Pensa. Ne sei capace. Soprattutto non devi fuggire nel sonno – dimenticare i particolari – ignorare i problemi – costruire barriere fra te ed il cosmo e le allegre ragazze brillanti – ti prego, pensa, svegliati. Credi in qualche forza benefica al di fuori del tuo io limitato. Signore, signore, signore, dove sei? Ho bisogno di credere in te, nell’amore e nell’umanità… (Sylvia Plath, Diari)
Sono note le giustificazioni dei credenti e le motivazioni degli atei. Sarebbe forse auspicabile andare oltre per evitare di ripetere che la bellezza e l’armonia del cosmo, le mirabili creazioni della Natura dichiarano l’esistenza di Dio. Di converso, additare il dolore che lacera la vita e strazia questo mondo al contrario di per sé non bilancia gli argomenti a favore della presenza dell’Eterno.
Così siamo nella condizione dell’asino di Buridano: non possiamo decidere per l’una o l’altra possibilità, giacché le argomentazioni a favore e quelle contro sembrano elidersi a vicenda. Quasi sempre si pensa a Dio come all’Essere perfettissimo: allora l’imperfezione, indiscutibile dato del mondo, da dove proviene?
In verità, sia la presenza di Dio sia la sua assenza abitano nel centro del nostro essere. Sono racchiuse nell’attimo che contiene l’abisso dell’eternità. Siamo infiniti nella nostra pietosa finitezza. In quell’istante di solenne silenzio, di vuoto che contiene tutto, noi percepiamo l’Assoluto ed il Nulla, come i volti di Giano bifronte. In quel silenzio è custodita la verità indicibile, la paradossale intuizione: nell’inferno rovente della sofferenza possiamo avvertire il refrigerio dell’Eterno, nel caos rintracciare una filigrana e nell’assurdo un senso. Talvolta nella disperazione si incontra un sorriso o una tacita empatia.
Per questo motivo a Dio non ci si accosta con la ragione, meno che mai con il calcolo, poiché il calcolo non torna mai, ma solo con la ricerca estenuante di una direzione, consci, però, che questa ricerca potrebbe essere come il cammino di un uomo smarritosi nel deserto. Egli crede di dirigersi verso l’oasi che ha intravisto in lontananza, ma si muove in cerchio e, alla fine, torna nel punto donde è partito. Il miraggio è sempre in agguato.
Anche in quei rarissimi, eccezionali casi in cui l’esplorazione del senso, che è poi spesso una gragnola di domande, approda ad una pur parziale meta, chi potrà tradurre quella fulminea, fugace illuminazione in un discorso su Dio? Le parole sono miseri balbettii e la più grandiosa elaborazione teologica, biblica o extra-biblica che sia, è uno iota lillipuziano. La teologia trova il suo habitat nelle università. Osi un erudito disquisire di teodicea al cospetto di clochards mezzo ibernati e miserabili. Questi sventurati, costretti a dormire in un portico, avvolti in coperte bucate, le darebbero di santa ragione al teologo! Chi potrebbe biasimarli? In certi luoghi né la scienza né la filosofia attecchiscono facilmente. Alla Coscienza è assegnato l’arduo compito di sentire, se ci riesce, non all’intelletto.
Meglio dunque tacere: ad ognuno il suo universo, la traballante passerella da cui gettare uno sguardo nella voragine del buio.
Ad ognuno la sua parte, di apertura o di chiusura o di entrambe. Il peso dell’irrazionalità è un macigno che schiaccia, ma il peso di un senso che sfida ogni logica ed ogni spiegazione non è meno gravoso né meno difficile da sopportare: si è obbligati a costruire ed a ricostruire la vita, istante dopo istante, mentre il tempo e l’entropia la inceneriscono senza pietà.
La fatica di Sisifo è, al confronto, una rilassante passeggiata.
Sono note le giustificazioni dei credenti e le motivazioni degli atei. Sarebbe forse auspicabile andare oltre per evitare di ripetere che la bellezza e l’armonia del cosmo, le mirabili creazioni della Natura dichiarano l’esistenza di Dio. Di converso, additare il dolore che lacera la vita e strazia questo mondo al contrario di per sé non bilancia gli argomenti a favore della presenza dell’Eterno.
