo), vale a dire il prospettivismo, la promessa di un tempo in cui trionferanno la verità, la giustizia e la gioia. Gli uomini sono malati: la loro malattia si chiama “sindrome del futuro”. Essi immaginano e pregustano un avvenire radioso che pare non arrivare mai, contemplano incantati un orizzonte seducente, ma inattingibile.
Ammettiamo pure che davvero ci aspetti un avvenire così luminoso: è qui in questo presente eterno ed eternato nell’assurdo che è necessario essere felici. I profeti (anche il Messia) rispondono: “presto” che, nel loro linguaggio nebuloso, significa “mai”. “Se non ora, quando?”
Ecco la fede, più che azzardo, scommessa (Pascal), è follia. E’ folle quel “credo quia absurdum” del fanatico e misogino Tertulliano, poiché, se è opportuno aprirsi con la mente ed il cuore all’inimmaginabile, al fantastico, è un delitto ripudiare l’intelletto, la capacità di discernimento. Sia chiaro: non si intende ridurre l’intera realtà ad un meccanismo che si muove solo per muovere sé stesso. Oltre i fenomeni, si slargano territori che neppure possiamo concepire, ma nego che le facili teodicee, le spiegazioni confortanti siano d’aiuto e che siano plausibili. Sono simili, infatti, a quei vissuti onirici che interpretati in modo semplice, di una semplicità infantile, perdono la loro aura, il loro afflato. Meglio il silenzio di tante parole vuote. Meglio restare nel guado che approdare al lido delle conclusioni rassicuranti ma false. Siamo simboli, ossia esseri dimezzati ed anche delle verità possediamo solo una parte: dobbiamo trovare l’altra che si incastri. La troveremo mai? Forse è più importante cercarla.
Non credo quia absurdum
Sempre a proposito di assurdo, che cosa è più illogico del Male? Per tentare di spiegarlo, si ricorre spesso alle teorie più assurde. Si dimentica inoltre che il mysterium iniquitatis, oltre ad essere sciaguratamente irragionevole e straripante, è anche stupido. Il Male è idiozia allo stato puro, spesso perpetrato da idioti: uno tortura un prigioniero, un altro viviseziona una cavia, uno incendia un bosco, un altro massacra un bambino, uno orina su un carcerato, un altro condanna un innocente… Attenzione! Questa non è letteratura macabra: questo e molto altro sta accadendo adesso, mentre leggete codeste righe. Da un punto di vista meramente quantitativo, nella storia, il bene è in netto svantaggio.
Di solito si giustifica Dio, asserendo che comunque le sofferenze umane (di quelle che patiscono animali e piante il Dio biblico non si interessa) sono limitate nella durata nonché eque punizioni dei suoi peccati (le torture infernali, invece, sono interminabili, ma questo è un altro discorso): il Creatore forse, abitando fuori dallo spazio-tempo, non ha una percezione netta di quanto siano incommensurabili gli istanti irrigiditi nel dolore. Quale sia la vera origine del peccato originale non si sa.
Molti lo definiscono Padre: egli tempra la sua discendenza mediante le avversità, ma forse est modus in rebus. Un esempio: un genitore è con il figlio il piccolo in un parco, dove stanno passeggiando. All’improvviso un cane, divincolandosi dal guinzaglio del padrone, si avventa contro il bimbo e lo azzanna alla nuca. Come si comporta il padre? Resta indifferente, perché pensa A: se mio figlio soffre, è uno strazio temporaneo; B: se il pargolo muore dissanguato o per qualche infezione, è lo stesso, giacché vita e morte sono illusioni. Tutto è maya: la materia non esiste e ciò che non esiste non può patire. Con questa parabola che alcuni reputeranno blasfema, vorrei alludere a come mi pare, pur dalla mia angolazione limitatissima, si comporti a volte Dio.
Ricordo una scena di una pellicola ispirata ad una vicenda realmente accaduta. Alcuni naufraghi, uomini e donne, annaspano in mare aperto ormai da molte ore e non hanno né la possibilità di risalire sul natante né molte speranze che qualcuno li avvisti per soccorrerli. Una donna comincia a pregare Dio affinché li aiuti; un’altra la ammonisce, tuonando che solo ora ella implora il Signore, adesso che è in una situazione senza via d’uscita. La fulmina infine rammentandole che ogni giorno in tutto il pianeta milioni di persone si trovano in condizioni disperate, senza che Dio si degni di intervenire. E’ vero che esistono dei casi in cui sembra che un’azione soprannaturale sia stata decisiva per salvare delle vite, ma non sono la norma. E’ evidente che la vera fede, sempre che abbia un senso riferirsi alla fede, va fondata su basi più solide e non su accorate (ed inascoltate) invocazioni.
