“Come andrà a finire?”. E’ la domanda che si pone John Polkinghorne, già docente di Fisica matematica ed ora teologo anglicano, nel libretto “Quark, caos e cristianesimo. Domande a scienza e fede”. Il quesito “Come andrà a finire?”, che può apparire accademico, ozioso, riguarda il destino ultimo dell’universo.
Scrive l’autore: “La storia dell’universo è il racconto di un gigantesco tiro alla fune. Da un lato c’è l’effetto del Big Bang che spinge alla separazione la materia dell’universo. Dall’altra parte c’è l’inesorabile forza di attrazione che cerca di ricongiungere le cose. Se prevale l’espansione, le galassie continueranno ad allontanarsi le une dalle altre per sempre. […] Si formeranno grandi buchi neri che decadranno infine in una radiazione di bassa frequenza. Non è una prospettiva molto allegra. Andranno meglio le cose, se vincerà la gravità? Temo di no. In questo caso, un giorno l’attuale espansione si arresterà e sarà rovesciata nel suo contrario. Quel che ebbe inizio con il Big Bang finirà nel Big Crunch, poiché tutta la materia precipiterà indietro in un crogiolo cosmico. […] In entrambi i casi, tutto è inutilità e vanità”.
Il duplice scenario delineato da Polkinghorne, nonostante appartenga ad un futuro lontanissimo, ci tocca da vicino, poiché il fato dell’universo dilata la sorte individuale. Si annida un senso dietro la spudorata incoerenza dei fenomeni? Che cosa ci attende? Il nulla o qualcosa di noi sopravvivvrà oltre la fine del percorso tereno e persino di tutte le cose? Lo scrittore solleva le questioni giuste, anche se le risposte che prova ad offrire sono talora di sconcertante banalità, con la solita spiegazione tappabuchi del libero arbitrio.
Tuttavia in modo opportuno il teologo evidenzia che non siamo in grado di comprendere come la sfera quantistica e la realtà di ogni giorno siano collegate tra loro: una profonda faglia spacca le due zolle tettoniche. Si intuisce che un senso nascosto trascende la concezione puramente meccanicista (e desolante) di un universo-orologio che un giorno remoto si incepperà per la ruggine che mangia gli ingranaggi. La coscienza non si riduce al cervello, la vita non è solo una chimica complessa. Anche l’assurdità si radica in un senso e l’abisso ha un fondo luminoso. Illusioni o indizi di un mondo vivo, pulsante, compenetrato da un soffio spirituale?
Si apre dunque una fessura oltre la quale si intravede il barlume della speranza: che sotto la crosta granitica e spessa del male, sia incastrata una ragione. Scaviamo proprio per tentare di portarla alla luce. Siamo minatori che cercano la vena d’oro ed è per questo che dobbiamo percorrere cunicoli freddi, umidi e bui.
Polkinghorne sdrucciola, quando si cimenta nella palestra dell’esegesi biblica per trovare un avallo alle sue ipotesi. Le traduzioni errate e la scarsa (o inesistente?) conoscenza del contesto storico in cui germinarono i Vangeli lo portano a conclusioni grossolane. Pure l’ingenuo realismo ed il convincimento che la natura è intelligibile sono limiti, a parere di chi scrive, di una Weltanschauung in fondo ancora non del tutto svecchiata, per cui la scienza e la fede diventano approdi rassicuranti, invece che porti donde salpare per navigazioni perigliose.
Del breve saggio, vorremmo salvare soprattutto i titoli dei capitoli, simili a quei segni sugli alberi che nei boschi indicano il sentiero da percorrere: “Realtà o opinione?” “C’è qualcuno lì?” “Chi siamo noi?” “Che cosa sta accadendo?”... Siano stimoli per indagini personali, molto più aleatorie ed avventurose rispetto alle prudenti congetture ventilate dal Nostro.
Sono enigmi più che interrogativi, poiché invero tutto è un enigma. La realtà stessa è un enigma: essa è e resta inintelligibile. E' una Sfinge che risponde con una domanda a chi le pone una domanda.