Così siamo nella condizione dell’asino di Buridano: non possiamo decidere per l’una o l’altra possibilità, giacché le argomentazioni a favore e quelle contro sembrano elidersi a vicenda. Quasi sempre si pensa a Dio come all’Essere perfettissimo: allora l’imperfezione, indiscutibile dato del mondo, da dove proviene?
In verità, sia la presenza di Dio sia la sua assenza abitano nel centro del nostro essere. Sono racchiuse nell’attimo che contiene l’abisso dell’eternità. Siamo infiniti nella nostra pietosa finitezza. In quell’istante di solenne silenzio, di vuoto che contiene tutto, noi percepiamo l’Assoluto ed il Nulla, come i volti di Giano bifronte. In quel silenzio è custodita la verità indicibile, la paradossale intuizione: nell’inferno rovente della sofferenza possiamo avvertire il refrigerio dell’Eterno, nel caos rintracciare una filigrana e nell’assurdo un senso. Talvolta nella disperazione si incontra un sorriso o una tacita empatia.
Per questo motivo a Dio non ci si accosta con la ragione, meno che mai con il calcolo, poiché il calcolo non torna mai, ma solo con la ricerca estenuante di una direzione, consci, però, che questa ricerca potrebbe essere come il cammino di un uomo smarritosi nel deserto. Egli crede di dirigersi verso l’oasi che ha intravisto in lontananza, ma si muove in cerchio e, alla fine, torna nel punto donde è partito. Il miraggio è sempre in agguato.
Anche in quei rarissimi, eccezionali casi in cui l’esplorazione del senso, che è poi spesso una gragnola di domande, approda ad una pur parziale meta, chi potrà tradurre quella fulminea, fugace illuminazione in un discorso su Dio? Le parole sono miseri balbettii e la più grandiosa elaborazione teologica, biblica o extra-biblica che sia, è uno iota lillipuziano. La teologia trova il suo habitat nelle università. Osi un erudito disquisire di teodicea al cospetto di clochards mezzo ibernati e miserabili. Questi sventurati, costretti a dormire in un portico, avvolti in coperte bucate, le darebbero di santa ragione al teologo! Chi potrebbe biasimarli? In certi luoghi né la scienza né la filosofia attecchiscono facilmente. Alla Coscienza è assegnato l’arduo compito di sentire, se ci riesce, non all’intelletto.
Meglio dunque tacere: ad ognuno il suo universo, la traballante passerella da cui gettare uno sguardo nella voragine del buio.
Ad ognuno la sua parte, di apertura o di chiusura o di entrambe. Il peso dell’irrazionalità è un macigno che schiaccia, ma il peso di un senso che sfida ogni logica ed ogni spiegazione non è meno gravoso né meno difficile da sopportare: si è obbligati a costruire ed a ricostruire la vita, istante dopo istante, mentre il tempo e l’entropia la inceneriscono senza pietà.
La fatica di Sisifo è, al confronto, una rilassante passeggiata.
L'annosa contrapposizione tra ateismo e teismo sembra la solita riproposizione dell'esiziale dualismo occidentale se non fosse che, in questo caso particolare, ne va del senso ultimo della nostra esistenza, o così ci pare, ecco perchè le menti più sublimi dell'umanità si sono affannate nel tentativo di risolvere questo eterna dilemma. Ma siamo poi così sicuri di aver bisogno di un Creatore supremo per dare un senso alle nostre esistenze? A me pare piuttosto che l'affermazione dell'esistenza di Dio, lungi dall'essere la soluzione, sia invece il problema; infatti, una volta postulato il Suo essere, ci attende immediatamente il compito, anche più arduo, di spiegarci il male, il dolore, l'iniquità ecc.. - ciò accade perchè nel frattempo lo abbiamo antropomorfizzato come un buon padre di famiglia, giusto e anche perfetto. E' come se fossimo degli eterni bambini che, a causa di un non meglio identificato principio di autorità (di indubbia origine giudaica..), dobbiamo affermare l'esistenza di un grande Padre creatore e legislatore da adorare e rispettare. Perchè invece, più modestamente, non ci accontentiamo di sapere che esiste un continuum infinito di energia intelligente da cui scaturiscono le cose in maniera atemporale, amorale e probabimente anche illogica (poichè tutto parrebbe essere lecito nel multiverso, il nostro comportamento ci potrebbe far avanzare o regredire nella grande scala del Tutto - questa essendo probabilmente l'unica possibilità di scelta che ci è concessa). Tale ipotesi è troppo impersonale per dare sollievo alla nostra angoscia esistenziale? Bene, ma incolpare il nostro creatore o quello della materia - il demiurgo ribelle - non arreca beneficio ad alcuno ma solo risentimento, rabbia e disperazione. Se proprio ci teniamo al concetto di Dio, almeno si abbia il buon gusto di non separare in maniera netta l'essere dal divenire (Eraclito lo aveva capito) e di considerare che, forse, anch'Egli ha il legittimo desiderio di conoscere Se stesso.
