25 febbraio, 2011

Trompe l'oeil

Saremo mai risarciti per tutti i patimenti, le rinunce, le delusioni? Questa domanda (retorica?) è il sottofondo di giorni consumati tra incombenze insulse e dolori inutili. Così avvertiamo l’abissale differenza tra la vita com’è e la vita come sarebbe potuta essere. Se è vero che talvolta siamo responsabili noi, per malaccortezza, di questo spreco, spesso è l’esistenza, con le sue imboscate a sottrarci quanto di più prezioso abbiamo: il presente.

Vediamo scorrere le opportunità simili agli argentei filari di pioppi oltre il finestrino del treno. Vorremmo afferrare le occasioni, ma è come tentare di acchiappare veli di ombre.

Silenzio pietroso, invece di melodia; grigia solitudine, invece di condivisione; muta disperazione, invece della parola catartica che trasfigura…

Intanto, mentre svuotiamo giorni che sono vuoti a perdere, come in un’alchimia al contrario le gioie pregustate si tramutano in amarezza, le ore intense in vacui deserti. I primi a sfaldarsi sono i segni, poiché i glifi in cui avevamo creduto di leggere le promesse di un futuro magnifico o la giustificazione del buio che ci intride, si rivelano scarabocchi schizofrenici. I primi a sfaldarsi sono i segni, poi i sogni.

Qualcuno afferma che un dì riceveremo un indennizzo e quanto abbiamo perduto sarà reso con gli interessi. Il solito scorcio fantastico su un avvenire che è un trompe l’oeil. Ingannato l’occhio, ingannato il cuore, trasciniamo il carro per un’erta che conduce ad una vetta avvolta in nebbie perenni. Perdere è l’unico modo per ritrovare, ma questa prospettiva sembra una consolazione dialettica… una delle tante.

Il guidrigildo non è garantito da alcun editto.

Pur nel pleonasmo, anzi proprio grazie alla ridondanza, Franco Battiato, in una sua composizione musicale, “La stagione dell’amore”, chiosa con efficace mestizia: "Ne abbiamo avute di occasioni, perdendole".




APOCALISSI ALIENE: il libro

23 febbraio, 2011

A capofitto nell'Egitto

Le rivolte in Egitto, in altri stati dell’Africa bianca e del Medio Oriente sono state interpretate da alcuni commentatori della Rete in modo scandaloso. Quella che pare ingenuità nell’analisi dei fenomeni politici e socio-economici è invero spesso un’astuta mistificazione. I recenti tumulti in Egitto hanno portato alla destituzione di Mubarak, sostituito dai militari che dovrebbero traghettare il paese verso la “democrazia”: questi eventi sono stati letti come un sussulto di dignità di un popolo oppresso da un dittatore. Che Mubarak fosse un tiranno è indubbio, ma è certo che il suo successore sarà un detestabile burattino manovrato dalle élites mondialiste. Tra l'altro, sino a pochi mesi fa, Mubarak si poteva fregiare del titolo di "presidente egiziano", laddove ora è esecrato come "dittatore": ipocrita fluidità del linguaggio.

Non è, però, intenzione di chi scrive analizzare dinamiche che altri potranno sviscerare, evidenziandone in particolare i retroscena. Vorrei, invece, sottolineare la retorica che trasuda dai fondi di personaggi che basano le loro “argomentazioni” su… luoghi comuni e su un uso strumentale del linguaggio. Nel momento in cui si usa un’espressione come “popolo egiziano”, si ingannano spudoratamente i lettori. Che cosa significa, infatti, “popolo egiziano”? Nulla: è solo una dicitura enfatica e generica. Il linguaggio di codesti imbonitori è pieno di generalizzazioni e di schemi.