Pregare è dunque umano, peculiare degli uomini che sono attanagliati dallo sconforto. Se Dio è imperfetto, le sue creature lo sono ancora di più. Forse è questa la “somiglianza” biblica.
E’ nella cultura popolare che sopravvive oggi una fede ingenua nell’alterità e nel significato. Si pensi a quelle persone, di solito donne anziane, che ricordano perfettamente i sogni: di fronte ad un uditorio formato per lo più da increduli, non solo li raccontano, ma li interpretano, con un’istintiva conoscenza degli archetipi degna di un antropologo. Non di rado i sogni sono profetici e riguardano i defunti da cui si ricevono comunicazioni destinate ai “vivi”. I cosiddetti scettici obiettano che sono coincidenze: alcuni eventi sognati si sono adempiuti, ma molti altri no. Altri astanti, però, sono incuriositi ed inclini a ritenere che queste donne abbiano qualche dote: le ascoltano attenti, come si ascolta un oracolo.
E’ una realtà paesana di credenze e di corrispondenze, in cui la morte è addomesticata, esorcizzata ed il caso costretto a seguire un percorso, dove la magia coesiste con un cattolicesimo popolato di santi, madonne ed angeli custodi. In questo mondo agricolo-pastorale, ormai quasi del tutto scomparso, non si avverte alcuna incongruenza tra riti paganeggianti ed i dogmi della religione, poiché le contraddizioni non vi trovano cittadinanza. Così gli eventi obbediscono ad una ratio. Non ci si accorge che gli avvenimenti non paiono ottemperare ad una logica, almeno non alla logica rassicurante cui vorremmo si attenessero. Ivi il male stesso è inscritto in un disegno che, se non lo giustifica, lo spiega ora come colpa ancestrale ora come malocchio o influsso demoniaco.
Di questa fede vernacolare nel senso è rimasta traccia anche nella nostra società secolarizzata, sotto forma di superstizione o di bisogno disperato di una risposta. Così, quando muore un adolescente, i suoi coetanei, la cui esistenza conosce per lo più l’effimero divertimento, scoprono improvvisamente la sfera spirituale: il ragazzo o la ragazza, la cui vita si è spezzata, è salito in cielo, come angelo, vegliando da lassù sui suoi amici e compagni di scuola. Il luogo del decesso diventa un piccolo sacrario con fotografie, souvenirs, fiori che presto appassiranno… E’ ovvio che è una religiosità estemporanea e consumistica, destinata a perdersi quasi sempre nel turbinio delle “cotte” e delle trasgressive serate in discoteca.
Qualcuno, fortunatamente, è sfiorato da domande abissali: perché si vive? Perché si soffre? Perché si muore? E’ qui che le risposte rischiano di essere più dannose degli strazianti interrogativi. Arriva subito il sacerdote che ciancia di peccato, di redenzione, di libero arbitrio, di mistero della fede o, al contrario, il razionalista che liquida ogni problema, chiamando in causa la natura che è così perché è così.
Si resta annichiliti: crolla il mondo e, come insegna Nietzsche, Dio muore. Ricordo che, qualche anno addietro, alcuni studenti all’esame di stato, illustrando il pensiero del filosofo tedesco, citavano “la morte di Dio”. Si affrettavano, però, come per timore di essere considerati sacrileghi, a precisare che la morte di Dio è l’eclissi dei valori tradizionali, quasi non fosse soprattutto la constatazione che l’universo è irrazionale. L’ateismo è ancora un tabù fra la last-lost generation.
In genere si vive (si vive?), ignorando le questioni capitali, salvo occuparsene, quando un macigno ci cade sulla zucca o ci sbarra la strada. Qualcuno allora si rifugia nella consolazione del dogmatismo: si prende un testo sacro (la Torah, la Bibbia, il Corano… ) e se ne cavano tutte le risoluzioni, persino le previsioni del tempo, come ironizzava tempo fa Samuele Bersani in una canzone.
