30 aprile, 2012

Il colore dei suoni

Fu Agostino ad introdurre la lettura silenziosa: tale novità fu non meno radicale dell’invenzione della scrittura, attribuita al dio egizio Thot e deplorata da Platone. Se, da un lato, la lettura acquisì una dimensione introspettiva e personale, dall’altro si smarrì il suono della voce propria o altrui – gli antichi solevano ascoltare, traendone diletto, durante i simposi ed in altre occasioni, dalla viva voce dell’anagnostes passi di opere.

Con un enorme sforzo di immaginazione, riusciamo a figurarci il mégaron del palazzo miceneo, dove al chiarore caldo del focolare, gli astanti si beavano delle saghe declamate da un rapsodo.

Si può immaginare quale fu la perdita: il timbro di una voce si imprime nell’animo, simile ad un calamo con cui si incide la cera. Il suono è già, almeno in parte, senso.

Siamo immersi in un mondo di vibrazioni: il celebre incipit del Quarto vangelo, “In principio era il Logos,” potrebbe valere “In principio era il suono”. Gli stessi rumori sono scanditi da ritmi o venati talora da labili linee melodiche. I suoni della natura creano una sinfonia mirabile, non solo per varietà di toni, di accenti e di modulazioni, ma anche per la profondità degli echi emotivi che essi suscitano.

Si legga un testo ad alta voce o lo si ascolti, mentre qualcun altro lo legge: più facilmente resterà impresso. Se ci si riferisce ad una memoria visiva, esiste pure una reminiscenza fonica.

Fu merito dei poeti simbolisti - in Italia spicca l’esperienza di Pascoli - rivendicare l’autonomia del significante, rispetto al significato. Il suono, essenza e riflesso delle cose, fu valorizzato nella sua potenza espressiva: quando si compenetra al concetto, in una sintesi inscindibile ed armonica, rivela la sua natura primigenia.

E’ palese che la nostra società ha i sensi ottusi: incapace di ascoltare ed auscultare, ci si limita ad udire distrattamente. I suoni sono privi di colore, di sfumature: tutto è livellato nel grigio più tetro o scavato nel frastuono. Le necessità comunicative mantengono in vita le voci, con qualche rimasuglio di inflessione, ma già nelle stazioni e negli aeroporti impera una rigida voce digitale. Anonima e fredda si staglia su un panorama piatto.

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26 aprile, 2012

Auto da fé

Attraverso tre pori passa il soffio di Dio: la scienza teorica, pura; la bellezza nel’arte; la sventura. (S. Weil)

Attraverso la bifora gotica, il filosofo guardava la piazza gremita di bottegai, di donne, di vivaci garzoni. Lo stridio dei carriaggi, gli schiamazzi arrivavano lassù attutiti dalla distanza: la sua camera, che l'augusto ospite gli aveva messo a disposizione, era in una torre del palazzo reale, Quanto basta lontano e, al tempo stesso, non molto discosta dal mondo, la posizione di quella dimora rispecchiava la sua vicinanza all’umanità, ma pure il distacco dal mondo che il sapiente persegue.

Sprofondato nei suoi abissali pensieri, il tempo era trascorso ed ora il crepuscolo seminava le ombre intrecciate all’argentea capellatura della luna. Il saggio adesso vedeva, con l’occhio interiore, dispiegarsi in un solo punto, il passato, il presente ed il futuro: l’infanzia gli apparve in un panorama di falesie spruzzate dai flutti del mare color del vino, il presente era un solco nel silenzio e l’avvenire una fila di picche su cui sfavillavano briciole di astri. Le picche si tramutavano in fiamme che incendiavano il telo della notte. Gli parve che il buio palpitasse di fiocchi cinerei… Una ragnatela di suoni sommessi vibrava nel cuore della notte, mentre il saggio si abbandonava alla corrente misteriosa della vita.

