Al di fuori della Matematica che si riferisce solo a numeri morti e formule vuote e perciò può essere perfettamente logica, la Scienza non è altro che un gioco di bambini nel crepuscolo, un voler acchiappare ombre di volatili, fermare ombre di erbe al vento. (F. Pessoa)
La prospettiva, come di solito la si intende, fu elaborata nell’età umanistico-rinascimentale in primo luogo da uomini di genio quali Leon Battista Alberti, Filippo Brunelleschi e Piero della Francesca. Il termine “prospettiva” deriva dal latino “perspectiva” (Piero scrisse il trattato De perspectiva pingendi) e significa vedere bene, vedere in modo nitido (la radice indogermanica “spek” vale appunto “guardare”: si considerino lessemi come spettacolo, specchio, spia etc; il prefisso "per" ha valore intensivo). La prospettiva rinascimentale, basata su precisi criteri matematici, non è – come dimostrò Erwin Panofsky – la semplice riproduzione ottica del “reale”, ma una sua interpretazione aritmetica. Ne risulta un carattere astratto di là dal suo apparente realismo, consistente nella convergenza delle linee verso uno o più punti di fuga e nel rimpicciolimento degli oggetti all’aumentare della distanza dal punto di osservazione. La prospettiva matematica non tiene conto né della curvatura della retina né degli effetti atmosferici. Essa è dunque uno schema della realtà, sebbene dotato di un buon grado di approssimazione. La prospettiva degli antichi, invece, per quanto priva di rigore geometrico, tentava di rendere la natura ottica e retinica della percezione. Proprio per questo le colonne dei templi greci presentavano sovente, ad un terzo circa dell’altezza, un rigonfiamento definito entasi, che aveva scopo ottico-prospettico.
Ora, nei numerosi studi circa la Terra piatta si prescinde da un aspetto che, in una teoria fondata su un’osservazione diretta dei fenomeni dovrebbe essere essenziale: ci riferiamo alla convessità della retina che curva le rette e raddrizza le linee curve. Perché si trascura ciò? Tale omissione non rischia di rovesciare i corollari dei postulati? E’ poi plausibile una teoria imperniata sui sensi che sappiamo possono essere fallaci?
La stessa percezione non è mai del tutto oggettiva: è permeata di forme simboliche, di filtri culturali ed antropologici. E’ segno di superficialità porla a fondamento di un intero modello. Inoltre rivolgiamoci le seguenti domande: chi percepisce che cosa? In che modo? Soprattutto chiediamoci: che cos’è la cosa?
Come abbiamo scritto, il paradigma della Terra piatta, formulato con toni apodittici, rischia di tradursi in una resa all’oggetto, alla “realtà” là fuori, come se si potesse essere sicuri che davvero esiste un mondo esterno al soggetto che lo percepisce. E’ ovvio che tale obiezione vale anche nei confronti del paradigma opposto. Entrambi, quando esposti in termini assoluti e non proposti come ipotesi cosmologiche, denotano un ingenuo realismo, oggi superato dalla stragrande maggioranza non solo dei filosofi ma anche degli scienziati (si pensi almeno al biocentrismo di Robert Lanza) in favore di sistemi riconducibili, in misura più o meno radicale, alla teoria dell’universo olografico-noetico (dal greco nous, mente, intelletto), secondo cui spazio, tempo ed estensione sono proiezioni coscienziali, privi di una loro oggettività. Ammettiamo che il sistema olografico ha alcuni punti deboli, ma possiede tutto sommato una sua coerenza interna. E’ vero che non riesce a spiegare in modo convincente né la “concretezza” del cosmo né la genesi del male, inoltre – come abbiamo già osservato – è incompatibile con l’idea di libero arbitrio, dal momento che la Coscienza si estrinseca in un mondo che ab origine è già contenuto in sé (tutto è già accaduto). Nondimeno, il pattern olografico-coscienziale è ricco di spunti interessanti e può favorire una visione duttile e critica della “realtà”.
Al contrario, altre teorie impongono non una visione del mondo, ma un particolare tipo di mondo con coordinate rigide, promovendo il dogmatismo ora biblico ora scientista. Ci sembra un regresso rispetto alle acquisizioni più recenti, alla possibilità di ampliare gli orizzonti conoscitivi lontani da pregiudizi, semplificazioni, antiquate dicotomie.
La prospettiva, come di solito la si intende, fu elaborata nell’età umanistico-rinascimentale in primo luogo da uomini di genio quali Leon Battista Alberti, Filippo Brunelleschi e Piero della Francesca. Il termine “prospettiva” deriva dal latino “perspectiva” (Piero scrisse il trattato De perspectiva pingendi) e significa vedere bene, vedere in modo nitido (la radice indogermanica “spek” vale appunto “guardare”: si considerino lessemi come spettacolo, specchio, spia etc; il prefisso "per" ha valore intensivo). La prospettiva rinascimentale, basata su precisi criteri matematici, non è – come dimostrò Erwin Panofsky – la semplice riproduzione ottica del “reale”, ma una sua interpretazione aritmetica. Ne risulta un carattere astratto di là dal suo apparente realismo, consistente nella convergenza delle linee verso uno o più punti di fuga e nel rimpicciolimento degli oggetti all’aumentare della distanza dal punto di osservazione. La prospettiva matematica non tiene conto né della curvatura della retina né degli effetti atmosferici. Essa è dunque uno schema della realtà, sebbene dotato di un buon grado di approssimazione. La prospettiva degli antichi, invece, per quanto priva di rigore geometrico, tentava di rendere la natura ottica e retinica della percezione. Proprio per questo le colonne dei templi greci presentavano sovente, ad un terzo circa dell’altezza, un rigonfiamento definito entasi, che aveva scopo ottico-prospettico.
