10 luglio, 2010

Libertà d’esser schiavo: la condizione umana in una pagina di Carlo Michelstaedter

Carlo Michelstaedter (Gorizia, 1887-1910), filosofo, poeta e pittore italiano, è noto specialmente per la sua tesi di laurea, "La persuasione e la rettorica", scritto pubblicato nel 1913, dopo il suicidio dell'autore. La figura di Michelstaedter giganteggia nel panorama della cultura contemporanea per la perspicacia del pensiero e per la lucida demistificazione del sistema. Alcune sue idee, che trovano le loro matrici soprattutto in Schopenauer ed in Leopardi, preludono all'analitica esistenziale di Heidegger e sono accostabili, per la dirompente forza disgregatrice, a fondamentali nuclei del pensiero nietzchiano. M., nel saggio succitato, conduce un serrato confronto critico tra la genuina sapienza pre-socratica e la degenerazione mondana della filosofia, a partire da Platone. L'autore vede il cozzo tra il mondo autentico della persuasione (simile alla volontà di potenza, intesa come appropriazione del destino ed eroica attribuzione di senso all'esistente) ed il complesso fittizio e coercitivo della rettorica, strutturata attraverso le istituzioni (stato, economia, etica, educazione...), sentite come mascheramento e rimozione degli impulsi egoistici dell'uomo. M. vagheggia un'umanità integra che, sotto l'urgenza del dolore, trascenda l'irretimento nella sfera egocentrica per affermare dignità e libertà.

M. spazia, con eccezionale acume, tra innumerevoli temi, mettendo a nudo le contraddizioni e le storture della modernità. Non è neppure pensabile di accennare ai contenuti della tesi: tali e tanti sono i concetti esposti sì da dichiarare l'incommensurabile grandezza di questo intellettuale. La sua grandezza poi risalta ancora di più, se pensiamo ad abili parolai come Croce e Gentile, per giunta sostenitori del potere, "liberale" o "fascista" che fosse. Sui "pensatori" di oggi è bene stendere un pietoso silenzio.

Tra le pagine del testo, strazianti nella loro feroce verità e sconvolgente attualità, segnalerei, almeno, quelle sulla scuola o le considerazioni circa l'ipocrisia del diritto. Propongo all'attenzione dei lettori che - ne sono certo - saranno invogliati a leggere l'intera opera, qualora non l'abbiano già apprezzata, un passo sulla condizione dell'uomo nella società industriale, uomo inteso come essere dimidiato ed alienato. Gli strali di un'amara ironia colpiscono le reboanti illusioni hegeliane e positiviste, disintegrano la paradossale celebrazione della "libertà d’esser schiavo". Veramente, testimoniata l'irreversibile caduta nell'inferno sociale ed ontico, il suicidio di M. è il segno non di codardia di fronte all'irrazionalità dell'essere, ma la decisione consequenziale di una coscienza lungimirante ed intemerata.


"Quest’uomo del suo tempo – colla sua προθυμία (zelo) e la sua «botte di ferro» è dunque l’individuo sognato da Hegel al sommo della chiesa gotica che gli antichi ignoravano – all’ultimo momento della libera evoluzione del sistema della libertà; – egli è l’obiettivazione della libertà che è fine a sé stessa e di sé stessa gode; – e «la persona ch’egli veste» nell’esercizio della sua carica, quella è la seconda natura – la libertà morale, medio concreto che unifica l’idea e le passioni umane – fine essenziale dell’esistenza soggettiva, unione della volontà soggettiva e della volontà razionale; questa è dunque l’idea divina, ciò che Iddio ha inteso di fare col mondo per ritrovare sé stesso. – Pure io credo che la fame, il sonno, la paura – anche se li chiamiamo «volontà razionale» – restino pur sempre fame sonno e paura e così tutte l’altre cose per le quali non so dove sia tranquilla la riva al nostro egoismo, che quanto è tale tanto non può arrivare né dove siano la libertà morale e l’idea e il fine essenziale.

«Ma» mi direbbe il mio uomo «tutto ciò a me che importa? – Io so che sono sicuro e nella coscienza dei miei diritti e dei miei doveri libero e potente». Oppure con le parole di John Stuart Mill ("Saggio sulla libertà") «non è qui questione della cosiddetta libertà del volere che così inopportunamente viene contrapposta alla dottrina erroneamente detta della necessità filosofica, ma della libertà civile o sociale». Della «libertà d’esser schiavo» dunque? E va bene.

Infatti è questo che l’uomo cerca, è così che crede giungere alla gioia – né può uscire di sé per vedere di più. – Soltanto egli paga l’ignoranza col lento oscuro e continuo tormento – ch’egli non si confessa e che altri non vede – poiché il destino è come un’equazione e non si lascia ingannare.