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22 aprile, 2012

Lunatic moon

Vorrei valorizzare e ripristinare il semplice gesto di guardare in alto. (J. Hillmann)

Nel racconto intitolato “L’incantesimo della natura”, Dino Buzzati narra di Adolfo Lo Ritto, pittore e decoratore, il cui menage con la moglie Renata, molto più giovane di lui, è rovinato da continue liti ed incomprensioni. Una sera la donna rincasa tardi, dopo aver trascorso – a suo dire – la serata al cinematografo con un’amica. L’uomo, però, pensa che la consorte lo tradisca e la provoca: ella reagisce con volgari insulti. Quindi, per troncare l’alterco, va alla finestra e si affaccia al davanzale…

All’improvviso, sgomenta chiama Alfonso esortandolo a guardare: “Era la Luna, ma non la placida abitatrice delle notti, propizia agli incantesimi d’amore, discreta amica al cui lume favoloso le catapecchie diventano castelli, bensì uno smisurato mostro butterato di voragini. Per un ignoto cataclisma siderale, essa era paurosamente ingantita ed ora, silente, incombeva sul mondo, spandendovi un’immota ed allucinante luce, simile a quella dei bengala.”

Di fronte allo spaventevole spettacolo, mentre si odono schianti di imposte aperte e sbattute, richiami, urla d’orrore, Renata, stringendosi ad Adolfo, lo prega di perdonarla per la sua freddezza. Infine un infernale boato echeggia dalle viscere del mondo… [1]

La potente fantasia di Buzzati ci proietta in uno scenario forse non così implausibile: la Luna potrebbe deviare dalla sua orbita per accostarsi alla Terra o per allontanarsene. Di recente sono state osservate delle anomalie riguardanti Selene: stando ad osservazioni di astrofili, il “nostro” satellite avrebbe subito una rotazione di circa 20 gradi per disvelare parte del suo volto tenebroso. Fu nel gennaio del 2001 che si principiò a notare qualche stranezza: oltre alla rotazione, uno schiacciamento dei poli in concomitanza con un ulteriore indebolimento del campo magnetico terrestre, attenuazione che data dal I sec. d. C.. La N.A.S.A. stessa, quasi sempre incline a censurare ed a disinformare, ha comunicato che le dimensioni del disco lunare si sono accresciute. È’ dovuto ad un avvicinamento? [2]

Il fenomeno si nota soprattutto quando il corpo celeste si trova all’orizzonte: allora appare grosso modo più grande rispetto al normale del 14 per cento nonché più luminoso.

E’ facile intuire quali conseguenze potrebbe determinare una Super Moon: maree, terremoti, crescita delle piante, comportamento di uomini ed animali etc. dipendono dagli influssi del satellite e ci limitiamo alla Selene visibile… La coppia Terra-Luna può essere reputata come un microsistema planetario, viste la notevole mole del satellite che, per una serie di incredibili coincidenze, ruota attorno a Gaia in modo da mostrare sempre lo stesso lato.

Non è l’unico mistero che avvolge la Luna: satellite naturale o, come si azzarda, artificiale, una specie di Morte Nera, come nella saga fantascientifica “Star wars”? Landa disabitata o avamposto di civiltà esterne? Corpo “reale” o proiezione olografica, come sostiene qualcuno? Che cosa si cela poi sulla dark side? [3]

Non sappiamo se, per eventi siderei inattesi, la Luna stia mutando la sua posizione nel firmamento o se, in questo gioco di specchi che è l’universo, stiamo guardando riflessi di riflessi ed ombre di ombre. Resta un dato di fatto: qualcosa nel cosmo, in questo annus fatidicus, appare cambiato e forse tali cambiamenti, che non riguardano solo la Luna né solo i fenomeni, sono il preludio di una più profonda trasformazione.

La breve storia di Buzzati, oltre ad essere un mirabile saggio di bravura nel sapiente spartito narrativo e per l’incantato realismo, è un implicito monito a non indulgere alle ingombranti quisquilie della vita quotidiana, uno sprone a guardare oltre. Sempre.