Che cosa significa “popolo egiziano”? Chi adopera tale sintagma ignora (o finge di ignorare) che il “popolo” è un’astrazione. Ben l’aveva compreso Manzoni che, ripercorrendo la sedizione a Milano del giorno 11 novembre (!) 1628, allorché la plebe affamata assalì i forni della città, distingue all’interno della moltitudine in rivolta due anime: l’anima scellerata della folla (“quel corpaccio”) che agisce soprattutto “per una persuasione fanatica e per un maledetto gusto del soqquadro”, dall’anima moderata, composta da persone che, pur lottando per la giustizia, mostrano “spontaneo orrore del sangue e dei fatti atroci”. L’autore definisce “funesta docilità” il conformarsi a quanto pensa la maggioranza che individua nel vicario di provvisione l’unico responsabile della carestia. Inoltre tratteggia in modo ironico la figura di Antonio Ferrer, l’incarnazione del politico scaltro, del demagogo che, con parole ambigue e gesuitiche, seduce i cittadini sprovveduti.

Manzoni compie un’analisi sociologica che è, in primis, una ricognizione antropologica: egli, guarda con occhi disincantati, alla turba che sa essere composta da gruppi ed individui, ognuno con le sue convinzioni (più o meno aberranti), aspettative, idiosincrasie. Il Nostro sa che generalizzare significa mentire: il suo interesse per gi umili non scade mai nel populismo. Se altri studiosi hanno indugiato sulla psicologia della massa (si pensi almeno ad Elias Canetti), mettendone impietosamente a nudo le reazioni pavloviane ed il carattere plasmabile dal primo tribuno che capita, già Manzoni, almeno nei “Promessi sposi”, è in grado di denunciare l’ingenua idealizzazione del “popolo”.

Il “popolo” non esiste, poiché sono le classi a contare, anzi in una società in cui il potere è riuscito a disgregare in un’omologazione individualistica la stessa identità personale, il “popolo” è un concetto vuoto, un flatus vocis, uno strumento linguistico cui ricorrere per lasciar balenare davanti ai sudditi imbambolati il miraggio di un futuro migliore. E’ assodato: non sarà l’uomo a risolvere i problemi dell’umanità, dunque è del tutto illusorio pensare che il “popolo” possa liberarsi da despoti vecchi e nuovi, magari con la paternalistica assistenza dei militari.

Dietro le quinte, agiscono i soliti (ig)noti il cui obiettivo è, dopo aver destabilizzato l’aria medio-orientale ed il Maghreb, il definitivo disfacimento delle nazioni europee, già sconquassate dalla crisi economica e da un’inestirpabile corruzione, con un’invasione di profughi e di derelitti, spinti dalle strettezze, sulle rive opposte del Mediterraneo.

Che questi avvenimenti siano concepiti come un glorioso cammino verso la libertà ed il riscatto dei “popoli” è grave. Che si blandisca l’opinione pubblica, prospettando “magnifiche sorti e progressive” è inammissibile. Dispiace che questa melassa sia stata ammannita pure da Jane Burgenmeister, cui va il plauso per aver denunciato la truffa dei vaccini: non sappiamo se la sua sia ingenuità o se, “persuasa” dai controllori, abbia deciso di ingrossare la schiera dei gatekeepers. E’ evidente comunque che questi articoli fanno presa su un pubblico beota ed impulsivo, incline a lasciarsi abbindolare da pseudo-giornalisti, da maneggioni e da guitti.

Così Roberto Benigni, personificazione dell’ignoranza più becera, un idiot savant per idioti, ha potuto stravolgere la storia risorgimentale con fini ideologici in un immondo coito tra canzoni e propaganda sciovinista a favore del sistema. Siamo ancora benigni se, in questa sede, sorvoliamo sullo stupro di Dante, perpetrato dal grullo, ma la lectio magistralis del toscanaccio può sedurre solo una persona priva anche solo di un’infarinatura culturale e di un briciolo di intelligenza. È inutile che si continuino a leggere certi autori, se non si comprendono i principi che ispirano le loro opere.