Superstiti superstizioni
Nel mondo occidentale la fede “cristiana” offre tutti gli appigli: Dio crea il cosmo, le piante, gli animali, infine Adamo ed Eva, che sono il vertice della creazione, perché “fatti ad immagine e somiglianza” dell’Altissimo. E’ tutto idilliaco, quando arriva il serpente a rovinare tutto etc. etc. Per fortuna poi Dio s’incarna in Cristo, redime l’umanità, sconfigge il peccato, anche se per il vero happy end bisogna attendere il Giudizio universale, quando finalmente, dopo tutta questa faticaccia, si andrà a dormire: “All'urtimo uscirà 'na sonajera d'angioli e, come si ss'annassi a letto, smorzeranno li lumi e bona sera”.(Giuseppe Gioacchino Belli, Er giorno der giudizzio)
Ecco, Belli, pescando con arguzia nell'immaginario popolare, evidenzia un tratto tipico delle religioni escatologiche (in ciò simili a molte ideologie, come il marxismo), vale a dire il prospettivismo, la promessa di un tempo in cui trionferanno la verità, la giustizia e la gioia. Gli uomini sono malati: la loro malattia si chiama “sindrome del futuro”. Essi immaginano e pregustano un avvenire radioso che pare non arrivare mai, contemplano incantati un orizzonte seducente, ma inattingibile.
Ammettiamo pure che davvero ci aspetti un avvenire così luminoso: è qui in questo presente eterno ed eternato nell’assurdo che è necessario essere felici. I profeti (anche il Messia) rispondono: “presto” che, nel loro linguaggio nebuloso, significa “mai”. “Se non ora, quando?”
Ecco la fede, più che azzardo, scommessa (Pascal), è follia. E’ folle quel “credo quia absurdum” del fanatico e misogino Tertulliano, poiché, se è opportuno aprirsi con la mente ed il cuore all’inimmaginabile, al fantastico, è un delitto ripudiare l’intelletto, la capacità di discernimento. Sia chiaro: non si intende ridurre l’intera realtà ad un meccanismo che si muove solo per muovere sé stesso. Oltre i fenomeni, si slargano territori che neppure possiamo concepire, ma nego che le facili teodicee, le spiegazioni confortanti siano d’aiuto e che siano plausibili. Sono simili, infatti, a quei vissuti onirici che interpretati in modo semplice, di una semplicità infantile, perdono la loro aura, il loro afflato. Meglio il silenzio di tante parole vuote. Meglio restare nel guado che approdare al lido delle conclusioni rassicuranti ma false. Siamo simboli, ossia esseri dimezzati ed anche delle verità possediamo solo una parte: dobbiamo trovare l’altra che si incastri. La troveremo mai? Forse è più importante cercarla.
Non credo quia absurdum
Sempre a proposito di assurdo, che cosa è più illogico del Male? Per tentare di spiegarlo, si ricorre spesso alle teorie più assurde. Si dimentica inoltre che il mysterium iniquitatis, oltre ad essere sciaguratamente irragionevole e straripante, è anche stupido. Il Male è idiozia allo stato puro, spesso perpetrato da idioti: uno tortura un prigioniero, un altro viviseziona una cavia, uno incendia un bosco, un altro massacra un bambino, uno orina su un carcerato, un altro condanna un innocente… Attenzione! Questa non è letteratura macabra: questo e molto altro sta accadendo adesso, mentre leggete codeste righe. Da un punto di vista meramente quantitativo, nella storia, il bene è in netto svantaggio.
Di solito si giustifica Dio, asserendo che comunque le sofferenze umane (di quelle che patiscono animali e piante il Dio biblico non si interessa) sono limitate nella durata nonché eque punizioni dei suoi peccati (le torture infernali, invece, sono interminabili, ma questo è un altro discorso): il Creatore forse, abitando fuori dallo spazio-tempo, non ha una percezione netta di quanto siano incommensurabili gli istanti irrigiditi nel dolore. Quale sia la vera origine del peccato originale non si sa.