[1] Il testo appartiene alla raccolta “Sessanta racconti”.

[2] Nella serie televisiva di fantascienza “Spazio 1999”, ideata nel 1973 da Gerry e Sylvia Anderson, si immagina che un’esplosione nucleare sbalza la Luna dalla sua orbita. La finzione talvolta si intreccia alla realtà.

[3] Alcuni ricercatori pensano che anche Phobos, uno dei due satelliti di Marte, sia artificiale… un’ipotesi lambiccata?

Articolo correlato: Freeskies, Rotazioni lunari, 2012

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19 aprile, 2012

La coscienza del cambiamento

Non si può dubitare che la visione dela storia attuale è dominata da un profondo senso delle catastrofi passate e di quelle a venire. E’ arduo per noi persino misurare l’entità dello sconquasso che frusta questi tempi conclusivi: non si tratta, infatti, di una “normale” impasse socio-politica o di un errore riparabile in qualche modo, ma del crollo di un mondo intero, previsto e persino preannunciato, ma non per questo meno traumatico, e della transizione dalla già degenerata età del ferro ad un’era psico-elettro-chimica.

Ciò che ci resta conficcato nella retina, con buona pace degli scienziati e dei filosofi olografici, è una gragnuola di schegge in cui deflagra la coscienza della crisi, del disfacimento di un’intera realtà. Tuttavia il senso tragico del momento storico è stemperato dal distacco e dall’ironia con cui si decantano anche le esperienze più torbide, con i quali si attutiscono anche i clamori più rintronanti.

Iattura suprema e supremo vantaggio essere incastrati in un’epoca a cavallo non tra due civiltà, ma tra la barbarie e – forse - il risorgimento.

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15 aprile, 2012

Ipnagogia

Esiste un momento in cui l’alacre, tenace tarlo del tempo si arresta, dove la periferia del senso diventa centro e l’esilio nelle lande della solitudine si riempie di echi inauditi, di voci senza suono.

Qui la scansione rigida, sterile degli eventi si dissolve, mentre la risacca della memoria, invece di abbandonare sulla battigia i relitti del passato, adagia incantevoli sogni futuri.

Qui persino la parola che, invano abbiamo tentato di snidare dal grumo delll’inespresso, si offre intatta, sorgiva nella sua luce purissima.

Qui inattese giungono le ispirazioni e le rivelazioni di mondi, di universi abissali. E’ solo un momento, anzi un punto senza dimensione, ma è proprio ciò che non ha dimensione né sostanza a valicare l’angusta esistenza per sfiorare l’infinito.

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12 aprile, 2012

Bestiario

Il golpe della golpe...

E’ sempre di rovente attualità “Il principe” di Niccolò Machiavelli. In particolare il capitolo XVIII contiene una descrizione icastica dei governanti. Tralasciando le secolari polemiche sul machiavellismo e sulla scissione tra politica (la raison d’état) e morale, è indubbio che, mutatis mutandis, l’analisi del "segretario fiorentino" offre una potente chiave di lettura della storia recente e della contemporaneità. Si devono, però, prima mettere in luce alcuni limiti del suo pensiero.

Egli scrive: “Dovete adunque sapere come sono dua generazione di combattere: l’uno con le leggi, l’altro, con la forza: quel primo è proprio dello uomo, quel secondo delle bestie: ma perché el primo molte volte non basta, conviene ricorrere al secondo”.[1] La dicotomia tra leggi e forza è, in verità, apparente, giacché lo stato esprime la coercizione attraverso le norme, spesso molto più ostiche della violenza relegata ai casi estremi di ribellione. Inoltre l’autore non considera tra i pilastri del principato la fiscalità, laddove gli stati moderni nacquero come compagini che via via assunsero il monopolio della violenza (esercito), della “giustizia” e del sistema tributario. Senza le risorse provenienti dai tributi estorti ai sudditi (che li si definisca “cittadini” appartiene all’ipocrisia del lessico eufemistico), lo stato non può reggersi né consolidare il suo detestabile dominio. Le milizie, che siano eserciti cittadini o truppe mercenarie, costano ed il patrimonio del principe non è sufficiente né per le campagne militari né per le numerose esigenze amministrative.

