In “Screen tests, a diary”, 1967, l’artista statunitense Andy Warhol (Pittsburgh, Pennsylvania, 1930-1987) si domanda: “Che cos’è la vita? Ti ammali e muori. Perciò devi tenerti occupato.” Quest'agghiacciante pensiero sull’esistenza consuona con la gelida produzione di Warhol, basata sulla serialità serigrafica e sulla fredda ostentazione di forme mercificate, inerti. Nelle opere pop-industriali di Warhol, esempi di morte dell’arte e di arte della morte, l’ultimo residuo di citica nei confronti del sistema capitalista si mischia ad un’ambigua adesione.
Il pittore si accorge che il mondo in cui viviamo, lentamente, spesso in maniera quasi impercettibile, si spopola, a somiglianza di quelle fitte foreste pluviali che, aggredite dagli incendi, si trasformano in distese punteggiate da pochi alberi tristemente maestosi. Grazie alla loro imponenza, risalta ancora più la nuda desolazione circostante. Gli eventi sfavorevoli, le separazioni e le malattie fanno terra bruciata tutto intorno.
Warhol testimonia con le sue parole il disincanto, persino il cinismo di un’umanità ormai alla deriva, ma pure la sorda angoscia di chi, per tacitare l’inquietudine, cerca con frenesia – invano - di riempire ogni istante, come se il vuoto assoluto potesse essere colmato. Nelle pagine di “Screen tests” si avverte la putrefazione del Tutto, di cui si considera solo il lato materiale. Così l’artista scrive: “Sono andato in chiesa ed ho pregato Dio affinché mi consentisse di ottenere molto denaro”. Il già sordido dio-denaro è surrogato da un dio elargitore di denaro. Mai umiliazione fu tanto ima.
La visione di Warhol, pur aderente alla pelle dell’esperienza, appiattisce la vita e la mortifica, cancella i paesaggi interiori, annienta il senso. Persino il dolore e la morte, realtà che egli cerca di sterilizzare e di incellofanare con le sue riproduzioni anemotive, se ci gettano nello scoramento, in taluni casi, schiudono – sottile ma rischiarante spiraglio – orizzonti di possibilità, forse persino di redenzione.
Infatti “there must something else”, “ci dev’essere qualcos’altro”, sebbene non sappiamo che cosa.
Il pittore si accorge che il mondo in cui viviamo, lentamente, spesso in maniera quasi impercettibile, si spopola, a somiglianza di quelle fitte foreste pluviali che, aggredite dagli incendi, si trasformano in distese punteggiate da pochi alberi tristemente maestosi. Grazie alla loro imponenza, risalta ancora più la nuda desolazione circostante. Gli eventi sfavorevoli, le separazioni e le malattie fanno terra bruciata tutto intorno.
Warhol testimonia con le sue parole il disincanto, persino il cinismo di un’umanità ormai alla deriva, ma pure la sorda angoscia di chi, per tacitare l’inquietudine, cerca con frenesia – invano - di riempire ogni istante, come se il vuoto assoluto potesse essere colmato. Nelle pagine di “Screen tests” si avverte la putrefazione del Tutto, di cui si considera solo il lato materiale. Così l’artista scrive: “Sono andato in chiesa ed ho pregato Dio affinché mi consentisse di ottenere molto denaro”. Il già sordido dio-denaro è surrogato da un dio elargitore di denaro. Mai umiliazione fu tanto ima.
La visione di Warhol, pur aderente alla pelle dell’esperienza, appiattisce la vita e la mortifica, cancella i paesaggi interiori, annienta il senso. Persino il dolore e la morte, realtà che egli cerca di sterilizzare e di incellofanare con le sue riproduzioni anemotive, se ci gettano nello scoramento, in taluni casi, schiudono – sottile ma rischiarante spiraglio – orizzonti di possibilità, forse persino di redenzione.
Infatti “there must something else”, “ci dev’essere qualcos’altro”, sebbene non sappiamo che cosa.