30 dicembre, 2010

Il male secondo René Guénon

Nel 1909, all'età di ventitrè anni, René Guénon diede alle stampe uno scritto intitolato “Il Demiurgo”. Nel testo l'insigne studioso ed esponente della Philosophia perennis, affronta il plurimillenario quesito "Si Deus, unde malum? Si Deus non est, unde Bonum?", rispondendo con logica adamantina ad una domanda abissale, per mezzo di una disquisizione costellata di nozioni universali, quali l'infinito, l'essere ed il non-essere, il manifesto ed il non-manifesto, l'unità ed il molteplice.

L'autore si chiede: "Come dunque ha potuto Dio, se è perfetto, creare degli esseri imperfetti?", "Come ha potuto l'Unità produrre la Dualità?". Nella visione tradizionale che Guénon propugna, richiamandosi soprattutto al "Trattato della conoscenza dello Spirito", di Shankaracharya, la distinzione tra Bene e Male è prerogativa del manifesto. Il Male, dal punto di vista universale, non esiste. Anche gli errori o, meglio, verità relative, sono schegge della Verità totale. La stessa distinzione tra lo Spirito e la materia, tra valori e disvalori, ha senso solo sotto certi riguardi: lo Spirito, che è Trascendenza assoluta, è l'unica vera realtà.

Resta comunque l'onere di chiarire, pur all'interno di un sistema sostanzialmente monista, l'innegabile, sebbene transeunte, presenza del male: Guénon sostiene che il Demiurgo, concepito come creatore dell'universo materiale, non è una potenza esterna all'uomo: "Nel suo principio esso non è che la volontà dell'uomo, in quanto questa compie la distinzione fra il Bene ed il Male. Ma in seguito l'uomo, limitato come essere individuale da quella volontà che è la sua propria, la considera come qualcosa di esteriore a lui e così essa diviene distinta da lui, poiché essa si oppone agli sforzi che egli compie per uscire dal regno in cui si è rinchiuso da sé stesso, l'uomo la vede come una potenza ostile e la chiama Satan o l'Avversario. Osserviamo peraltro che questo Avversario, che abbiamo creato noi stessi e che creiamo in ogni momento - perché ciò non va considerato come avvenuto in un tempo determinato - questo Avversario, dicevamo, non è malvagio in sé stesso, ma è l'insieme soltanto di ciò che è contrario. Da un punto di vista più generale, il Demiurgo, divenuto una potenza distinta e visto come tale, è il Principe di questo mondo di cui si parla nel Vangelo di Giovanni... Il suo regno è visto come il Mondo inferiore."

Decisivo nello svolgimento delle argomentazioni è il richiamo al passo di "Genesi", inerente alla caduta dell'Adam Kadmon, l'Adamo primordiale la cui scissione fu causata da Nahash, l'egoismo o il desiderio di esistenza individuale, un impulso di separazione che spinge l'uomo ad assaggiare il frutto dell'Albero della Scienza del Bene e del Male.

Questo è il succo di un articolo onesto e limpido i cui cardini sono il male come proiezione umana e dualità. Il concetto di male quale oggettivazione lascia un po' perplessi: si ha l'impressione che tale "oggetto" mentale si sia solidificato. La volontà umana genera questa opposizione per identificarsi, per esistere tramite un principium individuationis.

Va osservato che la dualità è idea cruciale: in effetti la radice di "dualità" (di) si riconosce proprio nel termine “diavolo” (greco diabolon da diaballo, separo, divido): il male è dunque scissione, frattura.

Non mi pare molto persuasiva la resa di Nahash con “egoismo” che, invece, tradurrei con “conoscenza”, valore, però, evidenziato da Guénon con il cenno all’Albero della Scienza. I simboli del testo biblico – manca uno sguardo esegetico all’Albero della Vita - sono forse interpretati in modo un po’ parziale, ma la differenza tra Adam Kadmon e l’Adamo successivo coglie il decadimento da una condizione primigenia in cui l’uomo era in armonia con sé stesso e con il Tutto.

La vera origine della caduta resta un enigma che continua a sfidare anche gli intelletti più eccelsi.



APOCALISSI ALIENE: il libro

29 dicembre, 2010

Ringraziamenti ed auspici

Concludo le pubblicazioni del 2010, ringraziando tutti i lettori sia quelli silenti sia quelli abituati a commentare, per la loro fedeltà, per i suggerimenti bibliografici e sitografici, per i fondamentali contributi nelle ricerche e nelle riflessioni, con l’auspicio che l’anno nuovo, nonostante i prodromi poco favorevoli, porti a ciascuno il Graal.