Accennate queste carenze interpretative, segno di un realismo che è innestato sull’astrazione e sulla nobile ma per lo più teorica ripresa dei classici (Tito Livio in primo luogo), si deve riconoscere che i “politici” attuali incarnano le bestiali qualità additate da Machiavelli: sono infatti feroci come leoni e soprattutto astuti come volpi.

Sendo adunque uno principe necessitato sapere bene usare la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe et il lione; perché il lione non si defende da’ lacci, la golpe non si defende da’ lupi. Bisogna adunque essere golpe a conoscere e’ lacci, e lione a sbigottire e’ lupi. Coloro che stanno semplicemente in sul lione, non se ne intendano. Non può per tanto uno signore prudente né debbe, osservare la fede, quando tale osservanzia li torni contro e che sono spente le cagioni che la feciono promettere. E, se li uomini fussino tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono; ma, perché sono tristi e non la osservarebbano a te, tu etiam non l’hai ad osservare a loro. Né mai a uno principe mancarono cagioni legittime di colorire la inosservanzia”.

La lezione dello scrittore è stata appresa a menadito: la genia dei politici pullula di figuri spregiudicati, doppi, bugiardi, spergiuri, fedifraghi, dietro tuttavia una patinata parvenza di onorabilità e di rettitudine (si pensi a Napo), poiché: “a uno principe non è necessario avere tutte le soprascritte qualità, ma è bene necessario parere di averle”.

Simulatori e dissimulatori, i governanti sanno come circuire il popolo, ora blandito ora minacciato. Infatti: “Ognuno vede quello che tu pari, pochi sentono quello che tu se’; e quelli pochi non ardiscano opporsi alla opinione di molti, […] perché el vulgo ne va preso con quello che pare e con lo evento della cosa; e nel mondo non è se non vulgo”. Se le classi dirigenti possono non solo agire per crearsi spudorati privilegi ed immunità, ma addirittura per danneggiare la popolazione, senza mai incorrere nei rigori della “legge”, anzi atteggiandosi a paladini della giustizia e della democrazia, ciò avviene per l’infinita stoltezza della massa. Ha ragione Machiavelli ad asserire sdegnoso che “nel mondo non è se non vulgo”: è un volgo che merita di essere abbindolato ed oppresso per la sua inerzia, il servilismo, la stolidità, il fanatismo, la rozzezza.

Dunque non sorprendiamoci, da smaliziati osservatori quali siamo, se, volendo dare un’occhiata a recenti fatti di casa nostra, gli elettori ed i militanti del Carroccio sono stati gabbati da una nomenklatura di partito ingorda di denaro e priva di scrupoli, per giunta scaltra (golpe), se confrontata con la dappocaggine del “popolo leghista”. E’ proprio questo “popolo leghista” che sarà presto turlupinato da Bobo o chi per lui, comunque da qualche lestofante che, promettendo pulizia e correttezza, rinnoverà un sistema imperniato sulla corruzione, il ladrocinio e l’ingiustizia, fino a quando una ventata di falsa moralizzazione spazzerà via i quaquaraqua.

Eppure la vomitevole “politica” di oggi (che è invero solo una quinta di teatro, dietro la quale operano criminali burattinai) sorprenderebbe lo stesso disincantato Machiavelli che, se scrivesse oggi il “De principatibus”, completerebbe il suo bestiario, affiancando al “lione”, l’irruente e sguaiato Bossi, ed alla “golpe”, il gesuitico, pericoloso e mellifluo Bobo, una trota, anzi… il Trota.


