“Ero felice, non ci si accorge mai di esserlo, Angela, e mi chiesi perché l’assimilazione di un sentimento così benevolo ci trovi sempre così impreparati, sbadati tanto che conosciamo solo la nostalgia della felicità o la sua perenne attesa”. Così scrive Margaret Mazzantini in “Non ti muovere”.
L’autrice coglie il carattere inafferrabile della felicità, confinata in un passato perduto per sempre o proiettata in un futuro che non si realizza mai. E’ questo l’umano destino: rincorrere una gioia che non appartiene al presente, che non appartiene a nessun tempo. Ghermire l’attimo? E’ possibile? A volte, strappiamo una gratificazione a qualche istante che viviamo, ma la felicità è altra cosa. Vorremmo eternare quei rari momenti di serenità: è il sogno che culliamo invano, il miraggio che fluttua innanzi ai nostri occhi. Se la gioia fosse imperitura, la distingueremmo dal dolore e dal tedio? Solo quando l’esultanza spicca sulla grigia pagina della noia, se ne discerne il vivace colore. Eppure…
Il desiderio della felicità, desiderio sempre risorgente e sempre frustrato, è umano proprio come la necessità di stare con gli altri. Si può essere felici da soli? Il detto “beata solitudo, sola beatitudo” si applica agli spiriti sublimi che hanno imparato a trascurare i piaceri caduchi, siano pure quelli più nobili, generati dalla socievolezza e dall’amicizia. Fatto è che, se abbiamo appreso a tollerare sofferenze indicibili ed a nasconderle a noi stessi ed agli altri, quando siamo felici, desidereremmo condividere quei magici momenti con qualcuno. Il dolore è solitario; la letizia ama la compagnia. Il dolore condiviso resta intatto nella sua intensità; se rendiamo partecipi gli altri della nostra contentezza, essa si espande. Gli altri, però, se non sono mossi da invidia, non capiscono; non possono capire ed immedesimarsi nel nostro stato di grazia. Così la felicità, se mai la si sfiori, pare condannare alla solitudine, tramutandosi nel suo contrario.
Che pensare della fantasia che trasfigura e, per così dire, spiritualizza i piaceri effimeri e li colloca nella dimensione dell’eterno? L’esigenza insopprimibile alla felicità, che non è la volgare soddisfazione dei bruti, ma un compimento della natura umana, dimostra che la vita è tale, solo se sostanziata di senso e di gratificazione. Se vagheggiando lo stato prodigioso, andremo incontro a cocenti delusioni, è ancora più triste rassegnarsi ad esistere, senza più l’anelito alla bellezza, alla verità, all’appagamento. Ciò anche se in cuor nostro sappiamo che la felicità è solo un’illusione ottica della coscienza.
L’autrice coglie il carattere inafferrabile della felicità, confinata in un passato perduto per sempre o proiettata in un futuro che non si realizza mai. E’ questo l’umano destino: rincorrere una gioia che non appartiene al presente, che non appartiene a nessun tempo. Ghermire l’attimo? E’ possibile? A volte, strappiamo una gratificazione a qualche istante che viviamo, ma la felicità è altra cosa. Vorremmo eternare quei rari momenti di serenità: è il sogno che culliamo invano, il miraggio che fluttua innanzi ai nostri occhi. Se la gioia fosse imperitura, la distingueremmo dal dolore e dal tedio? Solo quando l’esultanza spicca sulla grigia pagina della noia, se ne discerne il vivace colore. Eppure…
Il desiderio della felicità, desiderio sempre risorgente e sempre frustrato, è umano proprio come la necessità di stare con gli altri. Si può essere felici da soli? Il detto “beata solitudo, sola beatitudo” si applica agli spiriti sublimi che hanno imparato a trascurare i piaceri caduchi, siano pure quelli più nobili, generati dalla socievolezza e dall’amicizia. Fatto è che, se abbiamo appreso a tollerare sofferenze indicibili ed a nasconderle a noi stessi ed agli altri, quando siamo felici, desidereremmo condividere quei magici momenti con qualcuno. Il dolore è solitario; la letizia ama la compagnia. Il dolore condiviso resta intatto nella sua intensità; se rendiamo partecipi gli altri della nostra contentezza, essa si espande. Gli altri, però, se non sono mossi da invidia, non capiscono; non possono capire ed immedesimarsi nel nostro stato di grazia. Così la felicità, se mai la si sfiori, pare condannare alla solitudine, tramutandosi nel suo contrario.