Ad altiora.



APOCALISSI ALIENE: il libro

24 dicembre, 2010

Salvatori e carnefici

Chi avrebbe mai potuto immaginarlo in passato? L’ufologia ci ha portato sul limitare di una teologia dubitosa, interrogativa. Infatti, se è vero che l’universo è popolato di razze intelligenti, come pensano molti cosmologi ed esobiologi, ci chiediamo quale sia la relazione che intercorre tra le nazioni delle stelle ed il Creatore.

In verità, in questi ultimi anni il quadro delle ipotesi ufologiche si è spaccato: da un lato si disegna uno scenario di esseri benevoli in conflitto con la funesta Cabala del nostro pianeta. La Terra sarebbe uno dei pochi pianeti-prigione in un creato edenico. Altri ricercatori, invece, evocano insidiose interferenze aliene in un cosmo che pare “un accampamento di demoni”. E’ ovvio che questi due scenari sono rispettivamente due concezioni: nel primo caso un Dio amorevole e benigno attende solo che alcuni popoli evolvano per portare l’intera creazione al "punto omega" (Teillhard de Chardin); nel secondo, l’universo è un gigantesco teatro di guerra, dove razze bellicose si contendono l’egemonia di pianeti e sistemi solari. Un demiurgo pazzo gioca ad accendere ed a spegnere stelle, a plasmare ed a disintegrare mondi, mentre meteore ed asteroidi schizzano in uno spazio gelido, proiettati ai confini della notte. Questo universo entropico ed irrazionale, nato dal caso, corre verso la morte ed il silenzio. Civiltà sorgono, crescono, decadono, muoiono, mentre le orbite vuote dei buchi neri fissano il nulla, in una solitudine siderale.

Sebbene sia difficile aderire all’ipotesi monopolare che, tra l’altro, sancisce un antropocentrismo cosmico (terrestri con anima ed alieni brutti e cattivi), non mi sento di accogliere la versione edulcorata ed idealizzata degli extraterrestri angelici, chioma bionda e fluente, occhi cerulei. Sono ufonauti quanto mai pazienti e tolleranti: se avessero voluto, avrebbero potuto rovesciare, in un amen, la dittatura che schiaccia la popolazione di Gaia. Evidentemente sono buddhisti e poi - si sa - vige il principio della non-interferenza.

Probabilmente la verità sta nel mezzo, ma è una verità sfocata ed ammantata di perplessità.

Qual è il ruolo della specie umana in questo giuoco interplanetario? Siamo figli di Dio o schiavi di dei minori? Qualcuno ha agito da intermediario? Se l’interpretazione di Sitchin, Russo e altri ci vede come lavoratori alle dipendenze di signori poco o punto divini, la visione di Nigel Kerner ci trasforma in vittime di razze predatrici intente a cercare qualcosa la cui vera natura sfugge a noi come a loro. I Grigi descritti da Kerner sono androidi impegnati in una missione che non hanno neanche ben compreso e per conto di chi forse oggi è estinto. Questi Grigi sono simili a quei giocattoli meccanici che sbattono contro gli ostacoli, di qua e di là, finché non si esaurisce la carica.

Ha senso introdurre i concetti di caduta e redenzione per altre razze intelligenti? Questa domanda è ineludibile per i Cristiani. Alcuni di loro immaginano un percorso di colpa e salvezza anche su lontani pianeti; altri vedono nella Terra il centro del Tutto, poiché la vicenda dell’Incarnazione è una nostra prerogativa.

Echeggia la domanda iniziale sul rapporto tra queste stirpi e la Trascendenza: esuli che sperano, disperati, di tornare in patria, un po’ come noi… E’ l’universo ad essere stato bandito dal Paradiso e non l’Adam?

Se veramente la Terra è tra il martello di Arconti stranieri e l’incudine di potentati terreni, ci chiediamo quale sia il motivo di questo concorso di circostanze avverse. Fu solo sfortuna? Altrove che succede?

La via d’uscita non è il viaggio verso altri corpi celesti, ma verso altre dimensioni, scisse da questa.




APOCALISSI ALIENE: il libro

22 dicembre, 2010

Profeti del silenzio

Profezia non è predizione, ma eloquio in nome di Dio. Le traduzioni correnti hanno trasferito la pregnanza del momento aoristico nell’avvenire, sebbene l’aramaico e l’ebraico antichi ignorassero il tempo verbale del futuro. Così si è perduto il significato primigenio della profezia, che è monito, persino un relata refero.