[1] Si osservi di passaggio come il ragionamento del Machiavelli si sviluppi in maniera ramificata, con opposizioni dialettiche da cui si producono altre antitesi, a creare, per così dire, una struttura frattalica. Il dualismo nelle argomentazioni è insieme forza e debolezza di un pensiero che, operata una netta e quadrata contrapposizione concettuale, fatica a cogliere le sfumature ed i traits d’union.

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10 aprile, 2012

In edicola il nuovo numero di X Times

E' in edicola il nuovo numero di "X Times", la rivista diretta da Lavinia Pallotta e da Pino Morelli. Il numero di aprile ospita un'avventura di Adam Mack, dovuta alla fantasia di Giuseppe Di Bernardo, l'ideatore di The secret. Leggi qui l'editoriale della direttrice.

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07 aprile, 2012

I visitatori di Fazio Cardano

Gerolamo Cardano, scienziato, medico, filosofo ed occultista (1501-1576) è noto per i suoi studi matematici e per aver inventato un particolare tipo di giunto meccanico deformabile, il giunto cardanico. Nel 1545 pubblicò l’Ars magna, opera in cui compare per la prima volta la formula di risoluzione delle equazioni cubiche. Lo scienziato partenopeo racconta nel De vita propria un singolare aneddoto riguardante il genitore, Fazio.

"13 agosto 1491. Quando ebbi terminato i riti abituali, all'incirca alla ventesima ora del giorno, esattamente sette uomini mi apparvero, vestiti di abiti serici, che somigliavano alle toghe dei greci e che portavano anche dei calzari splendenti. Le vesti che indossavano sotto il pettorale brillante e rosso sembravano tessute di scarlatto ed erano di straordinaria bellezza. Tuttavia non erano vestiti tutti in tal guisa, ma solo due, che sembravano appartenere a un rango più nobile degli altri. Il più alto, dal colorito rubicondo, era accompagnato da due compagni, ed il secondo, dall’incarnato più chiaro e più piccolo di statura, da tre compagni. Così in tutto erano sette".

Fazio Cardano precisava che i visitatori potevano avere tra i trenta ed i quarant’anni anni, "portati bene". Quando chiese loro chi fossero, essi risposero d'essere uomini fatti d'aria e soggetti alla nascita e alla morte. "Comunque, la loro vita era più lunga della nostra e potevano campare sino a trecento anni. Interrogati sull'immortalità della nostra anima, affermarono che nulla sopravvive dell'individuo, che sia personale. Quando mio padre domandò perché non avessero rivelato agli uomini i luoghi ove si trovavano i tesori, risposero che ciò era loro vietato in virtù di una legge speciale che condannava alle più pesanti ammende colui che avesse comunicato quelle informazioni agli uomini". Prosegue Cardano: "Essi restarono con mio padre per più di tre ore, ma quando egli pose la questione intorno alla causa dell'universo, non si trovarono d'accordo. Il più alto rifiutava di ammettere che Dio avesse creato il mondo eterno. Al contrario, l'altro soggiunse che Dio l’avesse creato a poco a poco, di modo che, se avesse smesso di farlo, fosse che anche per un solo attimo, il cosmo sarebbe perito. Che sia realtà o fola, questo è quanto."

Jacques Bergier osserva che “i visitatori di Fazio Cardano sembrano essere stati gli ultimi di una serie di ospiti susseguitisi in tutto il Medioevo. Avevano di particolare che si poteva comunicare con loro, non pretendevano in nessun modo di essere accolti come angeli e non erano latori di alcuna rivelazione; al contrario, il loro atteggiamento partecipa piuttosto del nostro razionalismo contemporaneo. I visitatori di Fazio Cardano negavano l’esistenza di un’anima immortale e sostenevano una sorta di teoria della creazione continua dell’universo”.

