“Utilizzare”: questo è il verbo che imperversa oggigiorno. Orrido gallicismo, rivela l’atteggiamento utilitaristico della nostra società. “Utilizzare”, vocabolo che, con quella zeta geminata, è unghia che stride sul vetro, gesso che graffia l’ardesia.
E’ il verbo che anche nei testi vergati dagli ineffabili geni del Ministero dell’istruzione (sic) è riferito agli autori che “utilizzano” le figure retoriche, il registro, le immagini... Povera lingua italiana depauperata e rovinata da inutili beoti! Non manca nei documenti ufficiali quasi mai il sostantivo “effettuazione”, abominio linguistico che non deprecheremo mai abbastanza.
Si diceva del lessema “utilizzare” affibbiato agli scrittori, come se un artista adoperasse le parole, i colori, le note... E’ il contrario! Il vero artista si abbandona alla corrente dell’ispirazione: i versi, le figure, le melodie... si affollano e brulicano attorno a lui, implorandolo di dar forma loro, di farli emergere dalla nebbia dell’inespresso e dell’indistinto alla luce adamantina dell’intuizione. Ecco che allora affiora una frase, un motivo, un soggetto.
Il vero artista è veggente, perché, come Omero, è cieco, cieco alle apparenze, mentre scruta l’ignoto ed ausculta le vibrazioni del silenzio.
Nell’antichità non si distingueva tra poeta e vate, tra aedo ed oracolo: il “vates” è colui che vede. La radice indogermanica di questo termine è probabilmente la stessa del verbo latino “video” (indoeuropeo "vid-ved") Senza dubbio si connette al nome proprio del dio germanico Wotan (Odino), il nume che, rinunciando ad un occhio, acquisisce il dono della profezia, guadagna la conoscenza delle cose soprannaturali.
Lo stesso Apollo è il dio sia delle arti sia dei vaticini.
Dunque è necessario ribaltare l’interpretazione: non è l’artista che opera delle scelte, poiché egli è scelto dall’idea, invasato dal nume, beneficiario di una rivelazione che è al tempo stesso epifania ed occultamento, grazia e condanna.
Dante lo chiarisce in modo netto, inequivocabile: “I’mi son un che, quando Amor mi spira, noto e a quel modo ch’è ditta dentro vo significando”. (Pur. XXIV, 52-54). Il concetto di ispirazione (l’ispirazione è afflato divino ed incanto) e l’idea di una voce che detta allo scrittore quanto egli annota.
Si direbbe che il vero artista non è chi possiede fantasia, ma colui che si lascia guidare dal daìmon, docile ed umile, verso vette abissali.
E’ il verbo che anche nei testi vergati dagli ineffabili geni del Ministero dell’istruzione (sic) è riferito agli autori che “utilizzano” le figure retoriche, il registro, le immagini... Povera lingua italiana depauperata e rovinata da inutili beoti! Non manca nei documenti ufficiali quasi mai il sostantivo “effettuazione”, abominio linguistico che non deprecheremo mai abbastanza.
Si diceva del lessema “utilizzare” affibbiato agli scrittori, come se un artista adoperasse le parole, i colori, le note... E’ il contrario! Il vero artista si abbandona alla corrente dell’ispirazione: i versi, le figure, le melodie... si affollano e brulicano attorno a lui, implorandolo di dar forma loro, di farli emergere dalla nebbia dell’inespresso e dell’indistinto alla luce adamantina dell’intuizione. Ecco che allora affiora una frase, un motivo, un soggetto.
Il vero artista è veggente, perché, come Omero, è cieco, cieco alle apparenze, mentre scruta l’ignoto ed ausculta le vibrazioni del silenzio.
Nell’antichità non si distingueva tra poeta e vate, tra aedo ed oracolo: il “vates” è colui che vede. La radice indogermanica di questo termine è probabilmente la stessa del verbo latino “video” (indoeuropeo "vid-ved") Senza dubbio si connette al nome proprio del dio germanico Wotan (Odino), il nume che, rinunciando ad un occhio, acquisisce il dono della profezia, guadagna la conoscenza delle cose soprannaturali.
Lo stesso Apollo è il dio sia delle arti sia dei vaticini.
Dunque è necessario ribaltare l’interpretazione: non è l’artista che opera delle scelte, poiché egli è scelto dall’idea, invasato dal nume, beneficiario di una rivelazione che è al tempo stesso epifania ed occultamento, grazia e condanna.
Dante lo chiarisce in modo netto, inequivocabile: “I’mi son un che, quando Amor mi spira, noto e a quel modo ch’è ditta dentro vo significando”. (Pur. XXIV, 52-54). Il concetto di ispirazione (l’ispirazione è afflato divino ed incanto) e l’idea di una voce che detta allo scrittore quanto egli annota.
Si direbbe che il vero artista non è chi possiede fantasia, ma colui che si lascia guidare dal daìmon, docile ed umile, verso vette abissali.
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