I profeti sono interpreti degli indecifrabili arazzi divini: li scrutano con occhi ciechi, chiaroveggenti.

I vaticini sono anatemi terribili e promesse grandiose, fra viluppi di concetti abissali. L’oscurità della profezia è luce che abbacina: la voce del veggente vibra di echi trasumananti. Il profeta è figura glorificata e schernita. Ora è accolto come un ospite di riguardo ora maltrattato, quasi fosse un mendico cencioso e petulante.

I suoi passi, se non calcano la reggia e le sue adiacenze, attraversano il deserto su cui serpeggiano poche, esili nubi e dove, fra gli anfratti rocciosi sibilano i colubri, guizzano gli scorpioni. Giovanni Battista, la labile figura di predicatore ed anacoreta, fu vox clamantis in deserto. La Tebaide è il luogo dell’ascesi e della solitudine: la solitudine è il destino di molti profeti, veri e falsi.

E’ la dimensione dove la parola del profeta forse troverà finalmente chi possa ascoltarla.



APOCALISSI ALIENE: il libro

20 dicembre, 2010

La nona emanazione

“La nona emanazione” è un recente romanzo di Fabio Ghioni. L’autore, noto per aver scritto “Hacker Republic”, un saggio sul tema della sicurezza informatica in un’era purtroppo sempre più digitalizzata, ha preferito affidare alla narrativa un monito sui tempi finali. Va rilevato che in “Hacker Republic”, Ghioni tende a presentare un quadro senza dubbio veridico, ma, forse per non indispettire certi poteri, enfatizza il ruolo di pericolosissime associazioni a delinquere contro cui agiscono integerrimi agenti. Intendiamoci: i pirati informatici esistono e sono pure molto insidiosi, ma è certo che molti agiscono per conto del sistema, sotto mentite spoglie. L’inimicizia tra “guardie e ladri” è un clichè ed i confini tra criminalità e “legge” sono oggi più sfumati che mai.

Grazie alla fiction, lo scrittore può abbandonare la prudenza e lanciare il suo messaggio nella bottiglia. Così Ghioni snocciola il campionario dei “miti” post-moderni: il cataclisma che cancella la storia, il tiranno il cui abnorme potere militare pende a mo’ di spada di Damocle sull’umanità, l’impatto di un asteroide, un’invasione aliena… Questi scenari sono, però, eclissati da una minaccia tanto più sinistra quanto più occulta: non sono i governi terrestri a nascondere inquietanti verità, ma Altri… Una misteriosa organizzazione custodisce reperti extraterrestri su cui indaga il protagonista: le sue peripezie cominciano durante una notte stellata in un base della California. La storia, attraverso avventurosi intrichi, porta l’eroe nel cuore di sé stesso e sull’orlo di scoperte molto rischiose per il genere umano. Coloro che gestiscono i Temporal Archives sono ombre ferali.

“Forse esoterismo, ufologia e fantascienza sono solo etichette di comodo per questo libro dove Fabio Ghioni ha voluto narrare in forma di romanzo ciò che non poteva essere detto altrimenti”.

Certi contenuti dunque non si possono comunicare altrimenti giacché sono talmente estremi che paiono impossibili. Avvalersi della fantasia per veicolare temi spinosi è scelta frequente, ma non sappiamo quanto efficace. D’altronde la saggistica, anche quella più documentata e sostanziosa, è disdegnata o relegata in una nicchia. Quindi tanto vale tentare di aprire una breccia con un’opera letteraria. Purtroppo la fatica di Ghioni rischierà di confondersi nel mare magnum di titoli i cui ingredienti sono il 2012, le dimensioni parallele, gli scarti temporali, le intrusioni esterne, le catastrofi globali… In questo filone, spicca per talento ed ispirazione visionaria, Withley Strieber, con il suo Omega Point, racconto apocalittico e sgomento in bilico su una tragedia cosmica.

Non è sufficiente una buona ed adrenalinica storia per entrare nella buona letteratura, anche se non si può escludere che il futuro ci riservi scariche di adrenalina. Non causate, però, dalla lettura di un romanzo.

Ringrazio l'amico Gianni Ginatta per la segnalazione.



