Una conversazione, non un trattato teologico.
Tempo fa, discorrevo con un amico sul motivo che avrebbe spinto Dio a creare o ad emanare questo universo meravigliosamente sciancato. Alla fine ipotizzammo che fu il senso di solitudine. E’ ovvio che tale congettura prescinde da un ragionamento teologico rigoroso, poiché Dio, comprendendo tutto in sé, non dovrebbe essere afflitto dalla solitudine, ma, in fondo, in questa maniera lo si umanizza.
Così immaginiamo che, nel modo in cui uno scrittore costruisce i suoi personaggi per poi muoverli nel bosco della narrazione, così Dio ha creato il cosmo con i suoi abitanti, per sentirsi in compagnia. Come il narratore delinea figure ed inventa intrecci che, un po’ alla volta, prendono vita propria – si pensi al dramma “Sei personaggi in cerca d’autore” - in guisa analoga Dio ha dato vita ad esseri in carne ed ossa per animare uno spazio altrimenti vuoto.
E’ incredibile come una disciplina per molti versi arida e pedantesca, quale la narratologia (qui narrateologia), si riveli ricca di spunti non solo per interpretare testi non imperniati sul racconto, i sogni e la stessa vita, ma pure per bizzarre (forse non tanto) riflessioni sull'Eterno. Dio è una specie di narratore onnisciente: disegna i personaggi, ne sonda l’interiorità e sovente li giudica. Questo tipo di narratore fa e disfa, manipola la dimensione cronotopica, inventa e reinventa… Se non è soddisfatto del manoscritto, lo getta nel fuoco. Evidentemente, Dio, gratificato o no, dagli uomini da lui creati, ha deciso di tenerseli con i loro difetti, moltissimi, ed i loro pregi, pochi, nonostante qualche ripensamento. Forse distruggere il genere umano implica una mutilazione di Dio. Distruggerne per sempre anche uno solo che cosa comporterebbe? Foss’anche un essere infimo, detestabile?
Aristotele scrive che “solo gli animali e gli dei possono vivere in solitudine”: gli dei sì, ma forse ciò non vale per Dio. Certamente gli uomini, se escludiamo gli eremiti ed i saggi, non ci riescono: essi cercano gli altri, si circondano di conoscenti, di amici, dapprincipio per condividere con loro frammenti di vita, poi per tormentarli e tormentarsi in un crescendo che può tramutare l’amicizia e l’amore (ma esisteranno mai l’amicizia e l’amore?) in gelosia, risentimento, discordia. Non si comprende per quale motivo si tenti di rompere il cerchio dell’isolamento, se alla fine ci si accorge che si stava meglio, quando si stava peggio.
“L’inferno sono gli altri”, chiosa gelido, Sartre: gli altri, tante celle infernali in cui si aprono inattesi scorci verso il paradiso, qualche rarissima volta. Viceversa, che cosa ci induce ad amare di un affetto appassionato, sincero e nobilissimo, coloro con cui eravamo entrati tante volte in attrito, quando, però, è ormai tardi, troppo tardi? Siamo un groviglio inestricabile di contraddizioni.
Ci piaccia o no, siamo interdipendenti e stridenti, ma gli studiosi inclini a credere che antichi popoli fossero capaci di vivere in perfetta armonia, probabilmente idealizzano delle società mediterranee definite “gilaniche”. Pare che, come pensano Bachofen ed altri, le culture matriarcali fossero concordi e prospere, poi subentrarono gli Indoeuropei con i loro principi e la loro società tripartita in guerrieri, sacerdoti e lavoratori. La situazione mutò. E’ una ricostruzione di un lontano passato, una delle tante: non so quanto sia plausibile.
Alcuni autori addirittura suppongono che gli uomini migliaia di anni addietro potessero intercomunicare. Chi considera in modo obiettivo la storia, deve solo concludere che, accantonato il falso mito del progresso, l’umanità decadde (in modo improvviso?) da una condizione eccelsa fino a sdrucciolare nell’imbastardimento odierno. E’ uno fra gli insegnamenti della Philosophia perennis, quella che la rende invisa ad evoluzionisti vecchi e nuovi. Evidentemente intervenne un cambiamento ontologico o un errore di trascrizione, quasi in senso genetico, causò, di generazione in generazione, un progressivo deterioramento della specie Homo. Dunque non dovremmo stupirci se il mondo attuale è tanto corrotto ed iniquo, ma restare esterrefatti, quando incontriamo la rettitudine e la nobiltà d’animo. Allo stesso modo un fiore bellissimo può nascere in una discarica mefitica.