Bisogna concludere che dalla storia e dal passato si apprende pochissimo; dai classici della letteratura, pur tanto compulsati ed ammirati, ancor meno.


Articolo correlato: C. Penna, Sanremo 2011: indottrimamento mediatico e non solo, 2011



APOCALISSI ALIENE: il libro

21 febbraio, 2011

Ospiti indesiderati

Norma è una statunitense che afferma di aver vissuto un’esperienza di contatto con inquietanti creature. La donna era andata a dormire alla solita ora, quando, nel cuore della notte si svegliò all’improvviso: si accorse che un bagliore bluastro inondava la camera da letto. Avvertì poi una scossa elettrica che le attraversava le membra, mentre aveva l’impressione che il chiarore le penetrasse nel corpo. Si trovava, atterrita, in uno stadio convulsivo, quando scorse delle tenebrose figure avvolte in mantelli scuri ed incappucciate. Ella, paralizzata nel letto ed in preda al panico, non riuscì a distinguere i volti degli esseri, ma potè osservare che uno di loro sollevò una croce dorata. L’estraneo esclamò in modo sibillino: “Questa è magia!”. Quindi i visitatori indesiderati si allontanarono dalla stanza: la donna uscì sul poggiolo. Vide che gli alieni, dopo aver attraversato un ruscello, raggiunsero un’astronave che stazionava sopra una collina. Infine Norma sentì un irrefrenabile impulso a tornare nel letto dove si riaddormentò. Durante tutta l’esperienza, il marito della donna continuò a dormire profondamente.

L’aspetto più curioso e pressoché unico di questo caso coincide con la croce vista da Norma: dal racconto e dai quadri ad olio realizzati dalla testimone risulta essere l’ankh egizia, la croce della vita. [1]

La luce bluastra è quasi un invariante delle abductions, mentre la presenza di entità con la testa coperta da un cappuccio è un particolare riferito solo da pochi testimoni. [2] Whitley Strieber, nel celebre Communion, descrive, accanto ai noti Grigi, goffi ufonauti di bassa statura, vestiti con tabarri scuri.

In circostanze già sinistre si insinuano queste scene “gotiche” con alieni o presunti tali che assomigliano a monaci. Non sappiamo se siano il frutto di una percezione manipolata o se, in una certa misura, contengano un quid di “oggettivo”. E’ plausibile che questi singolari “frati” siano una delle forme con cui un’enigmatica intelligenza dagli scopi reconditi ama palesarsi al fine di nascondersi.

[1] Ankh è il geroglifico più noto dell’antico Egitto. Con il simbolo ankh si scrivono il nome “vita” ed il verbo “vivere”. Per la sua somiglianza con la croce cristiana, esso sopravvisse al tramonto della religione egizia e divenne la croce dei Copti, i cristiani monofisiti d’Egitto. Sull’origine e l’essenza del glifo, ricercatori ortodossi ed eretici si sono sbizzarriti: vi è stato visto un po’ di tutto. E’ probabile comunque che il segno adombri l’unione dei due principi cosmici.

[2] Alcuni ricercatori asseriscono che l’azzurro è il colore dell’etere.

Fonti:

Discovery science, Gli alieni sono tra noi
Grande enciclopedia illustrata dell’antico Egitto, Novara, 1998, 2005, s.v. ankh
W. Strieber, Communion, Milano, 1988 passim




APOCALISSI ALIENE: il libro

17 febbraio, 2011

Suicidio bianco

Suicidio, un argomento doppiamente tabù, poiché è legato alla morte e per giunta ad una morte volontaria. Nel mondo contemporaneo desacralizzato abbiamo rimosso la morte ed il suicidio stesso è sterilizzato con le espressioni eufemistiche e guardinghe “folle gesto”, “insano gesto…” Recentemente il regista Mario Monicelli, non potendo più tollerare i patimenti cagionati dalla malattia e soprattutto la condizione di avvilimento in cui l’infermità lo aveva sprofondato, si è tolto la vita. È stato un atto stoico, come quello dello scrittore latino Silio Italico (25-101 d.C.): l'autore dei Punica, colpito da un tumore, si lasciò morire di inedia.