Come il co-autore del celebre e diseguale saggio “Il mattino dei maghi”, possiamo soltanto formulare congetture circa la l’origine delle creature con cui Fazio Cardano ebbe un incontro ravvicinato. Furono “turisti” interplanetari o esseri provenienti da una dimensione parallela? Gli abiti di seta (tute?) ed i calzari rutilanti ricordano l’abbigliamento di presunti cosmonauti di cui pullulano i libri di Ufologia e che affollano le testimonianze di molti contattisti. Cardano, tipico rappresentante di un’età, il Rinascimento, il cui levigato classicismo è percorso da venature magico-esoteriche, riporta l’episodio con l’oggettività della quale difettano alcuni ricercatori d’oggi.

Lo scienziato napoletano, tra l’altro, come parecchi intellettuali a lui coevi, non si peritò di disquisire sulla natura di creature soprannaturali: a questo proposito scrisse: “Come l’intelligenza di un uomo è superiore a quella di un cane, così quella di un demone (si intenda un intermediario tra gli uomini e Dio, non un diavolo, n.d.r.) è superiore a quella di un uomo".

Di solito nell’antichità e nel Medioevo codesti enigmatici visitatori presentano tre caratteristiche, ricordate da teologi e cabalisti: il volto doppio, un abito di luce, il nimbo che circonfonde il capo. Alcuni studiosi attuali inscrivono tali tratti nella “mitologia” contemporanea, vedendo nel volto doppio uno scafandro, nella veste luminosa una tuta corrusca, nell’aura un campo di forze che produce un’energia radiante, ma queste potrebbero essere interpretazioni condizionate da abitudini e concetti propri della nostra era tecnologica, laddove, ad esempio, la luce potrebbe essere la manifestazione di uno stato spirituale.

Sia come sia, i parametri per definire entità preternaturali, per distinguere esseri extra-dimensionali (malevoli o evoluti) da supposti ufonauti hanno contorni molto sfumati. Scorgere in ogni dove tracce di tecnologia spaziale è probabilmente errato quanto evocare sempre contatti con dimensioni tangenti il mondo fisico in cui siamo assediati.

Fonti:

J. Bergier, Les extra-terrestres dans l’histoire, Paris, 1975, pp. 98-99
Enciclopedia delle scienze, Milano, 2005, s.v. Cardano
A. Lissoni, Gli alieni di Gerolamo Cardano


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05 aprile, 2012

Idiot ça va

Fra le innumerevoli (e giustificate) riprensioni che ha ricevuto Matto Morti, una si è appuntata sul suo idioletto. Si è, infatti, biasimato che colui abusi di termini inglesi per darsi un contegno e per ostentare la (presunta) conoscenza della lingua nata nella perfida Albione. Ecco allora termini come governance, spending review, road map, spread ed abomini consimili. Invero, la favella barbara di Morti rispecchia una tendenza che pare irreversibile. La “lingua del sì” è sia imbastardita da un turpe connubio con l’inglese più triviale sia depauperata per opera di scombiccheracarte che, per incompetenza ed a causa di detestabili vezzi, hanno deturpato un idioma destinato, più che ad estinguersi, a diventare un ibrido.

Così, mentre scrittori di vaglia sono trascurati, imperversano mestieranti che ignorano sia il buon uso del lessico sia la morfo-sintassi: invano si combatte la crociata per preservare il congiuntivo, quando uno come Corrado Augias lo impiega, quando è necessario l’indicativo! Invano, se maitres à penser e docenti universitari ormai conoscono solo la dicitura “nel senso che”. E’ inutile rammentare che ad ogni vocabolo, collocato in un contesto, corrispondono sinapsi ed idee: il sistema giustappunto aborre le idee, chi è ancora in grado di pensare.

