Il
déjà-vu, però, dimostra che talvolta nel muro delle manifestazioni causali si può aprire una breccia da cui si intravede una dimensione in cui lo spazio-tempo assume inattese configurazioni. Di solito neurologi e psicologi hanno tentato di spiegare il "già visto" richiamandosi a funzioni cognitive, percettive e cerebrali. Queste interpretazioni di per sé possono essere soddisfacenti, ma mi pare che prescindano da una ridefinizione del tempo assimilato in genere ad una retta segmentabile e, come si diceva, unidirezionale.
Se, invece, paragoniamo il tempo ad un disco i cui solchi rappresentano gli e-venti cronologici e la coscienza alla puntina che, passando sui solchi, dipana il flusso degli avvenimenti, è anche possibile pensare che la mente, a guisa di una puntina che avanza o arretra a causa di un graffio o di un granello di polvere sul vinile, sia in grado di procedere in avanti nel tempo come di ritornare indietro. La coscienza quindi può eseguire una lettura del microsolco, in avanti o a ritroso, a causa di salti improvvisi, inopinati.
In tale ambito, si pongono alcuni problemi: in primo luogo, occorre postulare che esista una sfera di realtà, un
campo non-locale dove gli avvenimenti sono compresenti, mentre la mente li dispone lungo una direttrice dal passato al futuro e con in mezzo il presente.
Qui ci soccorrono le osservazioni del Professor Francesco Lamendola, poliedrico e profondo studioso che, nell'articolo intitolato
Alcune ipotesi sull'altro mondo e sulla mente non localizzata, scrive:
"Se ammettiamo esista una Mente non localizzata che conosce ogni cosa; che esistano delle singole menti non localizzate, che abitualmente sono legate alle funzioni corporee, ma che, in condizioni particolari, possono riscoprire la loro vera natura, fondendosi con l'unica Mente, la possibilità delle menti non localizzate di muoversi liberamente oltre le barriere dello spazio e del tempo attesta l'esistenza di un "altro mondo", contiguo al nostro, ma giacente su un diverso livello di realtà, allora possiamo interrogarci sulla natura di quest'altro mondo e formulare qualche congettura in merito, non di carattere gratuito, ma in base a criteri di coerenza e di verosimiglianza. [...]Bisogna dunque porre la domanda: se la "realtà" non è un dato esterno oggettivo ed immodificabile, che le singole menti possono solo subire, ma - al contrario - l'opera creativa ed incessante delle nostre aspettative, delle nostre paure e dei nostri desideri, allora il mondo della mente, il mondo dell'anima è estremamente reale, sia per chi ci crede, sia per chi lo nega o lo ammette solo come funzione neuronale del cervello".La conclusione, per quanto dubitativa, del Professor Lamendola, pare essere plausibile, non appena si evidenzia il carattere generatore e primario della coscienza rispetto all'
obiectum (il "reale"), secondo diffusi e, in buona misura persuasivi, orientamenti filosofici e scientifici.
Ammessa come ipotesi tale genesi mentale, resta almeno un'altra questione cui vorrei accennare: se la coscienza può leggere accadimenti futuri e passati, significa che può pure determinarli o in qualche modo influire su di essi? Il senso di fatalità associato spesso ai
déjà-vu onirici, ossia le esperienze che all'improvviso ricordiamo di aver vissuto in sogni premonitori e che vediamo svolgersi sotto i nostri sensi come fotogrammi di una pellicola, suggeriscono l'eventualità della predestinazione. Si può dunque
prevedere il futuro ed addirittura ricordarlo, essendo l'avvenire già codificato nell'
akasha? Il concetto di destino che mina l'etica fondata sulla responsabilità delle scelte, in contrasto con indirizzi della scienza di frontiera, invece sembra corroborare le visioni profetiche ed apocalittiche, per cui gli avvenimenti si succedono secondo un piano superiore, non umano.
Nella sempre attuale controversia tra
Suae quisque fortunae faber est, Ognuno è artefice della propria sorte (Appio Claudio Cieco) e
Fata volentes ducunt, nolentes trahunt, Il destino guida coloro che non si oppongono, trascina i recalcitranti (Seneca), nessuno può avere la presunzione di poter pronunciare l'ultima parola.