È l’altro lato dell’iperbole. L’uomo è vivo ancora, occupa ancora uno spazio e qualche cosa piccola egli deve ancor sempre fare così ch’egli senta infinito il postulato della sicurezza.

Come all’altro lato, l’uomo non si sentiva mai tale da poter chiedere con qualche giustizia così come giusto per sé, così qui presume sempre la sufficienza della sua qualsiasi persona; e come l’altro postulava la giustizia nella liberazione dalla volontà irrazionale, così questo cerca la sicurezza nell’adattamento ad un codice di diritti e doveri: la libertà d’esser schiavo; dove l’altro domandava la soddisfazione attuale tutta in un punto, questo cerca il modo di poter continuar con sicurezza ad aver fame in tutto il futuro. E come quella era la via delle più grandi individualità che domandano un valore e lo assomigliano nella loro volontà libera e incrollabile, questa è la via del disgregamento dell’individualità, di coloro che si preoccupano della vita come se già avesse valore (sufficienza) e vivono oς eόντος l’assoluto con la previsione limitata all’attimo – ché l’uno ama e volge gli occhi al possesso totale, all’identificazione – l’altro è tenero e zelante di ciò che crede possedere, perché rimanga per lui anche in futuro, mentre tanto lo possiede quanto è posseduto. «E si rivolge alle cose che sono dietro a lui». Ricordatevi della femmina di Lot – dice Cristo 'Chi cercherà di salvare la propria vita, la perderà; ma chi la perderà, la manterrà viva'. (Lc 17, 32-33). – Questa è la via che ognuno batte, se voglia procacciarsi il piacere della vita. Ma qui troviamo questi individui ridotti a meccanismi, previsione attuata nell’organismo, non però, come ci aspetteremmo, vittime della loro debolezza – in balìa del caso, ma «sufficienti» e sicuri come divinità. – La loro degenerazione è detta educazione civile, la loro fame è attività di progresso, la loro paura è la morale, la loro violenza, il loro odio egoistico – la spada della giustizia".



APOCALISSI ALIENE: il libro

7 commenti:

  1. Michelstaedter ha preso troppo sul serio il mondo che ci circonda. Nella sua critica radicale non s'è reso conto che in fin dei conti ci troviamo immersi in gioco stupido, vergognoso, crudele e tutto quel che si vuole, ma pur sempre in un gioco.

    Di certo questo non è il gioco dell'Umanità edenica ma quello proprio ad una Umanità decrepita e derelitta. Rendersi conto di questo semplice dato di fatto è già di per sè liberatorio.
    Avesse letto Michelstaedter la critica guénoniana alla crisi in cui si trova immersa la modernità e forse non si sarebbe accoppato.

    A che serve ammazzarsi? 'Cui prodest?' E' pur vero che, secondo la prospettiva dello Stoicismo l'uomo è libero di protrarre la propria vita in questo mondo qualora lo ritenga opportuno come di porvi fine quando non valga più la pena di continuare.

    Ma dove sta il vero eroismo? Nello scappare o non piuttosto nel lottare, per quel poco che ci è concesso di fare, contro una situazione ingiusta e malvagia sino al paradosso?

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  2. Pare che il suicidio di M. fosse inscritto nel suo destino. Certo, altri sono gli universi, ma non a tutti è dato di intuirli e così talora il suicidio può essere gesto magnanimo.

    Certo, essendo M. conoscitore di Schopenauer, avrebbe dovuto sapere che la Voluntas non si spegne con il suicidio che nega una determinata vita, ma non la Wille. Si vede che - ripeto - era parte del suo crudele gioco.

    Resta, di là dei dati biografici, meramente estemporanei ed accessori, l'implacabile critica del sistema. Avessimo oggi intellettuali come M.

    Ciao e grazie.

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  3. Caspita ragazzi, che tristezza mista a disperazione che si respira negli ultimi post; prima Schopenhaeur, poi il nulla come "sostanza della vita" in Pirandello e adesso il suicida Michelstaedter. Continuando di questo passo il prossimo post sara' sulla 'Filosofia della redenzione' di Mainländer, anche lui profondo conoscitore di Leopardi e del filosofo di Danzica (originario della citta' dove questo e' spirato) nonche' sostenitore dell'ontologia negativa secondo cui il "il non essere è preferibile all' essere" e pertanto tanto vale rientrarvi il prima possibile con un atto volontario, dal momento che secondo questo simpaticone teutonico la cosa in se' si identifica con la "volontà di morte". Di non poco conto il fatto che, prima di Nietzsche, egli introduce il concetto di morte di Dio affermando: "Dio è morto e la sua morte fu la vita del mondo", impulso disgregatore che contraddistinguerebbe la divinita' nella sua ineluttabile tendenza a passare dall'essere al nulla. Inutile aggiungere che la sorella, dopo aver letto i suoi illuminanti studi, lo segui' coerentemente nella tomba. Polemiche a parte, e in controtendenza al penchant dell'esegesi filosofica dominante (sebbene sia stato proprio Nietzsche a inaugurare un'interpretazione in chiave psicologica dei presocratici) sarebbe interessante analizzare il pensiero in connessione con la vita di che lo pensa: mi sto convincendo sempre piu' che il teorizzare filosofico - ma spesso anche scientifico - non possa essere miracolosamente scisso dalla personalita' di chi lo elabora, in modo tale da prendere il volo nell'oceano delle idee ed acquistare consistenza e valenza eterna. Pertanto ritengo che i dati biografici siano tutto fuorche' "meramente estemporanei ed accessori", il che non toglie che si possa anche centrare il bersaglio prima di darsela a gambe..
    Comincio a comprendere solo ora cio' che una volta disse un mio ex professore all'universita': "ogni filosofia altro non e' che una auto-onto-biografia".