Non sorprenda dunque che l’avanguardia dei devastatori coincida con il Ministero della pubblica distruzione, specie con le prove dell’INVALSI, la nefanda iniziativa che disavvezza, con il suo schematismo, gli studenti (?) a ragionare, a riflettere, a comporre, ad intuire. Basate su quesiti a risposta multipla, prescindono dalla sfumatura, dalla valorizzazione dello stesso errore: tutto è incasellato e mortificato. Né si può ritenere che un tale “criterio di valutazione” possa essere idoneo a discipline scientifiche che, se tali sono, si radicano e crescono su un humus critico e dialettico. Certo che se la scienza è quella di una rivista dozzinale come “Focus” o di una trasmissione cialtronesca quale “Ulisse”, allora il livello degli scalcinati accertamenti INVALSI è, paradossalmente, fin troppo alto…

E’ per lo più disdegnata o misconosciuta l’opera di Tommaso Landolfi che, nella sua passione per lo stile efficace, polito e prezioso, si avventurò pure nella composizione di un racconto contenente solo parole cosiddette morte. La spoliazione linguistica, la sua regolarizzazione (si pensi alla neo-lingua orwelliana) implica un disfacimento culturale che è, nel contempo, causa e conseguenza di una tabe profonda. Pur senza la nostalgia antiquaria di Landolfi, si potrebbero e dovrebbero recuperare le energie del codice linguistico che si sprigionano proprio allorquando il codice è forzato. Si può entrare allora nel regno dell’arte la cui anima è nella connotazione, nello scostamento dalle valenze meramente comunicative.

Oggi il linguaggio si esempla su modelli infimi. Non saremo perciò lungi dal vero, se definiremo l’elocuzione di Matto Morti (e della sua nutrita schiera) idioletto. Sia chiaro: idioletto, non eloquio peculiare, tipico di un locutore, ma perfetta espressione di un perfetto…

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02 aprile, 2012

Oltre l'uomo

E’ celeberrima la lode dell’uomo tessuta da Giovanni Pico della Mirandola nell’“Oratio de hominis dignitate”. All’incirca negli stessi anni un intellettuale non integrato. Leon Battista Alberti, nel “Momus sive de principe”, conduce un discorso sul valore della rarità e dell’ingegno che rendono l’uomo quasi divino.

Nel Prologo dell’inusuale romanzo in latino, l’autore scrive: “Il principe e l’artefice delle cose, il Dio otttimo e massimo, mentre distribuì tutte le qualità più ammirevoli alle sue creature in modo tale che a ciascuna singolarmente toccasse almeno un segno delle più alti lodi divine, volle riservare a sé – è chiaro, lo si tocca con mano – il privilegio di essere l’unico e solo interamente fornito delle qualità di una divinità totale. Diede, infatti, forza agli astri, splendore al cielo, alla terra bellezza, ragione ed immortalità alle anime, distribuendo tutte le meraviglie di questa sorta alle singole cose quasi una per una e, in quanto a sé, volle essere l’unico dotato in tutti i suoi aspetti di quella perfezione che non ha pari. Proprio questa qualità, se non andiamo errati, va ritenuta la prima in un ente divino: essere senza concorrenza, unico e solo.

Da ciò deriva che tutte le rarità, cioè quelle che non hanno la minima somiglianza con tutte le altre, per antica opinione degli uomini sono giudicatequasi divine. Così gli eventi mostruosi, i prodigi, le strane apparizioni ed i fenomeni del genere, per il fatto di accadere raramente, erano annoverati dagli antichi tra i segni della sacra presenza degli dei. La natura, come si è potuto osservare a memoria d’uomo sino ad oggi, ha messo insieme l’immensità e la stranezza con la rarità, tanto che pare che non sia capace di concepire nulla di bello e di grandioso che non sia anche raro. E’ forse per questo che, se notiamo persone che spiccano per ingegno ed emergono dalla massa, in modo da essere ciascuna secondo i suoi titoli di merito, fuori del comune e quindi rare, le definiamo divine e le facciamo oggetto di ammirazione ed onori assai simili a quelli divini, spinti dall’insegnamento della natura. Per questa via ci rendiamo conto che tutte le rarità hanno un che di divino, in quanto tendono ad essere considerate uniche e fuori dell’ordinario, ben distinte dall’ammasso di tutte le altre cose”.