APOCALISSI ALIENE: il libro

17 dicembre, 2010

Grondaie ostruite

Che cosa accomuna credenze tanto diverse tra loro: la fede nella rinascita, nella resurrezione e nella sopravvivenza dopo la morte? La proiezione del presente nel futuro. E’ una forma di alienazione: dacché il bene latita in questo mondo, deve esistere una prospettiva in un altro spazio, in un altro tempo.

La dottrina della metempsicosi o, meglio, della metensomatosi, come di solito è intesa, è verosimilmente un radicale travisamento di un’idea originaria. Le inconseguenze della metempsicosi non hanno impedito che tale opinione si diffondesse in modo straordinario, con tutte le idee inerenti, anch’esse sovente volgarizzate, di karma, samsara, nirvana

Circa la fede nella resurrezione della carne ci erudiscono gli storici delle religioni, ricordandone la probabile scaturigine persiano-mazdea. Si infiltrò poi in alcuni correnti ebraiche, nel Cristianesimo e nell’Islam. Non sarà certo il soma imperfetto a risorgere, bensì il corpo glorioso, incorruttibile animato dal soffio divino.

Promette Paolo: “Ora, invece, Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti. Poiché, se a causa di un uomo venne la morte, a causa di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti; e come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo. Ciascuno, però, nel suo ordine: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo; poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni principato ed ogni potestà e potenza. Bisogna, infatti, che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L'ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte”. (1 Corinzi 15,20-26)

Il concetto di una sopravvivenza dopo il decesso è, pur nelle diverse accezioni, l’idea di un quid che, compiutosi il trapasso individuale, séguita ad esistere in un’altra realtà. Confortata da una tradizione molto antica e lambita da tenaci studi sulle “near death experiences”, la fede nella sopravvivenza dell’anima pare connaturata nell’uomo, in quanto essere senziente e sofferente, malgrado i proclami nichilisti di scienziati atei e di algidi agnostici.

Come fosse un filosofo, anche l’uomo comune è talvolta accecato dall’idea della morte e se, a differenza di Albert Camus non crede sia necessario dedicare ogni riflessione al suicidio, lo sfiora la sensazione che il gioco, sollazzevole o feroce che sia, debba un giorno finire.

Così, svalutato l’adesso, premuto dal macigno di un’esistenza torturante, gli uomini si pascono di queste amare ed avare speranze, consci che escluso il male, va, anzi andrà tutto bene. Come grondaie ostruite, attendono la pioggia celeste. Bisogna solo saper aspettare: intanto, mentre rimaniamo qui, incollati a ricordi dolorosi o crocifissi all’assurdo, alcuni savants non si peritano di spiegare il Male. Costoro, sempre pronti ad illustrare le loro grandiose teodicee, sono gli stessi che dal Male sono stati al massimo fugacemente sfiorati. Si sa: “Siamo tutti capaci a sopportare le sofferenze altrui” (W. Shakespeare)[1]. Molti non solo le sopportano: ne comprendono i più reconditi significati e risalgono alla loro origine.

Le spiegazioni per ogni malattia, guerra, tragedia, incidente, iniquità… sono lì, già belle e confezionate. L’industria delle risoluzioni non ha nulla da invidiare al mercato dei cellulari.

La porta della felicità è innanzi a noi, ma è sprangata. Tuttavia “domani è un altro giorno” e, chissà perché, si pensa che il futuro sarà migliore.

In questo modo la vita si protende, fidente e malcerta, sull’abisso dell’avvenire, del quale non si sa nulla, ma da cui tutto si spera.

[1] Su William Shakespeare, il cui vero nome fu quasi certamente Guglielmo Crollalanza, si legga l’articolo del Professor Francesco Lamendola, Quel grande punto interrogativo di nome William Shakespeare, 2010



APOCALISSI ALIENE: il libro


15 dicembre, 2010

Gog e Magog (seconda parte)

Leggi qui la prima parte.

In questo insieme di leggende si potrebbe enucleare un pur labile legame tra l’ebraismo e progetti egemonici, se si sofferma l’attenzione sul cenno di Giovanni Villani, secondo cui il figlio di Filippo II avrebbe serrato nei monti di Belgen un gruppo di Giudei. Si potrebbe pensare all’embrione da cui si formò l’etnia dei Khazari, creatori di un potente regno medievale, noto come khanato di Khazaria (652 – 1016)

I Khazari, di origine asiatica e di idioma turco, si erano insediati nelle steppe del sud-est russo a partire dal VII secolo. Il Khanato confinava a sud-ovest con l'Impero bizantino, a nord-ovest con il principato slavo normanno di Kiev, a nord con le terre abitate dai Bulgari del Volga.