Strana azione il suicidio, in cui un ardimento formidabile talvolta si mischia ad una forma di pusillanimità. E’ facile biasimare ed obiurgare i suicidi: ma noi riusciremmo (o riusciremo) a tollerare l’intollerabile, senza passare sul collo la gelida lama dell’autodistruzione? Avanti e indietro, indietro ed avanti. Sempre più vicina alla pelle, imperlata di sudore.

Il carattere letterario ed eroico del suicidio ne ha ingrandito il valore e nel contempo alleggerito il peso di inabissamento nel buio. Se passiamo in rassegna le morti volontarie dell’antichità, è tutta una galleria di figure colossali che rinunciarono alla vita in nome di un ideale nobile: viene in mente soprattutto il suicidio di Catone Uticense, una virile protesta contro chi conculcava la libertà. Anche Cleopatra VII si lasciò mordere da un aspide (o da una vipera africana) – se l‘ultima regina d’Egitto non fu assassinata – per non essere umiliata dal vincitore, lo spregiudicato Ottaviano.

In questi suicidi celebri, l’atto è congelato nel suo momento culminante, nell’esistenza che si impietrisce nell’istante senza tempo del trapasso: agli storici ed ai romanzieri il compito di eternarli nella loro austera, tragica bellezza.

In antitesi ai suicidi illustri, si consumano nell’ombra e persino nella vergogna le morti deliberate degli uomini comuni: quando frequentavo l’università, conobbi uno studente iscritto a Giurisprudenza. Era un ragazzo gioviale ed alacre. Alcuni anni dopo venni a sapere, con meraviglia e sgomento, che si era tolto la vita. Sposato felicemente con una sua concittadina che gli aveva dato un figlio, aveva deciso di porre fine alla sua esistenza: non compresi mai il motivo. Fu la solitudine? La spina acuta del “male di vivere”? Una malattia invalidante? Che importa saperlo!

Se il nero è tradizionalmente nella cultura occidentale il colore della morte, il colore del suicidio può essere il bianco: un “silenzio bianco” avvolge l’harakiri. Questa è la tinta da temere: molto più terribile di una pagina ottenebrata dall’inchiostro della disperazione, è una pagina bianca.

“Non scriverò più. Solo un gesto”. Così Cesare Pavese sigillò il suo diario, “Il mestiere di vivere”. Quando il grido si spenge nel nulla, quando l’ultima parola si strascica in un’asola incompleta, in un taglio sottile assediato dal vuoto divorante del foglio, allora significa che, se non è il preludio del nirvana, è ormai imminente la decisione irrevocabile.

APOCALISSI ALIENE: il libro


15 febbraio, 2011

Haida: tracce di Shumer in America

L’etnia Haida è una tribù di nativi americani del Canada e dell’Alaska, ormai purtroppo quasi estinta, poiché oggi formata da non più di 600 anime che abitano per lo più le Isole della Regina Carlotta. Sono tipici esponenti, assieme ai Tlingit, delle “culture del salmone”, con evolute tecniche di pesca. Questo popolo, presso cui è diffuso l’artigianato del legno, parla una lingua che i glottologi considerano isolata.

A proposito della loro lingua e delle loro tradizioni, gli autori del saggio “Atlantidi, i tre diluvi che hanno cancellato l’umanità” scrivono: “Secondo recenti studi di ricercatori russi, l’idioma degli Haida presenta forti affinità con il sumero. Trentacinquemila tavolette vennero dissotterrate in Mesopotamia tra l 1899 ed il 1900, a Nippur, la città di Enlil, dio del vento e delle inondazioni. Secondo queste, la civiltà sumero-accadica aveva la sua origine a Dilmun, un’isola montagnosa perduta nell’oceano in direzione sud, da cui gli uomini fuggirono su una grande nave per sfuggire al diluvio. E’ interessante confrontare il mito sumero col mito Haida.