Non sfugga in primo luogo quale lievissima ironia s’insinui nella glorificazione stessa di Dio, ente che non ammette rivalità alcuna. Si osservi anche come Leon Battista Alberti dipinge la natura le cui radiose sembianze sono increspate di stranezze, percorse da linee irrazionali (“l’ammasso di tutte le cose”).

Ci si comincia poi a scostare dall’immagine precipua nel Rinascimento dell’uomo inteso come fulcro dell’universo. La celebrazione di Pico ci appare, se confrontata con la pagina dell’Alberti, grandiosa, nel suo fervente entusiamo, nel suo afflato solenne, nella nostalgica descrizione dell’Adam Kadmon, ma pure teorica. L’uomo, con Alberti, è ancora al centro, ma il suo ruolo principia a diventare eccentrico. Il vero uomo, infatti, emerge dalla massa: è l’individuo eccezionale che palesa in sé qualcosa di divino. “Alberti – glossano Bologna e Rocchi – risolve il tema dell’artista-genio – centrale nell’Umanesimo – con la sua assimilazione al genio-creatore: l’artista è, come dice l’autore nel ‘De pictura’, alter deus. E’ interessante notare come nella visione da lui proposta si intraveda quell’associazione tra follia e talento artistico che ebbe tanta fortuna nei secoli successivi. La stessa rappresentazione dell’alterità rispetto alla massa implica la coscienza di una natura eccezionale che comporta anche, in qualche misura, un’esclusione”.

Sono indicazioni istruttive: l’uomo vero si differenzia rispetto al volgo (la massa) e trascende la sua stessa natura umana per (ri)scoprire un’impronta superiore. Spesso si legge che in ogni essere umano, in quanto tale, balugina una scintilla divina, ma saremmo tentati di concordare con Alberti che, con un inatteso scarto, sposta l’attenzione dall’uomo tout court all’individuo straordinario. L’uomo è tale se e solo se è creatore, ossia se è in grado di elevarsi dalla condizione meramente biologica per provare a costruire il senso del mondo, a tracciare il profilo della vita. Così, se consideriamo il vuoto che riempie gli involucri definiti in mancanza di un termine migliore “uomini”, vedremo un discrimine preciso tra vari livelli, se non categorie. E’ possibile che, a guisa di una polla prosciugata da un lungo periodo di aridità, la coscienza in molti sia evaporata. I tempi duri e ferrigni che viviamo concorrono in modo determinante a tale inaridimento, ma un quid antropologico scava un solco. E’ un qualcosa la cui essenza e matrice si sottrae. Purtuttavia, come in presenza di quelle sensazioni dai contorni molto sfumati, ma con effetti indubitabili sul nostro spirito, sentiamo che è così. Si giunge a codesta conclusione con dolore e per esperienza, non per aprioristico sprezzo del prossimo. Se si pensa ad un argomento contro Dio, più che il male è forse la conoscenza e la frequentazione di certe creature malriuscite a rafforzare la tesi negatoria. Con calzante sintagma T.S. Eliot le bolla come “hollow men”, “uomini vuoti”: lo sguardo vacuo li alligna nella superficialità più epidermica che assurge a summa dei peccati capitali.

E’ naturale che non si può essere assertivi: la natura umana è, per sua natura, contraddittoria e complessa. Attrae e ripugna, suscita fiducia e disinganno, empatia ed avversione. Gli abissi luminosi sono sovrastati da cieli neri, senza stelle. La disgregazione è, in parte, bilanciata dalle sublimi opere degli artisti. Giustamente, però, Alberti, contrappuntato l’elogio dell’uomo pichiano (che è l’archetipo della creatura antecedente alla caduta, prima della storia), con il suo umoristico disincanto, delinea la fisionomia dell’uomo di genio, prima o dopo, in inevitabile rotta di collisione con la storia e la società. Anche se non si è dei genii, lo scatto dell’intelletto e la diagonalità dello sguardo dislocano ai margini della “realtà” convenzionale. L’emarginazione e la solitudine sono il prezzo da pagare per essere sé stessi e non “uomini vuoti”… a perdere.

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