30 settembre, 2011

Qualcos'altro

In “Screen tests, a diary”, 1967, l’artista statunitense Andy Warhol (Pittsburgh, Pennsylvania, 1930-1987) si domanda: “Che cos’è la vita? Ti ammali e muori. Perciò devi tenerti occupato.” Quest'agghiacciante pensiero sull’esistenza consuona con la gelida produzione di Warhol, basata sulla serialità serigrafica e sulla fredda ostentazione di forme mercificate, inerti. Nelle opere pop-industriali di Warhol, esempi di morte dell’arte e di arte della morte, l’ultimo residuo di citica nei confronti del sistema capitalista si mischia ad un’ambigua adesione.

Il pittore si accorge che il mondo in cui viviamo, lentamente, spesso in maniera quasi impercettibile, si spopola, a somiglianza di quelle fitte foreste pluviali che, aggredite dagli incendi, si trasformano in distese punteggiate da pochi alberi tristemente maestosi. Grazie alla loro imponenza, risalta ancora più la nuda desolazione circostante. Gli eventi sfavorevoli, le separazioni e le malattie fanno terra bruciata tutto intorno.

Warhol testimonia con le sue parole il disincanto, persino il cinismo di un’umanità ormai alla deriva, ma pure la sorda angoscia di chi, per tacitare l’inquietudine, cerca con frenesia – invano - di riempire ogni istante, come se il vuoto assoluto potesse essere colmato. Nelle pagine di “Screen tests” si avverte la putrefazione del Tutto, di cui si considera solo il lato materiale. Così l’artista scrive: “Sono andato in chiesa ed ho pregato Dio affinché mi consentisse di ottenere molto denaro”. Il già sordido dio-denaro è surrogato da un dio elargitore di denaro. Mai umiliazione fu tanto ima.

La visione di Warhol, pur aderente alla pelle dell’esperienza, appiattisce la vita e la mortifica, cancella i paesaggi interiori, annienta il senso. Persino il dolore e la morte, realtà che egli cerca di sterilizzare e di incellofanare con le sue riproduzioni anemotive, se ci gettano nello scoramento, in taluni casi, schiudono – sottile ma rischiarante spiraglio – orizzonti di possibilità, forse persino di redenzione.

Infatti “there must something else”, “ci dev’essere qualcos’altro”, sebbene non sappiamo che cosa.

APOCALISSI ALIENE: il libro

La squola della Gelmini - di Antonio Marcianò - Gemme scolastiche da collezionare

27 settembre, 2011

La Piramide del Potere

Vi sono due storie: la storia ufficiale, menzognera, che ci viene insegnata, la storia ad usum Delphini, e la storia segreta, dove si trovano le vere cause degli avvenimenti, una storia vergognosa”. (Honore de Balzac)

La Piramide del dollaro è differente dalle celebri ed enigmatiche costruzioni egizie. Fu Adam Weishaupt (Ingolstadt, 1748 - Gotha 1830) a sostituire al vertice della piramide il delta luminoso. Weishaupt, che aveva studiato in una scuola tenuta dai Gesuiti, dopo che nel 1773 papa Clemente XIV ebbe soppresso la Compagnia fondata da Ignazio de Loyola nel 1539, diventò professore di diritto canonico ad Ingolstadt. Il giorno 1 maggio del 1776 Weishaupt fondò l’Ordine dei Perfettibili, poi Illuminati: era una confraternita che si prefiggeva di diffondere la luce della ragione, per dissipare le tenebre del pregiudizio e della superstizione. Le idee sovversive di Weishaupt, nutrite di istanze massoniche, attirarono i sospetti di Karl Theodor, elettore di Baviera. La società di Weishaupt fu sciolta: egli dovette abbandonare la cattedra universitaria ed allontanarsi dalla Baviera.

Weishaupt definì l'occhio al vertice della piramide "The Insinuating Bretheren", ma nell'ambiente era conosciuto anche come "Occhio gnostico di Lucifero", o "Occhio Onniveggente". L’occhio onniveggente appare poco “umano”, poiché è attorniato da squame: gli Illuminati si consideravano i discendenti di un’antica specie rettile.

Il significato della Piramide del Potere incarna l'ambizione stessa della setta: la creazione di un governo mondiale guidato da una cerchia di iniziati. La Piramide riprodotta sul dollaro è formata da tredici piani. Sulla base figura la data MDCCLXXVI, ossia 1776, l’anno in cui fu fondato l’ordine e della dichiarazione d’indipendenza per opera degli Stati Uniti d’America.

Le tredici file di mattoni rappresentano le tredici fasi di tredici anni l'una che gli Illuminati avevano deciso di percorrere per conquistare l’egemonia mondiale. [1] Si comincia dalla fondazione per giungere sino al 1945, fine della Seconda guerra mondiale ed istituzione dell’O.N.U, potente braccio delle élites. Risalendo la piramide, anno per anno, nel 1945 si tange lo spazio che separa il corpo della piramide (simbolicamente la "Prima Era") dall'occhio. Tale iato coincide con una fase di ventisei anni (tredici e tredici) definita "Seconda Era" che principia nel 1945 e termina nel 1971. Si tocca così il Delta Luminoso, ovvero la "Terza Era". In progressione geometrica, questa è formata da tre lassi di tredici anni l'una (trentanove anni in tutto) dal 1971 al 2010. A questo punto, secondo i progetti degli Illuminati, nessuno sarebbe più in grado di sventare l’instaurazione del Nuovo ordine mondiale.