Molti lo definiscono Padre: egli tempra la sua discendenza mediante le avversità, ma forse est modus in rebus. Un esempio: un genitore è con il figlio il piccolo in un parco, dove stanno passeggiando. All’improvviso un cane, divincolandosi dal guinzaglio del padrone, si avventa contro il bimbo e lo azzanna alla nuca. Come si comporta il padre? Resta indifferente, perché pensa A: se mio figlio soffre, è uno strazio temporaneo; B: se il pargolo muore dissanguato o per qualche infezione, è lo stesso, giacché vita e morte sono illusioni. Tutto è maya: la materia non esiste e ciò che non esiste non può patire. Con questa parabola che alcuni reputeranno blasfema, vorrei alludere a come mi pare, pur dalla mia angolazione limitatissima, si comporti a volte Dio.
Ricordo una scena di una pellicola ispirata ad una vicenda realmente accaduta. Alcuni naufraghi, uomini e donne, annaspano in mare aperto ormai da molte ore e non hanno né la possibilità di risalire sul natante né molte speranze che qualcuno li avvisti per soccorrerli. Una donna comincia a pregare Dio affinché li aiuti; un’altra la ammonisce, tuonando che solo ora ella implora il Signore, adesso che è in una situazione senza via d’uscita. La fulmina infine rammentandole che ogni giorno in tutto il pianeta milioni di persone si trovano in condizioni disperate, senza che Dio si degni di intervenire. E’ vero che esistono dei casi in cui sembra che un’azione soprannaturale sia stata decisiva per salvare delle vite, ma non sono la norma. E’ evidente che la vera fede, sempre che abbia un senso riferirsi alla fede, va fondata su basi più solide e non su accorate (ed inascoltate) invocazioni.
Pregare è dunque umano, peculiare degli uomini che sono attanagliati dallo sconforto. Se Dio è imperfetto, le sue creature lo sono ancora di più. Forse è questa la “somiglianza” biblica.
La questione secondo me, non andrebbe spiegata alla luce degli orrori che troviamo su questa terra, quanto piuttosto di fronte alla suprema paura che l' uomo prova di fronte alla morte.
RispondiEliminaPerché è evidente che se l' uomo rimane negativamente sbigottito di fronte alla cruda materia, egli lo fa in funzione della paura del dopo, non certo per esorcizzare il dolore fisico o emotivo. Andrebbe fatta a questo punto, una distinzione fondamentale, poichè facile è inveire contro la dottrina biblica che risulta sprovvista di logica e coerenza, ben altra cosa è regalare al principio del male un posto d' onore nell' universo sol perché non sopportiamo la nozione della tortura, o non troviamo spiegazione alle morti "ingiuste" (ingiuste poi, da quale prospettiva?).
Cosa rimarrebbe dell' angoscia, se un giorno quest' uomo stanco ed impaurito si trovasse di fronte alla sconcertante realtà della sua eternità? E se dunque ammettiamo questa struttura spirituale (mondiamo una volta per tutte questo concetto da ogni retaggio occulto-misterico-religioso) che penetra nella materia per assorbirne i principi, per esplorarla in tutte le sue sfaccettature come altro da sè, e se veramente abbiamo il coraggio di pensare a questa struttura intelligente come ad un entità che non viene sulla terra per cambiare un bel niente ma per acquisire (o ricordare) delle conoscenze che vanno oltre le nostre paure da omuncoli, ecco, se ammettiamo tutto questo, dove è situato, in cosa consiste questo male? Può forse essere considerata ingiusta la morte di un bambino a soli sei mesi, ammettendo che la sua struttura fondamentale abbia deliberatamente deciso di fare l' esperienza sensoriale della nascita e della morte in breve tempo? Ed il dolore della madre è ingiusto quando questo dolore l' abbia portata ad un percorso di ricerca verso l' ignoto, oltre le lacrime di una visione limitata?
La questione è che non riusciamo ad ammettere che abbiamo paura di non avere il controllo della nostra vita, perché scorgiamo degli eventi che sfuggono alla nostra logica primitiva e terrorizzata.
JC, quanto scrivi si riallaccia all'articolo "La morte di Ivan Ilic". Il protagonista, alla fine di una lunga agonia, trova la luce e la beatitudine. La morte si rivela la vera vita. E' indubbio che gli uomini non hanno timore della morte, ma terrore: è il terrore di fronte all'ignoto, al buio ed al nulla, ma già Platone ci insegna che il nulla non è da temere o che la fine sarà il preludio di una condizione migliore rispetto a quella terrena. Tuttavia la paura della morte talvolta scema: avviene, ad esempio, nei reparti dei malati terminali dove i pazienti paventano assai più il dolore fisico e psicologico che la fine, anzi spesso agognata.