Posto quindi in un punto strategico (qui passavano le rotte fluviali che dal Mar Nero conducevano sul Mar Baltico, qui arrivavano mercanti norreni, greci, arabi, bulgari, persiani diretti ad Nord e ad Ovest), il Khanato di Khazaria fu un importante centro economico e politico, luogo di incontro e di reciproco influsso tra lingue, culture e religioni diverse (Islam, Cristianesimo, Manicheismo, Animismo, Ebraismo).

Tra l'VIII secolo ed il IX secolo, consistenti nuclei di Ebrei, dopo aver attraversato il Caucaso entrarono in contatto con i Khazari. I sovrani di quest'ultimo popolo imposero, per motivi poco chiari, la conversione del Khanato alla religione ebraica. Questo fatto è stato alla base dell'elaborazione di diverse teorie, la più nota delle quali vuole gli Ebrei Ashkenaziti discendere direttamente dai Khazari (il romanziere ebreo Arthur Koestler sostenne in modo particolare questa tesi). Recenti studi genetici sembrano, però, dimostrare che elementi genetici originari del Medio Oriente dominano la linea maschile degli Ashkenazi (il cosiddetto cromosoma Y Aaron), ma la linea muliebre potrebbe avere una storia diversa. Da ciò alcuni hanno dedotto che uomini del Medio Oriente abbiano sposato donne locali[1]
, il che significa che gli Ashkenazi non sono imparentati con i Khazari o che questi rappresentano solo una parte degli antenati degli attuali Ashkenaziti. Ciò comferma la tesi del professor Gumilev esposta nel libro "From ancient Russia to Imperial Russia”, secondo cui gli attuali ebrei ashkenaziti non sono khazari di stirpe, perché discenderebbero da un gruppo di ebrei armeni (“ashkenaz” sta per “armeno”) mescolati alla nobiltà khazara. In effetti, solo una piccola parte dei Khazari si convertì realmente all'ebraismo, mentre il resto continuò a professare il proprio credo animistico e pagano, con una piccola minoranza di cristiani e musulmani.

Nell'anno 965 il principe di Novgorod e Kiev, il variago (normanno) Svjatoslav, in alleanza con la tribù dei Peceneghi, invase il corso meridionale del Don, provocando il collasso del Khanato e la diaspora dei superstiti Ebrei Khazari nella Russia occidentale ed in Polonia.



APOCALISSI ALIENE: il libro

10 dicembre, 2010

Blank

Il termine italiano “bianco” discende dal germanico "blank", “bianco lucente”, penetrato probabilmente già nel latino volgare. Nel X secolo è attestato il lessema “blancus”. Bianco è il colore del metallo, dell’acciaio scintillante: per questo si usa l’espressione “armi bianche”.

Il vocabolo subito ricorda il latte, ma soprattutto la neve: questo non-colore, che li accoglie tutti, è come un soffice mantello di cotone.

E’ questa l’impressione che suscita un paesaggio innevato, immerso in una quiete inviolabile, solenne, quasi fosse scesa con fragili ali di vento l’ora dell’addio. Il cielo trafitto dai puntali delle torri campanarie, i declivi su cui splendono le picche dei larici, la pianura laggiù incastonata di rogge vetrose… sono un deserto candido acceso di riverberi argentei, cangianti. Domina un senso di misteriosa solitudine, quasi il mondo fosse disabitato e lo stesso fumo che sale, in incerte volute dai comignoli, fosse solo il segno di un focolare che sta per spegnersi in dimore ormai abbandonate, vuote.

Vuoto è il bianco, poiché contiene, semi-cancellati e scialbi, i ricordi di quel che fu. Acceca quel bianco uniforme, acceca ed ammalia, quasi fosse l’ombra luminosa di una notte incantata, sospesa sull’alba di un sole straniero. E’ questo candore, mistico ed irreale - Edgar Allan Poe lo evoca nella parte conclusiva del romanzo “Le avventure di Gordon Pym”- che avvolge gli istanti finali, quando la luce più sfolgorante non abbacina più ed il tepore si stempera nel gelo dell’assenza.

“Blank verse”, in inglese, è il “verso libero dalle rime” forse perché le parole, sciolte dall’abbraccio di suoni innamorati, sprigionano più in fretta i loro echi nel vuoto della pagina e nello spazio sconfinato dell’anima. Il nulla, di cui il bianco è icona, si insinua fra le voci, permeandole goccia dopo goccia.