Versione sumera: “Tanto tempo fa, i nostri antenati vivevano sull’isola Dilmun. La vita non destava preoccupazioni, finché il dio del cielo decise di annientare l’umanità, trasformando il cielo e causando un diluvio universale. I sopravvissuti fuggirono su una grande nave e sbarcarono in una nuova terra, sulla cima di una montagna. Così cominciò una nuova era.

Versione Haida: “Tanto tempo fa, i nostri antenati vivevano nel più grande villaggio del mondo. La vita non destava preoccupazioni, finché il grande capo dei cieli decise di eliminare l’umanità, trasformando il cielo e causando un diluvio universale. I superstiti fuggirono su grandi canoe e sbarcarono in una nuova terra, sulla cima di una montagna. Così cominciò una nuova era”.

Una tale somiglianza non può imputarsi al caso, ma solo ad un’origine comune: Atlantide”.

Non è questa l’unica sconcertante analogia che si può evidenziare tra il mondo sumero e culture americane: Jose Luis Espejo è convinto che nell’idioma Hopi è possibile trovare vestigia di una protolingua universale, nella quale si ingloba la lingua sumera. Ad esempio "kiva", in hopi, vale casa sotterranea e ricorda il sumero "ki", terra, luogo, area, suolo, grano; "toho" in hopi olio per ungere con scopi rituali evoca il sumero "tu", lavare, cospargere, compiere libagioni; "mana" in hopi, spirito della natura degli antenati femminili, è confrontabile con il sumero "mu", donna, e "nu", essere umano etc.

Anche qui è difficile pensare solo a coincidenze, benché si notino slittamenti semantici di radici comuni, mentre è plausibile che il centro di irradiazione di antichissime civiltà fu unico: Atlantide? Mu? Lemuria… o forse un lontano pianeta oppure una realtà occultata alla nostra debole percezione?


Fonti:

D. Marin, E. Schievenin, I. Minella, Atlantidi I tre diluvi che cancellarono l’umanità, Latina, 2010, p 37
J. L. Espejo, Voci da Mu, L’Eden ad Oriente, 2010
Nuova enciclopedia universale, Milano, 2000, s.v. Haida




APOCALISSI ALIENE: il libro

12 febbraio, 2011

Timorìa

Could be right, I could be wrong. (Public image Ltd)

Il tempo è scaduto: ne siamo consci. Gli eventi ci incalzano con i loro artigli di acciaio. Il grande gioco è alla sua ultima manche. Infatti si tratta di un gioco, benché feroce. Invano siamo stati avvisati ed ammoniti: se le profezie si adempiono in modo fatale (poco o punto importa se le predizioni si autorealizzino o se dipendano da un destino), dove finisce il libero arbitrio cui ci si appella affinché cambiamo?

Siamo alle solite: si cerca senza requie e con poco senno un responsabile. Di Dio, del Demiurgo, degli Arconti o degli uomini: di chi è la colpa? E’ vero: gli uomini (non tutti nella stessa misura) hanno le loro responsabilità che coincidono con l’egoismo, l’indifferenza, la cupidigia… Non eravamo, però, stati creati “ad immagine e somiglianza di Dio”?[1] Va bene: qualcuno o qualcosa ci traviò. Tutto andò storto da allora, nonostante alcuni patetici tentativi di cambiare rotta. Non so se l’essere umano sia fondamentalmente buono o malvagio. Credo sia egocentrico: allora si capisce se è più incline al male o al bene.