RispondiEliminaIl bambino che ha deciso (?) di morire prematuramente forse si è accorto che stava meglio dov'era prima.
Si potrebbe pensare che lo Spirito decida di scendere nella materia per maturare esperienze, ma che bisogno ha lo Spirito che è perfetto di esperienze?
Come vedi, la teodicea da te delineata, pur condivisibile sotto molti aspetti, (la sofferenza come apertura verso il mistero, il senso ed anche la creatività), cozza con le aporie che si manifestano quando si vuole tentare di spiegare il male e negare il male è un bel modo per aggirare l'ostacolo.
Per quanto mi riguarda, sarei propenso a sposare un'interpretazione gnostica o, meglio, quella di Anassimandro, su cui non mi dilungo, poiché ne ho già scritto.
Ciao
Il punto è che non riusciamo ad immaginarci altro che come uomini e come tali ragioniamo. Non si tratta di stare meglio o cercare la beatitudine, si tratta di percorrere l' universale già presente in potenza nello spirito (come tu hai accennato). Potrebbe essere che lo spirito è perfetto potenzialmente, ovvero contiene in sè l' idea, e la materia rappresenta l' esplicazione, l' esperienza diretta, senza la quale lo spirito stesso non si potrebbe ritenere conoscitore.
RispondiEliminaPoi vedi, non è il bambino che "ha deciso" perché non saremmo nè uomini nè bambini, ma qualcosa d' altro, di intelligente, creativo, completamente estraneo alla materia, antecedente ad essa.
Il fatto è che allontanandosi dai riferimenti umani si rischia di scendere nel bizzarro.
Purtroppo si rimane sempre nell' ignoto, ma a mio modesto parere non si nega il male per aggirare l' ostacolo, proprio perché non esiste ostacolo, ma solo l' infinito, percorso in ogni modo e da ogni prospettiva..
Comunque sia, oltre i sofismi, dovremmo rimanere incantati dal mondo, fosse anche solo per il miracolo della nostra esistenza che diamo per scontata, annegandola nella nostra incoscienza.
JC, è vero: si parte sempre da un'angolazione umana e mi pare sia inevitabile. Anzi ho considerato la questione dal punto di vista dell'esistenza e non dell'essere, poiché l'esistenza è coagulata nel vivere qui ed ora, nel Da-sein, direbbe Heidegger.
RispondiEliminaScrivi: "Si tratta di percorrere l' universale già presente in potenza nello spirito (come tu hai accennato). Potrebbe essere che lo spirito è perfetto potenzialmente, ovvero contiene in sè l' idea, e la materia rappresenta l' esplicazione, l' esperienza diretta, senza la quale lo spirito stesso non si potrebbe ritenere conoscitore".
Questa è, grosso modo, l'interpretazione idealista da Fichte a Croce, fino all'attualismo di Gentile. Escludo Schelling che, pur essendo annoverato tra gli idealisti, fu pensatore più vigoroso, originale e sagace.
L'idealismo è un sistema con alcuni pregi e limiti (ne ho scritto nell'articolo "L'idealismo ieri ed oggi", quindi qui non ripeto le varie considerazioni): credo che le sue incongruenze siano più numerose delle cose apprezzabili, anche se l'idealismo di Berkeley ha il suo fascino.
Si pongono poi il problema del libero arbitrio e quello dell'etica. Se la materia non esiste, tutto è lecito.
Se tutto è perfetto, come scrivono alcuni new agers, epigoni di Leibniz, allora il male non esiste e la morale non ha senso. Potrebbe anche essere.
Lo stupore che è, in primo luogo, filosofico, si manifesta di fronte al Tutto che esiste: perché l'essere, invece del nulla? Nessuno ha la risposta.
Ciao
Sto pensando ora che tutta la Confusione dell'Uomo, viene da un fatto molto semplice:
RispondiEliminaChe non riesce...Non riesce e basta.
Come un uomo che ha di fronte a se un muro, e sa che di la c'è qualcosa, e prova a scavalcarlo, ma...Non riesce non riesce e non riesce - e perché non riesce?
e così si inventa tutta la struttura, tutti i motivi per cui non potrebbe, dovrebbe, potrebbe, non dovrebbe riuscire.
