Non sfugga il gioco delle antitesi all’interno del componimento (“vicine, lontane” in iterazione; “la fuga dei giorni e l’infinito tempo”, “l’esser vivo e la caducità della carne”), sino all’ossimoro, vero emblema e cifra dell’esistenza e dell’universo, della “vita che muore”. Siamo tutti in bilico tra la vita e la morte ed il senso, se esiste, è qui, ora, eppure altrove.
La testa sul cuscino, odo strisciare
nella tenebra grandi acque vicine,
più vicine, lontane.
È un suono dolce con lungo pedale,
è l’infinita musica del tempo
che mi rapisce fuor del tempo, poi
che la fuga dei giorni è già l’eterno
e la vita che muore è già la morte.
Ascolto il dolce suono;
né so se più m’attristi o più mi giovi
l’essere vivo ancora, nel mio chiuso
corpo di carne, nel fluire uguale
del mio sangue che fugge per la notte
con striscio d’acque vicine, lontane.
(Lirica tratta dalla raccolta intitolata, Verità di uno, 1970)
Nota: l'immagine è un'opera di Giovanni Re.
Una lirica è come una goccia di rugiada su una ferita. Ciao!
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