Che pensare della fantasia che trasfigura e, per così dire, spiritualizza i piaceri effimeri e li colloca nella dimensione dell’eterno? L’esigenza insopprimibile alla felicità, che non è la volgare soddisfazione dei bruti, ma un compimento della natura umana, dimostra che la vita è tale, solo se sostanziata di senso e di gratificazione. Se vagheggiando lo stato prodigioso, andremo incontro a cocenti delusioni, è ancora più triste rassegnarsi ad esistere, senza più l’anelito alla bellezza, alla verità, all’appagamento. Ciò anche se in cuor nostro sappiamo che la felicità è solo un’illusione ottica della coscienza.
La felicità è una parentesi tra le tante sofferenze, un attimo di felicità cancella una vita di tormenti, un susseguirsi di dolore e gioia che dura pochi attimi, e in quegli attimi il dolore sparisce, pronti per combattere un nuovo capitolo della vita.
RispondiEliminaUna carezza, un bacio, un sorriso rallegra il cuore affranto dal dolore; come il bimbo si seda dopo un pianto nelle braccia della mamma, così noi adulti ci basta poco per sedare il dolore, con solo una buona parola, un incentivo a continuare, forse ... siamo e resteremo sempre bimbi con l'aspetto da adulti, alla ricerca della mamma che sedi il nostro dolore.
Mia moglie era la mia compagna di vita, la mia amante, la mia amica, la mia confidente, mia moglie, ma infondo so bene che ho vissuto quaranta anni con lei, pertanto posso dire anche mia mamma ...
O. Wilde diceva: La felicità non è avere quello che si desidera,
ma desiderare quello che si ha.
wlady
Lo ha detto lui e lo condivido.
RispondiElimina"Il ricordo della felicità non è più felicità, il ricordo del dolore è ancora dolore".
Albert Einstein
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RispondiEliminaSono riflessioni molto significative, Wlady.
RispondiEliminaSulla felicità mi piace ricordare un aforisma di William Blake, "La felicità è nello spazio tra due attimi", il che corrisponde di fatto a negare che essa esista, talmente è effimera.
La Rouchefoucauld scrive: "La felicità è nel gusto e non nelle cose". Quando si perde il gusto...
Ciao
Freeanimals una volta disse:
RispondiElimina"La felicità è mangiare un bacio perugina resistendo alla tentazione di leggere il bigliettino, dopo aver liberato un topo da uno stabulario e dopo essersi lavati le mani, naturalmente".
Io sono d'accordo, soprattutto con la parte del topo liberato. La felicità come appagamento spirituale.
Ciao
L' idea di affidare la mia vita alla continua ricerca di piccoli attimi di felicità, sarò sincero, non mi piace per niente...
RispondiEliminaFelicità, tristezza, angoscia poi ancora felicità, paura...
Questo disordinato susseguirsi ed alternarsi di status, finirebbe per distruggermi, lasciandomi vittima di un turbine di emozioni nel quale verrei risucchiato. Saranno gli eventi, a quel punto, i terribili tiranni della mia essenza. Ciò non mi consola. Non voglio essere sballottato dalle emozioni, come un sasso si lascia trasportare dal vento.
Mi interessa piuttosto la quieta osservazione, quella pace, o meglio quella calma che mi permette di essere giudice e giudicato allo stesso tempo.
Vorrei che la vita assumesse le sembianze di un viaggio studio. Dove l' oggetto di studio è la realtà con i suoi meccanismi. Ma non dal punto di vista scientifico, piuttosto dalla posizione di colui che penetra la realtà e ne osserva ciò che più gli interessa.
Mi piace sentirmi un viandante di mondi e dimensioni, in continua osservazione.
Da questo punto di vista, la felicità, è solo una delle possibili emozioni che la realtà mi offre di sperimentare. Saranno sciocchezze, d' accordo. Ma ciò mi permette di giocare. Giocare con il mondo.
