"Anelli nell'io Che cosa c'è al (sic) cuore della coscienza" è il recente saggio di Douglas Hofstadter. L'autore, noto per il ponderoso "Gödel, Escher, Bach: un'eterna ghirlanda brillante" nella nuova fatica "ci offre la summa dei suoi studi, una riflessione sui temi ed i quesiti centrali della filosofia e della spiritualità, dall'anima alla volontà, dal libero arbitrio alla coscienza".
Come si può intuire, Hofstadter, in questo testo più brillante che profondo, mette molta carne al fuoco, tentando di sondare l'enigma dell'identità umana. Hofstadter trae spunto da alcune conclusioni del logico e matematico Gödel per una variegata e spumeggiante indagine, costellata di titoli-calembour, di ingegnose metafore, di giochi linguistici e narrativi, di cerebrali elucubrazioni. Le risposte sull'anima (seità), in un libro tanto pirotecnico sono simili a fuochi d'artificio, scintillanti ma effimeri.
Certamente il saggio è da apprezzare per la crucialità dei temi affrontati: la frattura tra macrocosmo e microcosmo, l'essenza dell'io, la relazione tra cervello e consapevolezza, il rapporto tra sistemi simbolici ed io, la circolarità dell'esperienza umana, l'inconciliabilità di monismo e dualismo. Tuttavia non mi pare che Hofstadter, la cui formazione scientifica è un'ipoteca benché, nella fattispecie, leggera, approdi a lidi molto diversi da quelli cui erano arrivati altri filosofi prima di lui. Per H. L'identità è "un'allucinazione allucinata di un'allucinazione", un po' come per Hume l'anima che il pensatore scozzese reputava un'illusione condensata da mere abitudini percettive. Per il Nostro l'anima è una specie di banconota priva di per sé di valore intrinseco, un epifenomeno dell'encefalo che misteriosamente affiora dal movimento di particelle, dai segnali sinaptici. Che cosa resta dell'individuo dopo la morte? Niente, tranne un patterns di simboli, strutture concettuali che si trasferiscono da un cervello ad un altro. Questi patterns sono comunque destinati a svanire nel nulla prima o poi, come un software nel momento in cui l'hardware è distrutto.
Da materialista quale è, anche se il suo è un materialismo "debole", aperto a prospettive antropologiche, H. nega che possa esistere una mente staccata dal substrato organico, perché tale assunto genera un dualismo, "carico di arbitrarietà e di illogicità". Stimolante per i dubbi sollevati più che per le controverse tesi che "Anelli nell'io" snocciola, siamo indotti a ripensare "solide" certezze: il fondamento dell'etica e la libera volontà. Veramente ci siamo mai chiesti dove, come e perché il moto delle particelle e gli stati quantistici assurgano non solo a coscienza, ma a coscienza libera? Si è costretti a postulare l'esistenza di Dio, garante della morale, con il risultato di rendere un problema già intricato ancora più caotico. Siamo di fronte ad una totale irriducibilità tra fenomeni del micro-cosmo e gli atti che ingenuamente definiamo "liberi": "esigenze e decisioni sono il risultato di eventi fisici dentro le teste? Come possono essere libere? La volontà è una volontà libera? Possiamo sbizzarrirci a desiderare tutto quello che vogliamo, ma il più delle volte il nostro desiderio verrà frustrato". Deo gratias! Finalmente un autore che, rifuggendo da lenocinii, dimostra il coraggio di uccidere una vacca sacra, il libero arbitrio nonché l'assolutezza della morale.
Un altro idolo da abbattere è la fede nell'io come sostanza: non sappiamo se lo sia e, se pure è un arco di pietra, come scrive H., e non un arcobaleno, non possiamo dimostrarlo. In modo paradossale, la seità tanto fugace e labile, è, però, "la cosa più reale per ciascuno di noi": la microscopica coscienza di sé, amplificata dalla sofferenza, occupa tutto l'universo.
Osserva H. che quasi tutti i neuro-scienziati sono, obtorto collo, dualisti, ossia sono costretti ad ammettere che la mente è ontologicamente diversa dal cervello: egli è in totale disaccordo. Sebbene il dualismo sia irto di difficoltà, è la concezione che può salvare l'anima. Il riduzionismo porta ad un cul de sac: che risuoni in questo vicolo cieco una magnifica fuga di Bach è una ben magra e malinconica consolazione. O forse è meglio così.
[1] Il logico e matematico austriaco, naturalizzato statunitense, aveva dimostrato che nei sistemi formali, ad esempio, nei "Principia mathematica" di Russell e Whitehead, si danno proposizioni non dimostrabili o derivabili nel sistema stesso, pur essendo “vere” (incompletezza dell'aritmetica).
Come si può intuire, Hofstadter, in questo testo più brillante che profondo, mette molta carne al fuoco, tentando di sondare l'enigma dell'identità umana. Hofstadter trae spunto da alcune conclusioni del logico e matematico Gödel per una variegata e spumeggiante indagine, costellata di titoli-calembour, di ingegnose metafore, di giochi linguistici e narrativi, di cerebrali elucubrazioni. Le risposte sull'anima (seità), in un libro tanto pirotecnico sono simili a fuochi d'artificio, scintillanti ma effimeri.
