Oggigiorno non pochi genitori pretendono tutto dai figli, fuorché ciò che è davvero importante: esigono che ottengano risultati brillanti nelle discipline agonistiche, che meritino voti alti a scuola, che “vivano” in una campana di vetro al riparo dalle sfide del mondo. Essi, tanto queruli quanto pretenziosi, vogliono persino che i divini rampolli sottomettano coetanei ed adulti non allineati onde si adattino alla loro meschina, miserabile mentalità borghese.
Come si accennava, trascurano, invece, ciò che è essenziale: ai figli bisognerebbe chiedere che imparassero a scrivere in un italiano semplice ma corretto e decoroso. Nel momento in cui, con la tenacia ed i sacrifici necessari, si apprende a scrivere, si è già compiuto un buon tratto del percorso evolutivo. Saper costruire frasi e periodi, saper elaborare testi significa essere in grado di riflettere e di ragionare; significa pure comprendere la bellezza e la profondità della lingua (delle lingue): ci si cimenta in un ambito dove bisogna dimostrare logica, discernimento (l’asse sintagmatico, la capacità di costruire gli enunciati, di progettare l’architettura del discorso), ma pure creatività (l’asse paradigmatico, ossia l’accorta selezione dei vocaboli, secondo il contesto ed il registro). Si capisce poi quanto sia rilevante il labor limae, l’instancabile lavoro di cesellatura finalizzato a rendere il più possibile il significante connesso al significato, volto ad evocare l’idea, il pensiero attraverso idonei strumenti espressivi.
Le competenze linguistiche e testuali sono di giovamento per la conoscenza di sé stessi, degli altri e della realtà. Ammesso e non concesso che la morale possa essere oggetto d’insegnamento, una buona padronanza della scrittura implica anche un’abitudine, mediante la ponderazione di circostanze, attraverso l’introspezione, per mezzo dell’attitudine ad osservare, a porsi domande che possono lasciar affiorare una filigrana etica. Le abilità in parola alimentano il desiderio di leggere e di documentarsi (dalla scrittura alla lettura), creano i presupposti più svariati per ulteriori, proficui itinerari educativi.
Diversamente, ossia se si punta solo sulle conoscenze, anzi sul nozionismo, nel migliore dei casi si producono tanti stanchi epigoni di Umberto Eco (sit ei terra levis), personaggio di sconvolgente spregiudicatezza pari solo alla sua totale ignoranza dell’idioma italiano e di molti fenomeni culturali. In concomitanza con l’ultimo “esame di Stato”, è stato scelto dal Ministero della pubblica “istruzione” un passo di un saggio scritto dal celebre autore di romanzi d’appendicite: l’excerptum, oltre a denotare – com’è ovvio - il suo inconfondibile analfabetismo, mostra la scarsa onestà di chi si arrabatta in banali argomentazioni esegetiche, inerenti al ruolo ed ai limiti dell’interpretazione, senza mai citare Gadamer, il padre dell’ermeneutica. Insomma, con Eco abbiamo il Gadamer dei poveri.
Il pericolo della negligenza nella composizione degli elaborati è quello di scivolare nelle gaffes di un Mario Giuliacci. Il “meteorologo”, in un suo recente, imbarazzante articolo sulle scie tossiche (alias biogeoingegneria clandestina), inanella una serie di mostruosi strafalcioni al cui confronto impallidiscono le già clamorose topiche del divertente zibaldone partenopeo “Io, speriamo che me la cavo”.
Assistiamo dunque ad una caduta verticale delle abilità linguistico-testuali: è un ruzzolone sul fondo di un abisso da cui si rischia di non risalire mai più.
Come si accennava, trascurano, invece, ciò che è essenziale: ai figli bisognerebbe chiedere che imparassero a scrivere in un italiano semplice ma corretto e decoroso. Nel momento in cui, con la tenacia ed i sacrifici necessari, si apprende a scrivere, si è già compiuto un buon tratto del percorso evolutivo. Saper costruire frasi e periodi, saper elaborare testi significa essere in grado di riflettere e di ragionare; significa pure comprendere la bellezza e la profondità della lingua (delle lingue): ci si cimenta in un ambito dove bisogna dimostrare logica, discernimento (l’asse sintagmatico, la capacità di costruire gli enunciati, di progettare l’architettura del discorso), ma pure creatività (l’asse paradigmatico, ossia l’accorta selezione dei vocaboli, secondo il contesto ed il registro). Si capisce poi quanto sia rilevante il labor limae, l’instancabile lavoro di cesellatura finalizzato a rendere il più possibile il significante connesso al significato, volto ad evocare l’idea, il pensiero attraverso idonei strumenti espressivi.
Le competenze linguistiche e testuali sono di giovamento per la conoscenza di sé stessi, degli altri e della realtà. Ammesso e non concesso che la morale possa essere oggetto d’insegnamento, una buona padronanza della scrittura implica anche un’abitudine, mediante la ponderazione di circostanze, attraverso l’introspezione, per mezzo dell’attitudine ad osservare, a porsi domande che possono lasciar affiorare una filigrana etica. Le abilità in parola alimentano il desiderio di leggere e di documentarsi (dalla scrittura alla lettura), creano i presupposti più svariati per ulteriori, proficui itinerari educativi.
Diversamente, ossia se si punta solo sulle conoscenze, anzi sul nozionismo, nel migliore dei casi si producono tanti stanchi epigoni di Umberto Eco (sit ei terra levis), personaggio di sconvolgente spregiudicatezza pari solo alla sua totale ignoranza dell’idioma italiano e di molti fenomeni culturali. In concomitanza con l’ultimo “esame di Stato”, è stato scelto dal Ministero della pubblica “istruzione” un passo di un saggio scritto dal celebre autore di romanzi d’appendicite: l’excerptum, oltre a denotare – com’è ovvio - il suo inconfondibile analfabetismo, mostra la scarsa onestà di chi si arrabatta in banali argomentazioni esegetiche, inerenti al ruolo ed ai limiti dell’interpretazione, senza mai citare Gadamer, il padre dell’ermeneutica. Insomma, con Eco abbiamo il Gadamer dei poveri.
Il pericolo della negligenza nella composizione degli elaborati è quello di scivolare nelle gaffes di un Mario Giuliacci. Il “meteorologo”, in un suo recente, imbarazzante articolo sulle scie tossiche (alias biogeoingegneria clandestina), inanella una serie di mostruosi strafalcioni al cui confronto impallidiscono le già clamorose topiche del divertente zibaldone partenopeo “Io, speriamo che me la cavo”.
Assistiamo dunque ad una caduta verticale delle abilità linguistico-testuali: è un ruzzolone sul fondo di un abisso da cui si rischia di non risalire mai più.
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