RispondiEliminaVi seguo sempre nonostante la mia lunga assenza dalla sessione commenti.
Grazie e a presto
PS: Proclamare la morte di Dio è l'atto più puerile che si possa immaginare, parto di una mente vittima di un'educazione estremamente rigida e moralista, nonchè di dinamiche edipiche mai risolte.
E se il vero ed unico problema non fosse, come affermano certe correnti del Buddhismo Mahayana, l'esistenza o la non esistenza di Dio ma la palingenesi della coscienza fino alla sua trasformazione finale, definitiva, irreversibile?
RispondiEliminaRocco, la teologia da te illustrata si potrebbe definire debole e ricorda un po' quella elaborata da Fiorella Rustici in "E Dio creò la mente", un saggio in cui Dio viene de-antropomorfizzato e privato di tutte le connotazioni tipicamente ebraico-cristiane e tradizionali. Il tema è vitale, ma purtroppo questo periodo per me è campale e non ho il tempo di indugiare.
RispondiEliminaCiao e grazie.
Paolo, se Dio fosse Padre-Madre? Mistero sommo, indecifrabile.
RispondiEliminaCiao e grazie.
Ubi est?
RispondiEliminaA dire il vero la mia non era propriamente una velleità di elaborazione teologica, quanto semmai un tentativo di eliminazione del problema teologico in quanto tale (divino-diavolo pare derivino da una medesima radice sanscrita) con consequente dispersione dei soliti schieramenti e fazioni 'l'un contro l'altro armate'. In tal modo credo ci si possa focalizzare di più su tutto ciò che è, piuttosto che rifugiarsi in una facile, quanto inutile, ricerca del responsabile ultimo nel bene o nel male - che poi sarebbe comunque al di là del bene e del male. Ad ogni modo non ho ancora letto quel libro che già mi consigliasti tempo fa, lo farò appena possibile.
RispondiEliminaGrazie e buonanotte
Molti filosofi hanno cercato un responsabile, ora identificato nel Demiurgo, ora negli Arconti, ora nell'uomo, quando le colpe non sono state distribuite un po' tra tutti.
RispondiEliminaForse non è il modo di essere delle cose ad essere un errore, ma che esse siano. E' questo un pensiero estremo, ma a volte mi esprimo per paradossi ed oltranze.
Ciao e grazie.
Ciao Zret! Sono in Madagascar. I mendicanti pulciosi pullulano. Dubito, comunque, che un clochard semicongelato delle nostre contrade gliene darebbe di santa ragione a chi volesse parlargli di Dio. Qui i missionari, a cominciare da tre secoli fa, ci sono riusciti alla perfezione. Hanno parlato di Dio e, contemporaneamente, pagato gli astanti per essere ascoltati. La conseguenza è che la domenica le chiese sono traboccati: tutta vestita a festa la gioventù del loco si affolla a cantare a squarciagola piacevoli melodie. I mendicanti restano fuori, sul sagrato, in attesa dell'obolo e tutti sono felici. Solo il bianco, stupefatto, s'interroga sul perché delle cose e mette in fila, nella propria mente, i sensi di colpa.
RispondiEliminaL'elaborazione filosofica e religiosa è roba per stomaci pieni: per quelli vuoti, l'esistenza o meno di Dio, sembra non costituire materia d'indagine.
Ciao Freeanimals, che tristezza constatare come la credulità prevalga sulla spiritualità! Ecco, la credulità come obolo, come caparra di un Paradiso in cui forse non si entrerà mai.
RispondiEliminaGli stomaci vuoti ed i corpi sofferenti invocano una presenza che si sottrae con pertinacia persino irritante.
Chi sono gli atei? Gli avvocati di Dio.
Ciao e grazie.