Le attuali generazioni sono l’ultimo stadio di un processo degenerativo: se ancora nascono bimbi, non è perché i genitori, tranne qualche eccezione, abbiano in mente un progetto di vita, ma poiché essi obbediscono ad un impulso o per mero conformismo (sposarsi e farsi una famiglia). Che poi alcuni genitori, responsabili-non responsabili, si pentano delle loro decisioni è macigno che ricade sui figli, pronti quasi sempre a ripetere errori tanto biasimati.
Questo istinto è l’estrema degradazione di un’inclinazione a (pro)creare che George Stirner, in un bellissimo saggio, “Grammatiche della creazione”, analizza intrecciando la trama estetica e l’ordito teologico.
Così Dio stesso crea non solo perché solo, ma soprattutto in quanto stimolato da un desiderio di estrinsecazione, il medesimo irrazionale desiderio che spinge l’artista a plasmare, scrivere, dipingere, lo stesso scienziato ad elaborare teorie ed ipotesi, persino l’adolescente a tracciare graffiti sui muri o sui banchi.
Anche quando l’artefice decide di distruggere la sua opera, ne resta qualche traccia, per lo meno, il ricordo. Ecco: questa è la dannazione, il ricordo, come rimpianto, rimorso, rammarico, abitudine a rivangare. Dobbiamo, invece, abituarci a diventare palinsesti, ad abradere il passato che, bello o brutto che sia, è un’ipoteca sul presente. Almeno, in questo modo, il passato, pur continuando ad esistere, non è più visibile. Meglio che niente.
Forse un giorno gli errori cosmici saranno riparati: il male allora non sarà giustificato, ma almeno chiarito e cancellato. La gomma in tasca.
Tempo fa, discorrevo con un amico sul motivo che avrebbe spinto Dio a creare o ad emanare questo universo meravigliosamente sciancato. Alla fine ipotizzammo che fu il senso di solitudine. E’ ovvio che tale congettura prescinde da un ragionamento teologico rigoroso, poiché Dio, comprendendo tutto in sé, non dovrebbe essere afflitto dalla solitudine, ma, in fondo, in questa maniera lo si umanizza.
Così immaginiamo che, nel modo in cui uno scrittore costruisce i suoi personaggi per poi muoverli nel bosco della narrazione, così Dio ha creato il cosmo con i suoi abitanti, per sentirsi in compagnia. Come il narratore delinea figure ed inventa intrecci che, un po’ alla volta, prendono vita propria – si pensi al dramma “Sei personaggi in cerca d’autore” - in guisa analoga Dio ha dato vita ad esseri in carne ed ossa per animare uno spazio altrimenti vuoto.
E’ incredibile come una disciplina per molti versi arida e pedantesca, quale la narratologia (qui narrateologia), si riveli ricca di spunti non solo per interpretare testi non imperniati sul racconto, i sogni e la stessa vita, ma pure per bizzarre (forse non tanto) riflessioni sull'Eterno. Dio è una specie di narratore onnisciente: disegna i personaggi, ne sonda l’interiorità e sovente li giudica. Questo tipo di narratore fa e disfa, manipola la dimensione cronotopica, inventa e reinventa… Se non è soddisfatto del manoscritto, lo getta nel fuoco. Evidentemente, Dio, gratificato o no, dagli uomini da lui creati, ha deciso di tenerseli con i loro difetti, moltissimi, ed i loro pregi, pochi, nonostante qualche ripensamento. Forse distruggere il genere umano implica una mutilazione di Dio. Distruggerne per sempre anche uno solo che cosa comporterebbe? Foss’anche un essere infimo, detestabile?
Aristotele scrive che “solo gli animali e gli dei possono vivere in solitudine”: gli dei sì, ma forse ciò non vale per Dio. Certamente gli uomini, se escludiamo gli eremiti ed i saggi, non ci riescono: essi cercano gli altri, si circondano di conoscenti, di amici, dapprincipio per condividere con loro frammenti di vita, poi per tormentarli e tormentarsi in un crescendo che può tramutare l’amicizia e l’amore (ma esisteranno mai l’amicizia e l’amore?) in gelosia, risentimento, discordia. Non si comprende per quale motivo si tenti di rompere il cerchio dell’isolamento, se alla fine ci si accorge che si stava meglio, quando si stava peggio.
“L’inferno sono gli altri”, chiosa gelido, Sartre: gli altri, tante celle infernali in cui si aprono inattesi scorci verso il paradiso, qualche rarissima volta. Viceversa, che cosa ci induce ad amare di un affetto appassionato, sincero e nobilissimo, coloro con cui eravamo entrati tante volte in attrito, quando, però, è ormai tardi, troppo tardi? Siamo un groviglio inestricabile di contraddizioni.
