Sembrano “solo” avidi banchieri, ma sono maghi neri.
Molti affermano con autocompiacimento di essere apolitici. Fu Belzebusconi, da beota al cubo, a trasformare il nobilissimo aggettivo “politico” in un vocabolo dispregiativo: chi non ricorda le “indagini politiche” della Magistratura ai danni dello gnomo massone? “Politico” è diventato sinonimo di “settario”, “corrotto”, “iniquo”. Il popolino usa il vocabolo in oggetto proprio con questi valori negativi.
Che crassa ignoranza! Nessuno di noi, in quanto “zoòn politikòn”, come scrive lo Stagirita, può, volente o nolente, essere apolitico [1]: giustamente saremo apartitici e critici implacabili del sistema, ma non possiamo disinteressarci della politica, nel senso più ampio ed alto del lessema.
Infatti l’esigenza di Giustizia e di Libertà all’interno del contesto sociale (solo gli dei e certi animali possono vivere da soli) è un’istanza squisitamente politica. Siamo cittadini, non nell’accezione francese e sanculotta, ma nel significato greco del lemma. Il “polites” è colui che vive ed agisce nella pòlis, più città che Stato, poiché è una comunità necessariamente piccola dove ciascuno, anche attraverso il sorteggio delle cariche, può e deve prender parte all’organizzazione della cosa pubblica.
Essere politici significa dunque perseguire l’obiettivo di uno Stato debole, leggero, di un’entità ridotta ai minimi termini, diluita il più possibile, come insegna il filosofo tedesco Horkheimer, nell’amministrazione, senza interferenze nella vita del singolo, senza soprattutto quel dominio coercitivo tipico degli Stati e Superstati (ad esempio, la mostruosa Unione europea) di oggi.
Certamente, l’ideale è quello di un totale annullamento delle forme statali, ma da un punto di vista pragmatico ciò sembra molto difficile: di conseguenza una meta degnissima, in attesa della dissoluzione degli apparati, coincide con un autogoverno dei cittadini che gestiscono gli interessi comuni a somiglianza di quanto avveniva in molti villaggi di nativi americani dove vigeva una reale eguaglianza nei momenti decisionali, senza momenti di costrizione e di controllo.
Se “ogni Stato è una dittatura”, come ci rammenta Antonio Gramsci, bisogna sempre vigilare affinché la res publica non degeneri in un sistema tentacolare che, con il pretesto di proteggere i cittadini da rischi creati ad arte dallo Stato stesso, azzeri ogni residuo diritto e libertà.
Purtroppo la realtà attuale è agli antipodi rispetto a quella vagheggiata da Aristotele: oggidì lo Stato ha assunto dimensioni e poteri abnormi, tali che presto, se non si invertirà la rotta, la schiavitù antica sembrerà in confronto, una condizione desiderabile.
Dobbiamo essere tutti politici, prima che sia troppo tardi, cioè fautori della dignità personale e consci della spaventose minacce che incombono sulla società tutta ogni volta in cui lo Stato avanza di un passo, conquista un nuovo avamposto.
Disconoscere lo Stato, in quanto perfetta incarnazione di un’oppressione satanica, ribellarsi ad esso, non è auspicabile, è un dovere ferreo, ineludibile. E' un dovere politico.
[1] Come abbiamo già precisato, l’espressione “zoòn politikòn” non deve essere tradotta volgarmente con “animale sociale”, ma con “essere vivente adatto ad agire in una polis, in una comunità organizzata”.
Molti affermano con autocompiacimento di essere apolitici. Fu Belzebusconi, da beota al cubo, a trasformare il nobilissimo aggettivo “politico” in un vocabolo dispregiativo: chi non ricorda le “indagini politiche” della Magistratura ai danni dello gnomo massone? “Politico” è diventato sinonimo di “settario”, “corrotto”, “iniquo”. Il popolino usa il vocabolo in oggetto proprio con questi valori negativi.
Che crassa ignoranza! Nessuno di noi, in quanto “zoòn politikòn”, come scrive lo Stagirita, può, volente o nolente, essere apolitico [1]: giustamente saremo apartitici e critici implacabili del sistema, ma non possiamo disinteressarci della politica, nel senso più ampio ed alto del lessema.
