02 marzo, 2013

Il libro di Mirdad

Il libro di Mirdad, il segreto della conoscenza e della saggezza”, è un’opera del libanese Mikhail Naimy, sodale ed accolito del compatriota Kahil Gibran. E’ scritto in larga parte sotto forma di dialogo. Narra la storia di un misterioso straniero, Mirdad. Egli si reca in visita nel remoto monastero che sorge sulla montagna dell’Arca. Lì assume il ruolo di maestro e di guida spirituale per i nove allievi che si è scelto.

“Il libro di Mirdad”, vergato in inglese e poi tradotto in arabo, è romanzo sui generis in cui non accade quasi nulla, se si escludono i primi magri capitoli. L’esile filo narrativo è imperlato di parabole, di profondi insegnamenti, di aforismi adamantini. Alcune pagine sono molto belle ed ispirate, pervase dalla ieraticità di un Vangelo apocrifo.

“Solo l’ignoranza ama essere ornata di parrucche e di toghe sì da poter emanare leggi ed infliggere condanne”.

“La fede che nasce su un’onda di paura non è altro che la schiuma della paura: essa s’alza e s’abbassa con la paura. La vera Fede non sboccia che sullo stelo dell’Amore. Il suo frutto è il Discernimento”.

“Le parole sono nel migliore dei casi lampi che rivelano orizzonti; esse non sono strade che conducono a quegli orizzonti e, ancor meno, esse gli orizzonti.”

“Più che un inferno è l’avere ali di luce e piedi di piombo; l’essere sostenuti dalla speranza ed il venire sommersi dalla disperazione; l’essere spiegati dall’indomita fede ed il venire ripiegati dal pavido dubbio”.

I concetti si addensano in immagini di mirabile purezza, in esempi torniti, in limpide descrizioni del paesaggio. “Il libro di Mirdad” è un’esortazione a superare il dualismo, ad attingere la natura divina che è in noi, sepolta sotto uno spesso strato di sedimenti, la cui luce è offuscata dall’eclissi cieca e nera dell’esistenza.

Pieno di pàthos è il capitolo intitolato “La grande nostalgia”, ove lo struggente rimpianto della Beatitudine ancestrale trova accenti elegiaci.

Le parole di Naimy sono un balsamo per gli infermi. Sono rugiada sulla fronte del febbricitante. Che cos’è la vita, se non una febbre, una sete inestinguibile di Infinito, tosto risorgente, non appena è un po’ placata? L’autore, attraverso la seducente tessitura fonica, elargisce attimi intensi, visioni mistiche. Lascia persino baluginare l’ineffabile mistero dell’Assoluto, oltre l’Inferno, oltre lo stesso Paradiso. Così tutte le aspirazioni umane e persino gli ideali più alti, al cospetto dell’Unità primigenia, inscalfibile, si riducono a squallide carcasse, a relitti rosi dalla salsedine.

Non sorprende che un dipinto dai colori smaglianti come “Il Libro di Mirdad”, sia piaciuto per la sua spiritualità ad Osho, ma deluderà i palati grossolani avvezzi a storie avventurose, ad intrecci costellati di colpi di scena. Lontano dai gusti triviali dei nostri tempi, eppure in parte non discosto da talune recenti espressioni della New age, il titolo si sgualcisce qua è là in qualche increspatura consolatoria. In quei brani dove il profeta Mirdad prova a suggerire l’origine del male, si avverte alcunché di arido, di gratuito. Qui l’autore ricuce con mano ferma e sapiente le dolorose ferite del cosmo e dell’essere, ma le cicatrici sono ancora visibili.

Il romanzo si conclude con un inno, scandito da una ripresa: “Dio è il tuo capitano, salpa, o mia Arca!”. Beato chi conosce la rotta…

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