Dunque è inevitabile che l’umanità sia punita, come quando fu quasi del tutto sterminata dal diluvio. Forse quell’epocale inondazione fu un evento naturale (o tecnologico?) che poi antichi popoli attribuirono a divinità irate e colleriche. Quel castigo nondimeno non fu sufficiente, nonostante fossero sopravvissuti il pio Ziusudra-Utnapishtim-Noè ed i suoi discendenti. Eccoci quindi di nuovo con la spada di Damocle di un cataclisma storico. Il copione è molto simile e, come se non fossero bastate le brutture e le violenze del passato, si prospetta l’avvento di un “mondo nuovo” da far tremare le vene e i polsi. Come se non fosse bastato lo strazio dell’esistenza quotidiana, ora ci attende il patibolo per essere nati. Molto bene. Riceviamo la ricompensa del nostro agire e/o del nostro subire, indifferentemente, di azioni consapevoli o inconsapevoli, anteriori. Fatum. I giusti saranno salvati, ma esistono i giusti?

Siamo di fronte a questa giustizia punitiva, al cospetto di un Male assurdo, coronato da una sanzione che pare, se non discutibile, intempestiva: nessuno è del tutto innocente, ma non so che gusto si possa provare a vedere un epilogo che si conosce già, solo per poter esclamare: “Hai visto? Te l’avevo detto!”

E’ una concezione basata sulla vendetta e sul senso del peccato: la mentalità medievale, interpretata da alcuni antropologi come “cultura della colpa”, ha lasciato i suoi strascichi. Non si può affermare che è una visione affatto errata; certo stride con un’etica imperniata su altri princìpi. Credo che potrei accettare l’esistenza di un Dio alla Horkheimer. Non che i conti non debbano essere pareggiati, anzi, ma forse si potrebbe (o si sarebbe potuto) intervenire in un modo diverso, senza lasciare esplodere la granata le cui schegge di pazzia si conficcheranno nella carne viva. Non si può pensare che l’orrore tracimante sia cancellato con un colpo di spugna.

Sarà pure un’ottica sfocata: tutto questo potrebbe essere necessario e persino equo, ma a volte si viene rasentati dal pensiero che una fenditura di irrazionalità spacchi l’universo. Scrive Sebastiano Vassalli nel romanzo storico “La chimera”: “Arriva sempre nella vita di un uomo che abbia avuto in gioventù un forte stimolo ideale, il momento in cui si prende atto definitivamente, senza più speranze né illusioni né sogni, dell’inerzia delle cose e del mondo, il momento in cui si capisce che la fede non smuove le montagne, che le tenebre prevarranno sempre sulla luce, l’inerzia soffocherà il moto e così via”.

Non siamo a questo punto di sfiducia e di disincanto, ma moltissime questioni esigono una vera risposta che invano cercheremo con le nostre limitate, gracili conoscenze o nei libri, sacri e no.

[1] Forse non esiste traduzione più grossolana ed approssimativa di questa vulgata, ma tant’è…



APOCALISSI ALIENE: il libro

10 febbraio, 2011

In edicola il n. 28 di X Times

E' in edicola il n. 28 di "X Times", il mensile diretto da Lavinia Pallotta. Tra i vari articoli di questo numero, segnaliamo la ricerca di Umberto Visani, “La regia occulta dietro alle mutilazioni animali" ed il dossier, a cura di Silvia Agabiti Rosei, su uno dei fatti più inquietanti e misteriosi di queste ultime settimane, l'ecatombe di volatili e pesci.


Leggi qui l'editoriale della direttrice.




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08 febbraio, 2011

Stupore

Al lugubre “Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie", appartenente alle “Operette morali”, Giacomo Leopardi premette un coro di defunti “in cui si esprime l’arcana e tragica fissità del non essere, di una vita, cioè, spogliata d’ogni attesa, d’ogni speranza, d’ogni dolore. E’ quella che il Leopardi immagina dopo la morte: un puro esistere senza tempo né mutamento, un rifluire per l’eternità nel ritmo dell’universo.” (M. Pazzaglia)

Il coro dei morti è una prova altissima della poesia leopardiana, con quell’incedere ieratico di endecasillabi e settenari, tramati di rime cupe, spezzati da dolenti enjambements. I versi del coro sembrano un’eco proveniente da un oscuro antro del cosmo, da un insondabile abisso del tempo. Le parole levigate hanno il gelido candore del marmo. Il canto culmina nell’esterrefatto distico: “Cosa arcana e stupenda/ oggi è la vita al pensier nostro”.

