I nostri tempi manifestano un’attrazione patologica per il brutto. Il brutto è in primo luogo nell’invasione di una tecnologia ipertrofica che ha eclissato il naturale. Non chiediamoci per quale motivo la massa resti insensibile allo stupro dei paesaggi, degli orizzonti che, prima di essere ambienti, sono gli spazi interiori dove generazioni di artisti hanno effuso la loro anima ed attinto immagini, sensazioni e corrispondenze ispiratrici dei loro capolavori.
La tecnologia oggi, da mero strumento, è assurta ad idolo da venerare: nel momento in cui ce ne serviamo, la serviamo. Vale pur sempre il motto “habere, non haberi”, ma il confine è sfumato sicché è facile diventarne schiavi. A questo si aggiunga che l’uomo non è più tale, ma utente, dunque un’interfaccia semitecnologica di un apparato. Siamo ormai prossimi alla “simbiosi” tra umano e tecnico, ad un crossover biotecnologico, dove la vita è residuale, una tetra larva. Di fronte alla comodità, all’efficienza ed alla velocità, miti invertiti del mondo contemporaneo tesi alla disgregazione dell’essere, spirano pochi aneliti verso la bellezza. E’ bello ciò che è inutile, che non è mercificabile: una nuvola arrotolata nelle volute, un foglio in balia del vento, l’eco di un’emozione, una lirica …
Il tempo, secondo i canoni correnti, va usato in modo produttivo, occupato, ma il tempo che rende è quello sciolto nei silenzi, in impenetrabili meditazioni. L’otium è il tempo ed il tempio dell'interiorità.
“Che cosa hai concluso in tutte queste ore?” “Niente”, dovrebbe essere la nostra risposta: il nulla è la dimensione in cui il pensiero può spaziare, senza vincoli, a somiglianza di un aquilone di cui non teniamo più il filo.
Il brutto si concreta nell’algida bellezza del cellulare iperfunzionale, nell’ultimo modello di automobile superaccessoriata, nel libro elettronico: linee asettiche, forme sintetiche, colori anemotivi. Il brutto è nelle quinte televisive e cinematografiche dove sono proiettate senza tregua le immagini di un mondo tanto più osceno, quanto più percepito come normale. Il brutto è nella scrittura odierna incacrenita in frasi fatte ed in locuzioni scialbe.
E’ grave che la bruttezza dilaghi; di più che essa sia celebrata. La bruttezza è la volgarità della vita piccolo-borghese in cui la gente ama immergersi, un’esistenza segata tra lavoro e tempo “libero”, con il tempo “libero” tiranneggiato da divertimenti obbligatori.
Ridotto a farsa il dramma, ignorata la crepa nel cielo ed il piombo sul cuore, si è pronti per lasciarsi avvolgere, come spiumati polli di batteria, nella pellicola di cellophane della solita pellicola…, ma srotolata dal televisore al plasma.
L’orrido è l’oblio della Tradizione prisca, con il suo soffio fecondo, la sua anima, la coscienza tragica e sublime del Destino. L’orrido si è acquartierato nella nostra epoca con la scienza raziocinante che ha escluso lo slancio e l’immaginazione. L’orrido è credere che l’inferno sia il paradiso e trovarvisi a proprio agio.
Vale più un istante di un secolo, se quell’istante è pregno di senso, ma il mondo preferisce allungare il tempo dell’esistenza che conferire intensità (sia pure l’intensità della disperazione che ci apre sotto i piedi la voragine della morte) agli attimi, alle ore, ai giorni.
La salvezza, se mai si prospetta una salvezza, è affidata alle anacronistiche, eppur ostinate sopravvivenze di un’età senza età, nel rifiuto a conformarsi all’”estetica” dominante: un grande rifiuto di fronte ad una realtà piccola, meschina.
Un caro saluto all’amico Giovanni le cui riflessioni hanno consentito di dar voce ad un pensiero che si era come ingorgato.
La tecnologia oggi, da mero strumento, è assurta ad idolo da venerare: nel momento in cui ce ne serviamo, la serviamo. Vale pur sempre il motto “habere, non haberi”, ma il confine è sfumato sicché è facile diventarne schiavi. A questo si aggiunga che l’uomo non è più tale, ma utente, dunque un’interfaccia semitecnologica di un apparato. Siamo ormai prossimi alla “simbiosi” tra umano e tecnico, ad un crossover biotecnologico, dove la vita è residuale, una tetra larva. Di fronte alla comodità, all’efficienza ed alla velocità, miti invertiti del mondo contemporaneo tesi alla disgregazione dell’essere, spirano pochi aneliti verso la bellezza. E’ bello ciò che è inutile, che non è mercificabile: una nuvola arrotolata nelle volute, un foglio in balia del vento, l’eco di un’emozione, una lirica …
Il tempo, secondo i canoni correnti, va usato in modo produttivo, occupato, ma il tempo che rende è quello sciolto nei silenzi, in impenetrabili meditazioni. L’otium è il tempo ed il tempio dell'interiorità.
“Che cosa hai concluso in tutte queste ore?” “Niente”, dovrebbe essere la nostra risposta: il nulla è la dimensione in cui il pensiero può spaziare, senza vincoli, a somiglianza di un aquilone di cui non teniamo più il filo.
Il brutto si concreta nell’algida bellezza del cellulare iperfunzionale, nell’ultimo modello di automobile superaccessoriata, nel libro elettronico: linee asettiche, forme sintetiche, colori anemotivi. Il brutto è nelle quinte televisive e cinematografiche dove sono proiettate senza tregua le immagini di un mondo tanto più osceno, quanto più percepito come normale. Il brutto è nella scrittura odierna incacrenita in frasi fatte ed in locuzioni scialbe.
E’ grave che la bruttezza dilaghi; di più che essa sia celebrata. La bruttezza è la volgarità della vita piccolo-borghese in cui la gente ama immergersi, un’esistenza segata tra lavoro e tempo “libero”, con il tempo “libero” tiranneggiato da divertimenti obbligatori.
Ridotto a farsa il dramma, ignorata la crepa nel cielo ed il piombo sul cuore, si è pronti per lasciarsi avvolgere, come spiumati polli di batteria, nella pellicola di cellophane della solita pellicola…, ma srotolata dal televisore al plasma.
L’orrido è l’oblio della Tradizione prisca, con il suo soffio fecondo, la sua anima, la coscienza tragica e sublime del Destino. L’orrido si è acquartierato nella nostra epoca con la scienza raziocinante che ha escluso lo slancio e l’immaginazione. L’orrido è credere che l’inferno sia il paradiso e trovarvisi a proprio agio.
Vale più un istante di un secolo, se quell’istante è pregno di senso, ma il mondo preferisce allungare il tempo dell’esistenza che conferire intensità (sia pure l’intensità della disperazione che ci apre sotto i piedi la voragine della morte) agli attimi, alle ore, ai giorni.
La salvezza, se mai si prospetta una salvezza, è affidata alle anacronistiche, eppur ostinate sopravvivenze di un’età senza età, nel rifiuto a conformarsi all’”estetica” dominante: un grande rifiuto di fronte ad una realtà piccola, meschina.
Un caro saluto all’amico Giovanni le cui riflessioni hanno consentito di dar voce ad un pensiero che si era come ingorgato.