Un disegno tipicamente scolastico vede in Dante l’autore rivolto alle cose celesti, considera Petrarca il poeta in bilico tra immanenza e trascendenza, Boccaccio lo scrittore che valorizza il mondo terreno. E’ uno schema a priori e, come tutti gli schemi, astratto. Si presuppone che la storia letteraria debba avere uno sviluppo, secondo una linea precisa. Tale “darwinismo letterario” inficia la comprensione delle testimonianze artistiche.
Tra i critici è stato soprattutto Vittore Branca ad avallare ed a diffondere l’idea del “Decameron” quale “epopea dei mercanti”, quindi celebrazione dei valori espressi dalla civiltà borghese tardo-medievale: l’intraprendenza, l’ingegno, l’alacrità, l’uso accorto del denaro per creare nuove ricchezze. A ben vedere, però, nel capolavoro del Boccaccio, sono pochissime le novelle incentrate sulle presunte virtù del mercante. Non solo, tale figura o consegue i suoi obiettivi grazie alla fortuna o incarna una mentalità angusta che il Nostro è incline a condannare. Si pensi almeno alla celebre novella “Lisabetta da Messina”: qui la “ragion di mercatura”, lo spirito classista, in contrasto con le ragioni del sentimento, conducono la protagonista alla costernazione ed alla morte.
Il “Decameron” è una Commedia laica che dall’abisso del vizio, incarnato dal mattatore della prima novella, il turpe Ser Ciappelletto, conduce, attraverso le erte dell’esperienza umana, alla vetta della virtù rappresentata da Griselda, esempio di abnegazione talmente sublime da sconfinare nell’inverosimile.
Boccaccio talora vagheggia gli ideali della società cortese e, se non vi aderisce del tutto, è specialmente per il suo lucido realismo: perché ha compreso che l’età cavalleresca è per sempre tramontata. Ciò non lo esime dal guardare con un certo disdegno la nuova realtà: ne riconosce le spinte propulsive, ma, come Dante, intravede la tara di una temperie socio-economica che trova nell’usura e nella spregiudicatezza i suoi perversi capisaldi. Cardini sostiene che il "Decameron" costituisce "un vero e proprio progetto di rifondazione cavalleresca d'un mondo sconvolto dall'avidità e dalla grettezza mercantili".
E’ naturale che una tale rilettura del “Decameron” sfilaccia la tradizionale filigrana esegetica, inducendo ad interpretare i fenomeni storico-letterari secondo criteri più duttili, in grado di rilevare convergenze diacroniche, resistenze, riprese, marce indietro di là dal solito itinerario “evolutivo”.
Siamo abituati a fidarci delle esposizioni preconfezionate, delle versioni accademiche: in questo modo si ottunde lo spirito critico, scopo precipuo, di là delle insincere dichiarazioni di intenti, dei programmi scolastici vergati dal Ministero della pubblica distruzione. E’ quanto persegue chi conosciamo bene.
Tra i critici è stato soprattutto Vittore Branca ad avallare ed a diffondere l’idea del “Decameron” quale “epopea dei mercanti”, quindi celebrazione dei valori espressi dalla civiltà borghese tardo-medievale: l’intraprendenza, l’ingegno, l’alacrità, l’uso accorto del denaro per creare nuove ricchezze. A ben vedere, però, nel capolavoro del Boccaccio, sono pochissime le novelle incentrate sulle presunte virtù del mercante. Non solo, tale figura o consegue i suoi obiettivi grazie alla fortuna o incarna una mentalità angusta che il Nostro è incline a condannare. Si pensi almeno alla celebre novella “Lisabetta da Messina”: qui la “ragion di mercatura”, lo spirito classista, in contrasto con le ragioni del sentimento, conducono la protagonista alla costernazione ed alla morte.
Il “Decameron” è una Commedia laica che dall’abisso del vizio, incarnato dal mattatore della prima novella, il turpe Ser Ciappelletto, conduce, attraverso le erte dell’esperienza umana, alla vetta della virtù rappresentata da Griselda, esempio di abnegazione talmente sublime da sconfinare nell’inverosimile.
Boccaccio talora vagheggia gli ideali della società cortese e, se non vi aderisce del tutto, è specialmente per il suo lucido realismo: perché ha compreso che l’età cavalleresca è per sempre tramontata. Ciò non lo esime dal guardare con un certo disdegno la nuova realtà: ne riconosce le spinte propulsive, ma, come Dante, intravede la tara di una temperie socio-economica che trova nell’usura e nella spregiudicatezza i suoi perversi capisaldi. Cardini sostiene che il "Decameron" costituisce "un vero e proprio progetto di rifondazione cavalleresca d'un mondo sconvolto dall'avidità e dalla grettezza mercantili".
E’ naturale che una tale rilettura del “Decameron” sfilaccia la tradizionale filigrana esegetica, inducendo ad interpretare i fenomeni storico-letterari secondo criteri più duttili, in grado di rilevare convergenze diacroniche, resistenze, riprese, marce indietro di là dal solito itinerario “evolutivo”.
Siamo abituati a fidarci delle esposizioni preconfezionate, delle versioni accademiche: in questo modo si ottunde lo spirito critico, scopo precipuo, di là delle insincere dichiarazioni di intenti, dei programmi scolastici vergati dal Ministero della pubblica distruzione. E’ quanto persegue chi conosciamo bene.
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