Misticismo senza Dio, esistere senza sensazioni, persino nostalgia senza rimpianto: questo è l’universo silenzioso e desolato in cui si spegne l’anelito di un sogno febbrile.

Pochi versi si imprimono come questi nella memoria, echeggiando a guisa di una vibrazione misteriosa risalente da profondità sconfinate. Nel generico vocabolo “cosa” è incarnata l’inafferrabilità dell’esistenza, ridotta ad un oggetto estraneo raggelato nella vitrea fissità del non senso: veramente succede, in rari momenti di epifania, di scoprire l’assurdo dietro le fragili parvenze della normalità. Se l’aggettivo “arcana” rincalza l’incomprensibilità della vita, definendone l’essenza immotivata e nascosta, il lettore si imbatte nel termine “stupenda”, come fosse un enigma edipico. La vita “stupenda”? Non certo nel significato di “incantevole”, ma di fenomeno che suscita sgomenta meraviglia, sbigottimento. Soprattutto “stupenda” è voce incisiva per il suo timbro stentato e tartagliante, in cui inciampa la lingua.

E’ così: questa parola contiene la stessa radice (assieme alla potenza evocativa di straniti fonemi) dell’inglese “to stumble”, “inciampare”. Veramente ci si imbatte nella vita, si incespica tra i suoi insidiosi ostacoli, nel selciato sconnesso del destino.

A volte si stramazza, per non rialzarsi più.



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05 febbraio, 2011

Il passato rettiliano dell’umanità

Richard A. Boulay è autore di “Flying serpents and dragons The story of Mankind's reptilian past”. Il saggio è stato tradotto in francese, ma non nella nostra lingua e forse non lo sarà mai. L’edizione d’oltralpe è purtroppo priva dell’apparato iconografico che impreziosisce il testo in inglese.

Boulay propugna la tesi secondo la quale gli uomini sarebbero stati creati da una razza di Rettili (gli Anunnaki), basandosi su fonti archeologiche ed iconografiche che sono menzionate pure da altri ricercatori, di solito per suffragare opinioni diverse. In verità, il titolo di Boulay non appare molto persuasivo, poiché gli indizi da lui raccolti circa una presunta ascendenza rettiliana di Homo sapiens sapiens sono pochi e per di più potrebbero essere interpretati secondo criteri simbolici. Tuttavia l’opera è ricca di spunti meritevoli di approfondimento: dalla ricostruzione della storia di cui furono protagonisti i Sumeri, considerati il popolo da cui sbocciarono le altre culture, al nesso tra Sumeri e Habiru, dal culto degli dei serpenti al tema dell’immortalità, dall’evento noto come Diluvio universale ai Rephaim…

Lo studioso insiste molto sul nesso tra Sumeri ed Ebrei. Alcune incursioni etimologiche inducono a notevoli e forse avventurose congetture: “Ibri” (Ebrei) discende dal sumero “Ibru”, con il significato di “attraversare”. Si potrebbe pensare all’etnia israelitica come ad una progenie ibridata? Fondamentale l’indugio sulla radice ebraica "Yd" che vale “conoscenza” e “compiere esperienza di”: si osservi la somiglianza con la base indogermanica “(v)id”, in cui la conoscenza assurge a visione non tanto sensoriale, quanto interiore e mistica. Da un’unica sorgente scaturiscono i diversi fiumi delle lingue, con la progressiva separazione tra sottolineatura di sensi concreti, persino sessuali (è noto che “conoscere” nella Bibbia è usato come verbo eufemistico per indicare la copula) in àmbito medio-orientale, e valorizzazione di un’accezione metaforica nel milieu giapetico.