Alla fine è il silenzio la voce estrema.




APOCALISSI ALIENE: il libro

08 dicembre, 2010

Contro l’ottica newtoniana: la teoria dei colori di Goethe, tra scienza e mistero (articolo del Professor Francesco Lamendola)

Pubblico un pregevole articolo del Professor Francesco Lamendola. Il lavoro, trascelto nell'amplissimo e cospicuo novero dei suoi studi, inerisce alla teoria dei colori elaborata da Johann Wolfgang Goethe. L'autore, nell'illustrare il tema, sottolinea la dicotomia tra la scienza accademica e la conoscenza poetica di cui fu interprete l'inclito intellettuale tedesco. La piega che ha preso la ricerca scientifica è alla radice di molti mali che affliggono l'umanità: vi soggiace una razionalità profondamente irrazionale il cui apogeo è la follia battezzata "operazione scie chimiche". A proposito di colori, non è fortuito se, in questi ultimi lustri, siamo stati privati dell'azzurro, la frequenza (per usare un termine settoriale) che non solo è sintonizzata con il D.N.A., la macromolecola della vita, ma che è pure la tinta spirituale per eccellenza. Sul "colore" e sul "cielo", lessemi che hanno la medesima radice, si potrebbe indugiare a lungo, risaltandone le caratteristiche fisiche, accanto ai significati simbolici ed esoterici. Il discorso a proposito dei valori cromatici ci porta ad interrogarci sull'occhio: davvero questo meraviglioso organo è solo il frutto di un'evoluzione casuale o non è forse la manifestazione di un misterioso disegno? Spesso ci chiediamo perché non avvengano miracoli: eppure spalancare gli occhi ed ammirare la tavolozza dell'arcobaleno è un miracolo. Purtroppo non tutti possono vedersi compiere questo prodigio...

Johann Wolfgang Goethe (1749-1832) è stato giustamente definito come l’ultimo genio rinascimentale: non solo grande poeta, ma pittore, scienziato, pensatore. Un lato dei suoi interessi culturali e scientifici, che gli illuministi, i positivisti e i loro attuali eredi non gli hanno mai potuto perdonare, è quello rivolto al mistero e al soprannaturale; fra le altre cose, egli si accostò con sincero interesse alle dottrine mistiche di Emanuel Swedenborg, dileggiato – invece - da filosofi come Kant: segno di una indipendenza di giudizio e di una apertura sul reale a trecentosessanta gradi, insofferente di ogni moda e di ogni pregiudizio.

Goethe fu anche autore di opere scientifiche, che già ai suoi tempi incontrarono perplessità e incomprensioni e che, a tutt’oggi, rimangono pressoché ignorate dal grande pubblico, se non come documenti di una personalità indubbiamente ricchissima, ma in certo qual modo anacronistica; solo i suoi biografi si sono presi la briga di studiarle, a parte dagli antroposofi che, sulle orme di Rudolf Steiner, ne hanno fatto una componente essenziale delle loro concezioni cosmologiche, psicologiche e pedagogiche.

Gli interessi scientifici di Goethe andavano dalla botanica, alla mineralogia, alla fisica; ma è nel campo dell’ottica che egli diede il meglio di sé, scrivendo, in polemica contro Newton, quella «Teoria dei colori» («Zur Farbenleher»), che, pubblicata a Tubinga nel 1810, avrebbe dovuto consacrare, nelle sue intenzioni, un nuovo modo di intendere non solo l’ottica e la fisica, ma la scienza in generale; e che, invece, non scosse affatto l’establishment scientifico del tempo, né, tanto meno, come si è detto, quello a noi contemporaneo.

In che cosa consiste la novità della concezione scientifica di Goethe? Nel fatto che, in opposizione al modello dominante della cosiddetta Rivoluzione scientifica del XVII secolo, per essa il compito della conoscenza non è quello di conquistare e soggiogare la natura ai voleri dell’uomo (secondo la famigerata formula baconiana «sapere è potere»), bensì di ascoltarla amorevolmente, di porsi in sintonia con essa e di ritrovare, attraverso la meditazione su di essa, la via perduta dell’unità con tutte le cose (e qui traspare un certo influsso non solo delle teorie di Swedenborg, ma anche del panteismo di Spinoza).