Certamente il saggio è da apprezzare per la crucialità dei temi affrontati: la frattura tra macrocosmo e microcosmo, l'essenza dell'io, la relazione tra cervello e consapevolezza, il rapporto tra sistemi simbolici ed io, la circolarità dell'esperienza umana, l'inconciliabilità di monismo e dualismo. Tuttavia non mi pare che Hofstadter, la cui formazione scientifica è un'ipoteca benché, nella fattispecie, leggera, approdi a lidi molto diversi da quelli cui erano arrivati altri filosofi prima di lui. Per H. L'identità è "un'allucinazione allucinata di un'allucinazione", un po' come per Hume l'anima che il pensatore scozzese reputava un'illusione condensata da mere abitudini percettive. Per il Nostro l'anima è una specie di banconota priva di per sé di valore intrinseco, un epifenomeno dell'encefalo che misteriosamente affiora dal movimento di particelle, dai segnali sinaptici. Che cosa resta dell'individuo dopo la morte? Niente, tranne un patterns di simboli, strutture concettuali che si trasferiscono da un cervello ad un altro. Questi patterns sono comunque destinati a svanire nel nulla prima o poi, come un software nel momento in cui l'hardware è distrutto.
Da materialista quale è, anche se il suo è un materialismo "debole", aperto a prospettive antropologiche, H. nega che possa esistere una mente staccata dal substrato organico, perché tale assunto genera un dualismo, "carico di arbitrarietà e di illogicità". Stimolante per i dubbi sollevati più che per le controverse tesi che "Anelli nell'io" snocciola, siamo indotti a ripensare "solide" certezze: il fondamento dell'etica e la libera volontà. Veramente ci siamo mai chiesti dove, come e perché il moto delle particelle e gli stati quantistici assurgano non solo a coscienza, ma a coscienza libera? Si è costretti a postulare l'esistenza di Dio, garante della morale, con il risultato di rendere un problema già intricato ancora più caotico. Siamo di fronte ad una totale irriducibilità tra fenomeni del micro-cosmo e gli atti che ingenuamente definiamo "liberi": "esigenze e decisioni sono il risultato di eventi fisici dentro le teste? Come possono essere libere? La volontà è una volontà libera? Possiamo sbizzarrirci a desiderare tutto quello che vogliamo, ma il più delle volte il nostro desiderio verrà frustrato". Deo gratias! Finalmente un autore che, rifuggendo da lenocinii, dimostra il coraggio di uccidere una vacca sacra, il libero arbitrio nonché l'assolutezza della morale.
Un altro idolo da abbattere è la fede nell'io come sostanza: non sappiamo se lo sia e, se pure è un arco di pietra, come scrive H., e non un arcobaleno, non possiamo dimostrarlo. In modo paradossale, la seità tanto fugace e labile, è, però, "la cosa più reale per ciascuno di noi": la microscopica coscienza di sé, amplificata dalla sofferenza, occupa tutto l'universo.
Osserva H. che quasi tutti i neuro-scienziati sono, obtorto collo, dualisti, ossia sono costretti ad ammettere che la mente è ontologicamente diversa dal cervello: egli è in totale disaccordo. Sebbene il dualismo sia irto di difficoltà, è la concezione che può salvare l'anima. Il riduzionismo porta ad un cul de sac: che risuoni in questo vicolo cieco una magnifica fuga di Bach è una ben magra e malinconica consolazione. O forse è meglio così.
[1] Il logico e matematico austriaco, naturalizzato statunitense, aveva dimostrato che nei sistemi formali, ad esempio, nei "Principia mathematica" di Russell e Whitehead, si danno proposizioni non dimostrabili o derivabili nel sistema stesso, pur essendo “vere” (incompletezza dell'aritmetica).
Caro Zret, hai perfettamente centrato la tesi di Hofstadter, che potrebbe estendersi ad altri intellettualoni muniti di erudizione ma scarsi di saggezza. Bateson, invece, pur rimanendo di qua dal fiume, è più aperto, più disinvolto e coraggioso di tanti scienziati. È difficile incontrare pensatori moderni che non siano riduzionisti. Non mi convince nemmeno Capra, seppur innamorato delle filosofie orientali. Una sintesi scienza/spiritualità, oggi, appare difficilissima, a meno ché non si incasini tutto, confondendo livelli come naturale/sovrannaturale. Eppure, seguendo Bonaventura da Bagnoregio, un ponte, un canale cieloterra deve pur esistere...
RispondiEliminaE' vero: neanche Capra mi convince molto. Più che armonizzare la scienza più attuale con la spiritualità, si limita a giustapporle.
RispondiEliminaIl ponte esisterà pure, ma temo sia sottile a guisa di una lama, come è descritto nella tradizione zoroastriana.
Ciao e grazie.
Ciao Zret,
RispondiEliminaavresti qualche libro da consigliarmi su Zoroastro?
Grazie
Manuel
Ciao Manuel, in Italia il maggior studioso della tradizione persiana è Ezio Albrile. Trattasi di erudito, nell'accezione deteriore del termine. Inoltre è un intellettuale cattolico e ciò è un altro limite. Comunue nei suoi libri troverai utili riferimenti bibliografici.
RispondiEliminaCiao e grazie.