Infatti l’esigenza di Giustizia e di Libertà all’interno del contesto sociale (solo gli dei e certi animali possono vivere da soli) è un’istanza squisitamente politica. Siamo cittadini, non nell’accezione francese e sanculotta, ma nel significato greco del lemma. Il “polites” è colui che vive ed agisce nella pòlis, più città che Stato, poiché è una comunità necessariamente piccola dove ciascuno, anche attraverso il sorteggio delle cariche, può e deve prender parte all’organizzazione della cosa pubblica.
Essere politici significa dunque perseguire l’obiettivo di uno Stato debole, leggero, di un’entità ridotta ai minimi termini, diluita il più possibile, come insegna il filosofo tedesco Horkheimer, nell’amministrazione, senza interferenze nella vita del singolo, senza soprattutto quel dominio coercitivo tipico degli Stati e Superstati (ad esempio, la mostruosa Unione europea) di oggi.
Certamente, l’ideale è quello di un totale annullamento delle forme statali, ma da un punto di vista pragmatico ciò sembra molto difficile: di conseguenza una meta degnissima, in attesa della dissoluzione degli apparati, coincide con un autogoverno dei cittadini che gestiscono gli interessi comuni a somiglianza di quanto avveniva in molti villaggi di nativi americani dove vigeva una reale eguaglianza nei momenti decisionali, senza momenti di costrizione e di controllo.
Se “ogni Stato è una dittatura”, come ci rammenta Antonio Gramsci, bisogna sempre vigilare affinché la res publica non degeneri in un sistema tentacolare che, con il pretesto di proteggere i cittadini da rischi creati ad arte dallo Stato stesso, azzeri ogni residuo diritto e libertà.
Purtroppo la realtà attuale è agli antipodi rispetto a quella vagheggiata da Aristotele: oggidì lo Stato ha assunto dimensioni e poteri abnormi, tali che presto, se non si invertirà la rotta, la schiavitù antica sembrerà in confronto, una condizione desiderabile.
Dobbiamo essere tutti politici, prima che sia troppo tardi, cioè fautori della dignità personale e consci della spaventose minacce che incombono sulla società tutta ogni volta in cui lo Stato avanza di un passo, conquista un nuovo avamposto.
Disconoscere lo Stato, in quanto perfetta incarnazione di un’oppressione satanica, ribellarsi ad esso, non è auspicabile, è un dovere ferreo, ineludibile. E' un dovere politico.
[1] Come abbiamo già precisato, l’espressione “zoòn politikòn” non deve essere tradotta volgarmente con “animale sociale”, ma con “essere vivente adatto ad agire in una polis, in una comunità organizzata”.
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Invidio la tua capacità di sintesi Zret, se scrivessi su un tale argomento mi ci vorrebbero pagine.
RispondiEliminaLa filosofia fondativa occidentale (Platone in primis) è sempre stata anti-democratica; Platone puntava al re-filosofo ed aveva in orrore le possibili derive di un governo democratico (demagogia).
E comunque in occidente la democrazia si dimenticherà fino a J.J. Rosseau (1762) il quale la riproporrà più su un piano ideale che concreto. Quando la democrazia verrà ripensata all'indomani della Rivoluzione francese si presenterà nella sola forma rappresentativa, con delega quindi, cosa che, a mio parere, toglie al cittadino(?) non solo ogni percezione di responsabilità ma, anche, ogni pulsione verso l'autodeterminazione, da questo si può seguire il filo che ci porta ad oggi, ma l'argomento è troppo complesso, ancorché affascinante, per essere sviscerato qui, urgono letture e riflessioni... a dir così oggi sembra una eresia.
Ciao con segnalazione: http://www.rassegnastampa-totustuus.it/cattolica/wp-content/uploads/2014/07/IL-RACCONTO-DELL-ANTICRISTO-V.Soloviev.pdf
Glossa molto opportuna, il Disadattato. Sì, a Platone ripugnava - non a torto - la democrazia e lo stesso Aristotele ne individua subito la degenerazione nella demoagogia o nell'oclocrazia. Certamente il tema è complesso e discuterne oggi è ozioso, giacché viviamo sotto una dittatura sanguinaria.
EliminaGrazie della segnalazione.
Ciao