La polemica antinewtoniana sulla natura della luce e dei colori non è che un caso esemplare di questa nuova concezione goethiana delle finalità e della stessa essenza del sapere scientifico: perché, per Goethe, il colore non è semplicemente una manifestazione della luce, che l’osservatore riceva passivamente, ma anche un'elaborazione dell’occhio e, quindi, della mente. Fenomeno attivo e non solo passivo, di cui entrano a far parte la psicologia, la simbologia, la spiritualità; ed è quasi inutile evidenziare come in tale concezione vi sia, «in nuce», anche l’approccio cromoterapico alla malattia, non a caso esso pure bandito dal filone principale della scienza accademica contemporanea.

L'articolo continua qui.



APOCALISSI ALIENE: il libro

07 dicembre, 2010

In edicola il nuovo numero di "X Times"

Presto sarà in edicola il n. 26 numero della rivista "X Times". In questo numero di dicembre, tra i vari articoli, tutti "fuori dal coro", vorrei segnalare il contributo sul digitale terrestre di Roberto Cavallo e Gianpaolo Saccomano e la ricerca di Biagio Russo, dedicata ai lulu amelu.

Qui
si può leggere il bell'editoriale della Direttrice, Lavinia Pallotta.


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06 dicembre, 2010

Lucky

Appesi ad un filo di speranza, mentre le fredde dita della pioggia tremano sui vetri ed una luce ruvida sgocciola sul letto.

Qui il tempo si ghiaccia nell’attesa muta, nell’immoto, inscalfibile silenzio della notte.



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04 dicembre, 2010

Il misterioso boato di Kokomo

Kokomo è una cittadina dell'Indiana (Midwest degli Stati Uniti d'America) dove il 16 aprile 2008 fu udita una fragorosa esplosione che generò una fortissima onda d'urto: i vetri delle finestre e gli infissi degli edifici tremarono nel raggio di 30 kilometri. La stessa notte molti abitanti di Kokomo e delle contee limitrofe videro una sfera arancione (altri testimoni descrissero una fila di luci fluttuanti all'orizzonte). A causa del boato, i centralini della Polizia e dei Vigili del fuoco furono subissati di telefonate per opera di cittadini spaventati. Almeno quaranta unità di soccorso furono allertate ed inviate sul luogo dove qualche testimone, come Mike Blake, aveva scorto precipitare un velivolo, ma le unità non reperirono rottami di nessun tipo né altre tracce di uno schianto.

Poiché presso Kokomo è ubicata la base aerea militare di Grissom, le autorità, pensando ad un bang prodotto da un velivolo in grado di superare la barriera del suono, interpellarono i responsabili della struttura: essi risposero che alle 22 e 15 tutti i jet erano a terra. In seguito, però, i militari e la Guardia nazionale cambiarono versione, chiarendo, con un dispaccio, che il boato era stato prodotto da un F-16. Fu dichiarato che i bagliori erano in realtà dei flares sganciati dall'F-16, flares usati per confondere i missili a ricerca di calore. Nei giorni successivi ai misteriosi eventi, il quotidiano “Indianapolis Star” pubblicò un articolo in cui si prendeva in considerazione l'ipotesi secondo la quale il fragore e le luci erano riconducibili ad una pioggia di meteoriti.

L'inchiesta sul caso, condotta da Glenn Means del M.U.F.O.N., consentì di scartare via via le spiegazioni che erano state fornite per giustificare sia i bagliori sia il formidabile bang. Non furono trovati rottami di aereo; non furono individuati crateri di impatto scavati dagli aeroliti; il rumore assordante non poteva essere stato determinato da un velivolo che aveva infranto il muro del suono, giacché i velivoli che producono bang ultrasonici devono incrociare a non meno di 30.000 piedi: a terra il bang prodotto a quell'altitudine è percepito come uno schiocco.

I ricercatori Acwort, Birnes ed Uskert hanno impiegato un cannone ad hoc per tentare di riprodurre l'intensità della detonazione udita dai cittadini di Kokomo, ma quasi tutti i testimoni hanno affermato che la deflagrazione del 16 aprile 2008 era stata molto più assordante rispetto a quella generata dall’apparecchiatura.

Alcuni investigatori hanno correlato il caso di Kokomo all’avvistamento, avvenuto il 16 gennaio 2008 a Denver (Indiana), a 45 km a nord di Kokomo, di una “torre volante”. L’ordigno, costellato di luci, fu notato dal ventiduenne Robbie Becks. L’oggetto, immortalato dal giovane in un video della durata di quattro minuti e realizzato con un cellulare, era diretto verso Kokomo.