Boulay considera la Bibbia testo eminentemente storico, da cui cava notizie su migrazioni di popoli, vicende belliche, tradizioni, culti, personaggi celebri, come Caino, Enoch, Lamech e molti altri. Forse l’impiego della Bibbia come archivio annalistico è un po’ ingenuo e sarebbe occorso un vaglio più attento di retaggi e traduzioni. Nondimeno, mentre l’interesse dell’autore per la tesi centrale scema, egli ci accompagna in percorsi emozionanti. Se questi percorsi sono come gallerie che terminano in pareti cieche, un lettore scaltrito potrà forse trovare delle aperture attraverso cui proseguire. Così, tra i numerosi argomenti che inducono ad ulteriori analisi, annovererei in primis l’usanza della circoncisione che Boulay interpreta come sacrificio di sé per ottenere qualcosa. Manca a tutt’oggi un’indagine sulla consuetudine della circoncisione al di fuori dei canoni etnologici, con l’eccezione dell’originale (ed inquietante) approccio di Nigel Kerner al tema, quantunque l’ufologo britannico riporti conclusioni altrui.

Altri scenari poi di grande interesse sono squadernati dall’autore: “le radio degli antichi”, le basi del Sinai, la distruzione di Sodoma e Gomorra… Se il taglio clipeologico risulta alquanto riduttivo, bisogna riconoscere che è integrato da stimolanti excursus sulla letteratura ebraica apocrifa, indiana, gnostica etc. con citazioni di lacerti pressoché ignorati.

Certo, si ha l’impressione che “Flying serpents and dragons” lasci varie ricognizioni allo stadio embrionale, ma è nella natura stessa di questi contenuti di frontiera un’inevitabile incompletezza.

La ricerca è appena cominciata.



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02 febbraio, 2011

Tre minuti

Tre minuti, erano solo tre minuti: eravamo adolescenti – adolescenza, età circonfusa d’oro, riflesso di un’epoca incommensurabilmente lontana nello spazio e nel tempo – quando, in modo inatteso, si viveva l’estasi.

Poteva essere una canzone che ci trascinava in un vortice di sensazioni ineffabili, poteva essere la contemplazione del cielo azzurro dove sprofondavamo in un’ebbra vertigine, la corsa a perdifiato in un campo inondato dal sole.

Il tempo si annullava – il tempo, questa bolla elettromagnetica in cui siamo imprigionati – la vita era un incantesimo, il brillio di un cristallo.

Il mondo là fuori, con le sue ferite purulente, si dileguava. La vita pareva allora un’avventura fantastica. Ogni emozione coinvolgeva tutto l’essere, trasfigurandoci, anche se solo per pochi minuti.

Oggi all’esperienza dell’incanto si è sostituita la sua descrizione attraverso i libri, la sua sciacquatura in concetti. La spensieratezza è defunta. Oggi – ammettiamolo – la felicità che non è la condizione dell’uomo volgare, ma insopprimibile impulso cui tendono le creature (l’aveva inteso Giacomo Leopardi) è, nel migliore dei casi, un piacere freddo, intellettualistico. Oggi un oscuro senso di colpa, dai contorni chiarissimi, ci divora il cuore, mentre presagi di disfacimento scivolano tra le ombre del crepuscolo. Soprattutto, simile ad una folgore, ci colpisce il dubbio che sia tutto sbagliato, privo di senso: dolore e gioia, principio e fine, cielo ed inferno… la stessa cosa. Siamo insignificanti errori di un gigantesco scarto dalla giusta rotta. Alla nostra voce di disperata speranza risponde solo l’eco della stessa voce.

E’ appena un istante, ma che resta per sempre: cicatrice indelebile sull’anima.



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