Scrive l’autore: “La storia dell’universo è il racconto di un gigantesco tiro alla fune. Da un lato c’è l’effetto del Big Bang che spinge alla separazione la materia dell’universo. Dall’altra parte c’è l’inesorabile forza di attrazione che cerca di ricongiungere le cose. Se prevale l’espansione, le galassie continueranno ad allontanarsi le une dalle altre per sempre. […] Si formeranno grandi buchi neri che decadranno infine in una radiazione di bassa frequenza. Non è una prospettiva molto allegra. Andranno meglio le cose, se vincerà la gravità? Temo di no. In questo caso, un giorno l’attuale espansione si arresterà e sarà rovesciata nel suo contrario. Quel che ebbe inizio con il Big Bang finirà nel Big Crunch, poiché tutta la materia precipiterà indietro in un crogiolo cosmico. […] In entrambi i casi, tutto è inutilità e vanità”.
Il duplice scenario delineato da Polkinghorne, nonostante appartenga ad un futuro lontanissimo, ci tocca da vicino, poiché il fato dell’universo dilata la sorte individuale. Si annida un senso dietro la spudorata incoerenza dei fenomeni? Che cosa ci attende? Il nulla o qualcosa di noi sopravvivvrà oltre la fine del percorso tereno e persino di tutte le cose? Lo scrittore solleva le questioni giuste, anche se le risposte che prova ad offrire sono talora di sconcertante banalità, con la solita spiegazione tappabuchi del libero arbitrio.
Tuttavia in modo opportuno il teologo evidenzia che non siamo in grado di comprendere come la sfera quantistica e la realtà di ogni giorno siano collegate tra loro: una profonda faglia spacca le due zolle tettoniche. Si intuisce che un senso nascosto trascende la concezione puramente meccanicista (e desolante) di un universo-orologio che un giorno remoto si incepperà per la ruggine che mangia gli ingranaggi. La coscienza non si riduce al cervello, la vita non è solo una chimica complessa. Anche l’assurdità si radica in un senso e l’abisso ha un fondo luminoso. Illusioni o indizi di un mondo vivo, pulsante, compenetrato da un soffio spirituale?
Si apre dunque una fessura oltre la quale si intravede il barlume della speranza: che sotto la crosta granitica e spessa del male, sia incastrata una ragione. Scaviamo proprio per tentare di portarla alla luce. Siamo minatori che cercano la vena d’oro ed è per questo che dobbiamo percorrere cunicoli freddi, umidi e bui.
Polkinghorne sdrucciola, quando si cimenta nella palestra dell’esegesi biblica per trovare un avallo alle sue ipotesi. Le traduzioni errate e la scarsa (o inesistente?) conoscenza del contesto storico in cui germinarono i Vangeli lo portano a conclusioni grossolane. Pure l’ingenuo realismo ed il convincimento che la natura è intelligibile sono limiti, a parere di chi scrive, di una Weltanschauung in fondo ancora non del tutto svecchiata, per cui la scienza e la fede diventano approdi rassicuranti, invece che porti donde salpare per navigazioni perigliose.
Del breve saggio, vorremmo salvare soprattutto i titoli dei capitoli, simili a quei segni sugli alberi che nei boschi indicano il sentiero da percorrere: “Realtà o opinione?” “C’è qualcuno lì?” “Chi siamo noi?” “Che cosa sta accadendo?”... Siano stimoli per indagini personali, molto più aleatorie ed avventurose rispetto alle prudenti congetture ventilate dal Nostro.
Sono enigmi più che interrogativi, poiché invero tutto è un enigma. La realtà stessa è un enigma: essa è e resta inintelligibile. E' una Sfinge che risponde con una domanda a chi le pone una domanda.
Nessun commento:
Posta un commento
ATTENZIONE! I commenti sono sottoposti a moderazione prima della loro eventuale pubblicazione.