"è che e troppo alto: io tocco 2,10 e li è 2,50." - "è che non ci sono appigli." - "è che di la c'è...c'è...senz'altro qualcosa che val la pena vedere."
Però, il muro, lì, quello c'è, lo si sente, è si sente anche che è giusto un pelo troppo... E, il dramma sta tutto qui, naturalmente: che è giusto un pelo fuori portata.
E allora, per apatia, ci si adagia, in qualche modo. Che muro che c'è? non c'è.
Apatia non colpevole, per carità! Non si dovrebbe, in giustizia, accusare chi è molto stanco di aver dormito.
Forse che il senso di tutta la vita è in bella vista qui!? Che se fosse ovvio sarebbe inutile!
Forse che la vita è effettivamente uno specchio nostro, che si calibra meravigliosamente sulla nostra aspettativa, ponendoci sempre di fronte le nostre difficoltà peggiori.
(Non per sadismo: per carità! ;-) )
Riguardo ai cattolici poi: perdonatemi, ma io non li sopporto più! Sto tornando ad essere anticlericale come quando ero bambino.
L'ultima volta che sono entrato in chiesa ho potuto provarmi come non possa uscire una sola parola dalla bocca del prete che io non trovi odiosa.
Non riesco a capire come fanno a far coesistere così tante inconsistenze. Non so se il cattolico pensa realmente quello che dice, o se ha un pensiero prestabilito,
o se forse gli riesce di non ascoltarsi completamente, o di sorvolare su ciò che è inimmaginabile, cioè su tutto. Probabilmente ha quei tre pilastri che chiama "mistero della fede" che si sommano a quattro sentimenti notevoli e due pregevoli, e fa sette capisaldi inconfutabili. boh!
Nessuna religione ha mai avuto più divinità. Ma no: gli Angeli sono angeli, i Santi santi, e gli spiriti spiriti o anime se esistono chissà?
Un cattolico non può neanche ammettere serenamente di pregare la Madonna perché scadrebbe nel politeismo, e non va bene.
Va bene, spero di non aver offeso nessuno. Ora avete la mia sproloquiata sgrammaticata...Pace
Animo, direi che è proprio questa la condizione umana un po' come è evocata da Montale in "Meriggiare pallido e assorto" dove la vita umana è descritta non come uno stato infernale, ma come Infermo, un Inferno destituito di senso.
RispondiElimina"Forse che la vita è effettivamente uno specchio nostro, che si calibra meravigliosamente sulla nostra aspettativa, ponendoci sempre di fronte le nostre difficoltà peggiori".
Questa riflessione è molto significativa.
Concordo sui cattolici, la cui fede è proprio l'antitesi della spiritualità.
Ciao
Caro Zret,
RispondiEliminala verità è sperimentale, altrimenti è fideismo. Te lo dico per provata esperienza, appunto. So che esistono più livelli di realtà, piani dimensioni vibrazioni... nomenclature di coscienza. Le religioni avranno fatto il loro tempo, sì, effettivamente hanno più o meno il fiato corto. Gli irriducibili frequentano i sacramenti, seguono precetti e dettami ecclesiastici, come-perché-fino a quando? Non lo so, è impresa ardua assai entrare nelle menti della gente. Non è più obbligatorio appartenere a questa o quella chiesa, rimane un problema di fondo: è possibile trovare il senso di tutto sganciati da strutture religiose? È possibile incontrare Dio senza stampelle confessionali? Per quanto mi riguarda, sì, ma non è una regola né lo consiglio. Ho camminato sul limitare del baratro, come tanti, e poi chi ti incontro? Gli dèi sembrano tutti fantasmi fino a quando non ne fai esperienza. Un tempo lontano camminavano a fianco di Essi, ora dobbiamo rincorrerli. Ma non vi sono alternative: cercare un senso a tutto, è decisivo.
"Cercare un senso a tutto, è decisivo". Sottoscrivo. Purtroppo abbiamo delle tessere che, quando vengono inserite nel mosaico, lo scombussolano, invece di comporlo.
RispondiEliminaTramontate le religioni positive e la scienza retrograda, cerchiamo altre vie.
Ciao