Resta una congettura che non è stata presa in considerazione dai vari ricercatori ed è la seguente: il rimbombo di Kokomo potrebbe essere ascritto ad un esperimento militare in atmosfera, implicante tecnologie segrete e manipolazioni della materia-energia. E’ naturale che si tratta solo di una supposizione, ma il fenomeno dei rumori tonitruanti non attribuibili a cause note è sempre più frequente e le interpretazioni tradizionali (brillamento di mine, bang ultrasonici, collisioni in volo…) si rivelano sempre meno adeguate.

Fonti:

Boati in atmosfera: una nuova ipotesi, 2010
Investigazione condotta da Ted Acworth, Bill Birnes, Pat Uskert


Fonte: www.tankerenemy.com

APOCALISSI ALIENE: il libro

02 dicembre, 2010

Il mantello

"Il mantello" è un celebre racconto di Dino Buzzati. Dopo molto tempo, il figlio, Giovanni, partito per il fronte, torna a casa, accolto dalla gioia incontenibile della madre e dei fratellini. La donna, abbracciato il giovane, lo esorta invano a togliersi il mantello. Poi offertegli una tazza di caffé fumante ed una fetta di torta, invita il soldato ad entrare nella sua camera rimessa a nuovo, ma Giovanni esita, si guarda intorno, risponde a monosillabi alle amorevoli parole della mamma. Infine uno dei fratellini, Pietro, solleva il lembo del tabarro e vede una ferita sanguinante. L'uomo si congeda e si allontana, tra lo strazio dei familiari, con uno sconosciuto che l'ha atteso pazientemente durante l'addio.

Nell'incipit della novella l'autore intreccia la narrazione ("sua mamma stava sparecchiando") alla descrizione emotiva ("la speranza cominciava a morire"), permeata di grigiore. Poi il racconto si dipana per mezzo di dialoghi accorati tra la donna ed il figlio, dialoghi strozzati in monologhi, intessuti di domande angosciose, di slanci disperati per culminare in un cruento Spannung. La morte, che è il centro della storia, è evocata sin dal primo nucleo con l'immagine delle cornacchie, poi nella figura imbacuccata che cammina adagio là fuori, nel cancelletto verde, confine tra due dimensioni.

La bellezza della storia è soprattutto nel commovente ritratto della madre: la sua sofferenza infinita, pari solo al suo infinito amore, è come sacra, scolpita in un'ambascia indicibile, piena di dignità. Buzzati, più che narrare l'incontro con la morte, che resta sullo sfondo, simile ad un'ombra silenziosa, ad un'eco incombente, sceneggia un appuntamento con il destino. L'ultima partenza è già nella partenza di Giovanni per la guerra; l'addio definitivo è già "nella pena misteriosa ed acuta" che nasce nell'animo della donna, "in mezzo ai turbini della grandissima gioia".

Un oscuro presentimento attraversa tutto il racconto e si insinua fra gli incanti di un futuro impossibile ("Ormai era tornato, una vita nuova davanti, un'infinità di giorni disponibili senza pensieri, tante belle serate insieme, una fila inesauribile che si perdeva di là delle montagne, nelle immensità degli anni futuri"), serpeggia fra le primaverili illusioni ("tra poco cominciava la primavera, si sarebbero sposati in chiesa, una domenica mattina, tra suono di campane e fiori"). Il presagio divampa “tra bagliori di fuoco e si poteva pensare che anche lui fosse là in mezzo, disteso immobile a terra, il petto trapassato, tra le sanguinose rovine”. L’ominosa sensazione si materializza nella scena conclusiva, di sapore quasi gotico, “con i due cavalli che partirono al galoppo, sotto il cielo grigio, non già verso il paese, no, ma attraverso le praterie, su verso il nord, in direzione delle montagne. “

Così all’entusiasmo della madre fa da contrappunto la mestizia ed il pallore del figlio, ritrovato per un istante e per sempre perduto. Nei gesti pesanti e rassegnati del giovane, nella sua voce opaca, nella luce spenta che filtra dalle imposte è scritto quel che deve accadere. Se il libero arbitrio è la consolazione che può accompagnarci nel viaggio della vita, pare che il momento finale sia deciso ab aeterno. La fine è incisa sulla porta spalancata verso lo spazio, doloroso e mirabile, dell’esistenza.



APOCALISSI ALIENE: il libro