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  4. Il suicidio in fondo sarebbe la logica conseguenza della filosofia shopenhaueriana, salvo riconoscere che proprio il suicidio (del padre del filosofo) ne e' stata l'intima causa originaria e primigenia - anche concausa della sua infuocata misoginia, poiche' a quanto pare la madre avrebbe contribuito a non evitare il suicidio e, piu' in generale, tutte le donne contribuiscono al perpetuarsi della (sofferenza della) specie.
    Schopenhauer e' il primo filosofo moderno ad avvicinarsi alle filosofie orientali allora poco conosciute in Europa, ma prende solo cio' che gli fa comodo, lo shakera ben bene con un bel po' di scientismo di matrice ottocentesca, e partorisce il mostro del Wille che tutto inghiotte e a cui non si puoi sfuggire se non con lo stratagemma (fallace) della Noluntas - praticamente un arrendersi e gettare le armi (infatti la Noluntas verra' ribattezzata "volonta' del nulla" dal suo discepolo postumo, Nietzsche - "l'uomo preferisce ancora volere il nulla piuttosto che non volere"). Il che non si distanzia poi molto dal "non val cosa nessuna i moti tuoi/ne di sospiri e' degna la terra" e dall'"infinita' vanita' del tutto" del Leopardi di "A se stesso".

    Beninteso non voglio fare l'ottimista di turno, ho passato tutta la fase del nichilismo piu' nero, pensato, sentito e vissuto in me stesso, ma proprio in virtu' di cio' posso affermare che vi e' sempre una componente disarmonica personale - tuttavia il pessimismo filosofico lascia il tempo che trova, in special modo se ad affermarlo sono certi personaggi. Il filosofo di Danzica era talmente in armonia con se stesso che durate i moti del 1848 andava sui tetti delle case a sparare ai rivoluzionari (questo naturalmente non lo dicono i manuali di filosofia..). Certo, trovare l'armonia nel merdaio in cui viviamo non e' facile, ma e' il primo passo per poter agire in maniera positiva - credo.
    Ringrazio e perdono per la lungaggine.

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  5. Il nulla, anche nella fisica quantistica, è la sorgente del Tutto. Erroneo l'aforisma di Lavoisier "Nulla si crea e nulla si distrugge", poiché tutto si crea anche se in modo inesplicabile. Il nulla, liberato delle implicazioni psicologiche, si rivela come la matrice dell'essere.

    Nel misticismo di Bohme, d'altronde, Dio è "nihil aeternum".

    Sulle contraddizioni dei filosofi come Schopenauer, posso solo concordare: il misogino filosofo di Danzica, che predicava la compassione e la comprensione, maltrattò e tiranneggiò la domestica. Tuttavia, il biografismo non è forse meno fuorviante della totale autonomia dai dati biografici. L'esistenza può essere un'occasione di indagine.

    In fondo, in un universo perfetto, né la morte (anche attraverso il suicidio) né il male né il dolore hanno reale sostanza: possiamo rileggere Leibnitz. Forse aveva ragione lui, sebbene sia filosofo molto noioso e scrittore anodino.

    Ciao e grazie.

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  6. E se Michelstaetder, dopo aver capito molte cose, si fosse spinto troppo in là nell'ansia di trascendere la coscienza ordinaria? Nell'Alchimia operativa la fretta eccessiva rovina tutto. La cottura deve essere lenta e portata avanti con discernimento.

    Un improvviso risveglio della Kundalini potrebbe aver rovinato il bravo Michelstaedter, scaraventandolo in una situazione interiore insostenibile la quale avrebbe avuto come unico sbocco il suicidio.

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  7. E' possibile, Paolo, che M. abbia bruciato le tappe. Alcuni pensatori sostengono che, benché nella vita si sia dotati di libero arbitrio, il tempo ed il modo della morte sono predestinati. Fu così dunque anche per M.?

    Avrei voluto inserire le riflessioni del filosofo goriziano sulla scuola, ma non ho potuto. Sono considerazioni di una profondità eccezionale.

    Ciao e grazie.

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