Se si prendesse il mondo sul serio, se io avessi preso il mondo sul serio, l' insopportabilità del dolore mi avrebbe portato al suicidio...
Ciao Zret.
RispondiEliminaSe la gioia fosse imperitura, la distingueremmo dal dolore e dal tedio? Solo quando l’esultanza spicca sulla grigia pagina della noia, se ne discerne il vivace colore.
Le tue parole mi ricordano questo sagace aforisma di Huxley: "Davanti a una prospettiva di felicità permanente e invariata non indietreggerebbero forse tutti, per il terrore di morire di noia?"
L'uomo evidentemente non è fatto per vivere nella felicità e nell'appagamento dei desideri, dal momento che brama sempre di più.
Ma poi, come saggiamente scrive George Moore, "Un uomo gira tutto il mondo in cerca di quello che gli occorre, poi torna a casa e
lo trova". Quindi, la felicità si trova forse più vicina di quello che si pensi.
Buon pomeriggio, Sharon
Freeanimals, è proprio l'appagamento spirituale che ci è precluso, vista la non sradicabile insufficienza ontologica della condizione umana.
RispondiEliminaCiao
Jc, hai scritto una pagina molto densa. Reputo che l'esistenza sia di per sé intollerabile. La sofferenza è consastunziata alla vita, ma addirittura abita nel cuore dell'universo, come scrive Pareyson. Il tuo atteggiamento di osservatore distaccato ti salva dalla tempesta, come il saggio epicureo che osserva da lontano le disgrazie del mondo e le sventure degli infelici. Scrivo ciò con una punta di invidia. Certamente il mondo non è serio, questo sì...
RispondiEliminaCiao
Sharon, non sono stato originale. Ho in fondo ripetuto concetti di Leopardi e di altri. Il poeta recanatese osserva che il piacere tende all'infinito, mentre la natura può solo offrire qualche breve interludio, in una vita attanagliata dal dolore e soffocata dalla noia. E' per questo che conseguentemente il genio del "borgo selvaggio" ripone nel nulla l'unica ed ultima speranza, come una sorta di buddhista nichilista.
RispondiEliminaCiao
Ormai da anni il sonno profondo o anche onirico è per me fonte non propriamente di felicità - parola troppo grossa che non so che cosa significhi poichè non esiste nel mio vocabolario - ma di una piacevole ebbrezza.
RispondiEliminaUn rilassamento appagante e di totale abbandono al Sè interiore. Non per nulla i Maestri spirituali dell'India antica e moderna affermano che nel sonno - e soprattutto in quello profondo - il dormiente sperimenta, ovviamente senza averne la piena consapevolezza, il samadhi.
Vale a dire che egli si identifica con lo stato di beatitudine impersonale raggiunto dall'asceta al culmine ddl suo cammino spirituale.
Perchè lamentarsi? Il samadhi, ovvero la beatitudine o felicità suprema è lì dentro di noi. Il Sè ce l'ha data e nessuno mai ce la potrà togliere.
Paolo, mi piace trascinare il tuo bel commento e sovrapporlo, mutatis mutandis, alla celebre "Operetta morale" del genio recanatese, il "Cantico del gallo silvestre", dove il sonno è raffigurato come assaggio di quella nullificante quiete da cui tutto promana, quello stato di assoluto e profondo non essere in cui il dolore ed il tedio si dissolvono. Per sempre.
RispondiEliminaCiao
Rilassarsi ed abbandonarsi il più possibile durante il sonno ripaga delle fatiche e delle amarezze della vita da svegli. Certo non è molto, non si tratta di sicuro di una esperienza trasformante - ahimè, ci vorrebbe ben altro -, ma per i poveri mortali è già qualcosa.
RispondiEliminaSono un ignorante e non conosco il testo leopardiano da te citato. Grazie della segnalazione e dell'accostamento. Ciao
Sì, Paolo, il sonno ci rinfranca dalle tribolazioni della vita diurna. Se è associato ad un sogno immaginifico e pregnante, ci può anche consentire di rasentare una dimensione misteriosa, ma è evento raro, poiché i sogni sono quasi sempre grovigli di segni indecifrabili.
RispondiEliminaCiao