Ora, nei numerosi studi circa la Terra piatta si prescinde da un aspetto che, in una teoria fondata su un’osservazione diretta dei fenomeni dovrebbe essere essenziale: ci riferiamo alla convessità della retina che curva le rette e raddrizza le linee curve. Perché si trascura ciò? Tale omissione non rischia di rovesciare i corollari dei postulati? E’ poi plausibile una teoria imperniata sui sensi che sappiamo possono essere fallaci?
La stessa percezione non è mai del tutto oggettiva: è permeata di forme simboliche, di filtri culturali ed antropologici. E’ segno di superficialità porla a fondamento di un intero modello. Inoltre rivolgiamoci le seguenti domande: chi percepisce che cosa? In che modo? Soprattutto chiediamoci: che cos’è la cosa?
Come abbiamo scritto, il paradigma della Terra piatta, formulato con toni apodittici, rischia di tradursi in una resa all’oggetto, alla “realtà” là fuori, come se si potesse essere sicuri che davvero esiste un mondo esterno al soggetto che lo percepisce. E’ ovvio che tale obiezione vale anche nei confronti del paradigma opposto. Entrambi, quando esposti in termini assoluti e non proposti come ipotesi cosmologiche, denotano un ingenuo realismo, oggi superato dalla stragrande maggioranza non solo dei filosofi ma anche degli scienziati (si pensi almeno al biocentrismo di Robert Lanza) in favore di sistemi riconducibili, in misura più o meno radicale, alla teoria dell’universo olografico-noetico (dal greco nous, mente, intelletto), secondo cui spazio, tempo ed estensione sono proiezioni coscienziali, privi di una loro oggettività. Ammettiamo che il sistema olografico ha alcuni punti deboli, ma possiede tutto sommato una sua coerenza interna. E’ vero che non riesce a spiegare in modo convincente né la “concretezza” del cosmo né la genesi del male, inoltre – come abbiamo già osservato – è incompatibile con l’idea di libero arbitrio, dal momento che la Coscienza si estrinseca in un mondo che ab origine è già contenuto in sé (tutto è già accaduto). Nondimeno, il pattern olografico-coscienziale è ricco di spunti interessanti e può favorire una visione duttile e critica della “realtà”.
Al contrario, altre teorie impongono non una visione del mondo, ma un particolare tipo di mondo con coordinate rigide, promovendo il dogmatismo ora biblico ora scientista. Ci sembra un regresso rispetto alle acquisizioni più recenti, alla possibilità di ampliare gli orizzonti conoscitivi lontani da pregiudizi, semplificazioni, antiquate dicotomie.
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Un eccesso di relativismo potrebbe portare a derive ancora più pericolose dei dogmatismi. Forse è necessaria solo un pò di ironia, non un'aspirazione ridanciana ma un'aurea leggerezza, indispensabile per osservare con il dovuto distacco la realtà o ciò che ci spacciamo per essa.
RispondiEliminaLa mancata percezione della curvatura terrestre, non riguarda solo un effetto visivo ma la possibilità di scorgere oggetti che dovrebbero essere già scomparsi al di sotto della presunta curvatura del globo. In questi frangenti è il teorema di Pitagora a vacillare.
Che si tratti poi di un tema capzioso ed ozioso, può darsi, ma le anomalie ci sono e non riguardano solo la percezione. Sono convinto infine che il rapporto tra noi e l'esterno sia ancora tutto da indagare. La fisica più d'avanguardia ipotizza al proposito scenari inquietanti ed al contempo affascinanti. Continuiamo a cercare, osservare, cos'altro possiamo fare? Segnalare anomalie, particolari dissonanti affinché il pensiero non venga sommerso dalla lugubre cappa di chi vorrebbe vederci ridotti in catene, non fisiche ma molto più pericolose.
L'ironia è un'arma potente a nostra disposizione, quelli là non ce l'hanno! Hai notato le facce del potere? Sorridono a denti stretti oppure si sganasciano rumorosamente ma la serenità donata dall'ironia non sanno cosa sia. Ciao
Commento molto equilibrato, Ghigo.
EliminaCerto, anche il relativismo ed il pensiero debole hanno i loro limiti, anche se non aveva torto Manzoni quando scriveva: "Meglio tormentarsi nel dubbio che adagiarsi nell'errore".
La verità esiste, ma è inconoscibile nella sua interezza in questa dimensione. Possiamo cercarla e mantenere l'ironia, come giustamente suggerisci.
Senza dubbio molti aspetti nelle teorie convenzionali non quadrano da un punto di vista ottico e fenomenico: per questo ho già criticato sia la teoria del Big bang sia quella del caos.
Sì, continuiamo a cercare.
Ciao
Ciao Zret!
EliminaConcordo con la visione di Ghigo Battaglia.
La funzione interessante del relativismo è quella di fare da campanello d'allarme quando ci troviamo di fronte a dogmi. Al primo suono di campanello ci accorgiamo che sono dogmi (non ridere, tanti li accettano in modo così acritico che manco se ne accorgono! :D ). Al secondo richiamo impariamo a osservare, a valutare, e a discernere, se possibile con i pochi dati in nostro possesso, noi del volgo..
In ogni caso il terrapiattismo porta a galla alcune cose interessanti, che non provano che la Terra sia piatta (ma poi che cosa ce ne frega) ma mettono in luce piccole discordanze nell'interpretazione della realtà così come ci viene raccontata.
Concordo con te. Relativismo non significa comunque affermare che la verità ultima non esiste, ma che possiamo vederne solo un barlume. Sarebbe segno di superbia asserire che i nostri sensi imperfetti e la nostra piccola ragione ci permettono di sapere e di comprendere tutto. E' questa hybris che deploro.
EliminaCiao