Ci piaccia o no, siamo interdipendenti e stridenti, ma gli studiosi inclini a credere che antichi popoli fossero capaci di vivere in perfetta armonia, probabilmente idealizzano delle società mediterranee definite “gilaniche”. Pare che, come pensano Bachofen ed altri, le culture matriarcali fossero concordi e prospere, poi subentrarono gli Indoeuropei con i loro principi e la loro società tripartita in guerrieri, sacerdoti e lavoratori. La situazione mutò. E’ una ricostruzione di un lontano passato, una delle tante: non so quanto sia plausibile.
Alcuni autori addirittura suppongono che gli uomini migliaia di anni addietro potessero intercomunicare. Chi considera in modo obiettivo la storia, deve solo concludere che, accantonato il falso mito del progresso, l’umanità decadde (in modo improvviso?) da una condizione eccelsa fino a sdrucciolare nell’imbastardimento odierno. E’ uno fra gli insegnamenti della Philosophia perennis, quella che la rende invisa ad evoluzionisti vecchi e nuovi. Evidentemente intervenne un cambiamento ontologico o un errore di trascrizione, quasi in senso genetico, causò, di generazione in generazione, un progressivo deterioramento della specie Homo. Dunque non dovremmo stupirci se il mondo attuale è tanto corrotto ed iniquo, ma restare esterrefatti, quando incontriamo la rettitudine e la nobiltà d’animo. Allo stesso modo un fiore bellissimo può nascere in una discarica mefitica.
Le attuali generazioni sono l’ultimo stadio di un processo degenerativo: se ancora nascono bimbi, non è perché i genitori, tranne qualche eccezione, abbiano in mente un progetto di vita, ma poiché essi obbediscono ad un impulso o per mero conformismo (sposarsi e farsi una famiglia). Che poi alcuni genitori, responsabili-non responsabili, si pentano delle loro decisioni è macigno che ricade sui figli, pronti quasi sempre a ripetere errori tanto biasimati.
Questo istinto è l’estrema degradazione di un’inclinazione a (pro)creare che George Stirner, in un bellissimo saggio, “Grammatiche della creazione”, analizza intrecciando la trama estetica e l’ordito teologico.
Così Dio stesso crea non solo perché solo, ma soprattutto in quanto stimolato da un desiderio di estrinsecazione, il medesimo irrazionale desiderio che spinge l’artista a plasmare, scrivere, dipingere, lo stesso scienziato ad elaborare teorie ed ipotesi, persino l’adolescente a tracciare graffiti sui muri o sui banchi.
Anche quando l’artefice decide di distruggere la sua opera, ne resta qualche traccia, per lo meno, il ricordo. Ecco: questa è la dannazione, il ricordo, come rimpianto, rimorso, rammarico, abitudine a rivangare. Dobbiamo, invece, abituarci a diventare palinsesti, ad abradere il passato che, bello o brutto che sia, è un’ipoteca sul presente. Almeno, in questo modo, il passato, pur continuando ad esistere, non è più visibile. Meglio che niente.
Forse un giorno gli errori cosmici saranno riparati: il male allora non sarà giustificato, ma almeno chiarito e cancellato. La gomma in tasca.
E' triste leggere questo.
RispondiEliminaMolte cose evidentemente non vanno.
Io quando rientro a casa trovo una moglie adorabile che amo, due genitori che fanno invidia agli angeli.
Quel che facciamo nel nostro piccolo è diffondere Luce e Amore.
Ciao Iniziato, testo dolente, ma non disperato, evoca una lotta cosmica tra forze contrapposte, una lotta dovuta ad un errore primigenio, che sarà riparato solo quando le tenebre saranno dissipate e dimenticate.
RispondiEliminaA volte mi chiedo se la felicità della minoranza non sia un'usurpazione di fronte agli immani patimenti delle legioni di derelitti.
Donare luce è il dono degli Spirituali.
Ciao e grazie.
Vale più una scintilla di luce che un oceano di tenebre.
RispondiEliminaZret, trovo particolarmente pregnante quando scrivi:"Le attuali generazioni sono l’ultimo stadio di un processo degenerativo: se ancora nascono bimbi, non è perché i genitori, tranne qualche eccezione, abbiano in mente un progetto di vita, ma poiché essi obbediscono ad un impulso o per mero conformismo (sposarsi e farsi una famiglia). Che poi alcuni genitori, responsabili-non responsabili, si pentano delle loro decisioni è macigno che ricade sui figli, pronti quasi sempre a ripetere errori tanto biasimati."
RispondiEliminaVerità, a mio modesto avviso , quest'ultima, profondamente risonante.
Ancora una cosa che sento molto e sottoscrivo:
Donare luce è il dono degli Spirituali.
Ciao.
Ciao Andrea, hai distillato il succo della riflessione. A proposito di figli, mi viene in mente una frase di Gibran con cui egli sottolinea l'importanza di dare loro spazio: "I vostri figli non sono vostri figli".
RispondiEliminaIn latino figli si dice "liberi". Che lo siano.
Ciao e grazie.