La Piramide del Potere è raffigurata sulla banconota da un dollaro a sinistra del Gran Sigillo. Qui sono riportati due motti: in basso "Novus Ordo Seclorum" (diciassette lettere) ed in alto "Annuis coeptis (tredici grafemi), ossia “Favorisce gli iniziati” o “Ha acconsentito alle azioni intraprese” (scilicet Lucifero).

La Piramide del Potere fu mostrata per la prima volta il 4 luglio del 1776 sulla bozza della biglietto da un dollaro. La bozza fu poi modificata varie volte, invertendo tra l’altro la posizione dell’Aquila calva (il Gran Sigillo) e quella della Piramide originariamente a destra, prima della versione definitiva risalente al 20 giugno 1782. Il Congresso approvò l’uso del Gran Sigillo per rappresentare gli Stati Uniti il 15 settembre del 1792. L’iconografia fu in seguito cambiata ancora, finché nel 1933 Franklin Delano Roosvelt, Presidente degli Stati Uniti 1933 al 1945, nonché massone del trentesimo e secondo grado, stabilì che fosse stampato il “verdone” con la Piramide ed il Gran sigillo effigiati sul retro: da allora si è mantenuto questo modello.[2]

Un aspetto su cui occorre indugiare circa la Piramide del dollaro è l’inclinazione dei lati, riconducibile al fenomeno noto come “precessione degli equinozi”. L’obliquità di circa 23 gradi, inclinazione dell’asse terrestre, è collegata all’avvicendamento delle ere astrologiche. Il cambio di era è correlato ad eventi significativi sul piano cosmico e politico-sociale. I cosiddetti “Illuminati” tengono in gran cale la natura e gli influssi degli astri in senso sia essoterico sia esoterico: i confini cronologici del ciclo solare, pari ad 11,1 anni, corrispondono sovente ad avvenimenti cruciali. Così il 2012, a distanza di undici anni dai tragici fatti del 9 11, si prospetta come annus fatidicus, giacché impostato su una scansione temporale incentrata sul numero 11, suddivisione a sua volta intrecciata al ciclo di tredici anni.

Il precipitare degli eventi in tutto il pianeta induce ad interpretare il 2012 come snodo decisivo, forse anno in cui il Governo invisibile esautorerà gli ultimi esecutivi nazionali, che ancora detengono un simulacro di sovranità, per tentare di imporre la sua esecranda supremazia.


[1] Il tredici è cifra ferale. Già Esiodo, nel poema didascalico “Le opere”, consigliava agli agricoltori di non cominciare la semina il tredici del mese. Stando a certi autori, il significato funesto di tale numero sarebbe da ricercare nella persecuzione dei Templari, avviata da Filippo IV il Bello il 13 ottobre del 1307, ma già nell’anno bisestile babilonese il tredicesimo mese era rappresentato da un corvo, segno di sventura. La tredicesima lama degli Arcani maggiori è la Morte.

[2] Alcuni scrittori sottolineano la parentela tra gli Illuminati e gli Alumbrados, una confraternita nata in Spagna nel XV secolo; altri opinano che Weishaupt agì in incognito per i Gesuiti, artefici di congiure e trame. Senza negare il ruolo precipuo di Sion nella cospirazione globale volta all’affermazione di una dittatura satanica, è d’uopo ricordare almeno che furono i Gesuiti a decidere l’uccisione di Abraham Lincoln, reo di aver stampato una banconota emancipata dal signoraggio con cui gli usurai controllano l’economia e la finanza mondiali. E’ arduo stabilire se furono i Gesuiti ad infiltrare alcune logge massoniche o se influenti famiglie ebraiche sin dall’età moderna - si pensi ai Rotschild - furono le ideatrici dei piani di dominio globale. Gli Alumbrados – scrive Pizzuti – furono una creatura di Ignazio de Loyola: se ciò è vero, si potrebbe vedere nell’insospettabile Compagnia di Gesù (o in una sua ramificazione degenerata?) la “cupola” del potere terreno, mentre Sion sarebbe l’esecutrice. Quasi tutti i ricercatori collocano, invece, all’apice dei lignaggi ebrei e, al limite, riconoscono che la Chiesa cattolica post-conciliare è stata cooptata per attuare i disegni della sinarchia. Sia come sia, sarà opportuno denunziare i cosiddetti “Illuminati” come servi di maleficentissime entità invisibili: nel Vangelo detto di Giovanni ed in altri testi gnostici sono chiamati “Arconti”. I banchieri sono sì molto potenti (e prepotenti), ma essi stessi ottemperano ad ordini impartiti da… altri.

[3] Le aste del compasso massonico hanno un’inclinazione non dissimile, rintracciabile pure nella lettera A-piramide che figura nella testata del quotidiano dei vescovi italiani “Avvenire” dove la A è accostata alla solita V, icona cornigera… Sono coincidenze?

Fonti:

S. Daath, La Piramide massonica
Enciclopedia dei simboli, Milano, 1999. s.v. numeri
Epiphanius, Massoneria e sette segrete: la faccia occulta della storia, Albano Laziale, 2002
C. Penna, Pubblicità spudorata per il progetto di una moneta unica per l’Occidente, 2011
M. Pizzuti, Rivelazioni non autorizzate, Vicenza, 2009, pp. 28-32 e 60-63


APOCALISSI ALIENE: il libro

La squola della Gelmini - di Antonio Marcianò - Gemme scolastiche da collezionare

25 settembre, 2011

Destino

Frammento di un racconto incompiuto

La vetta maestosa s'innalza nel deserto del cielo, le pendici aride s'incendiano al sole meridiano, quando le ombre scavano solchi neri sui fianchi precipiti. Il monte, immoto come un dio di pietra, ignora il tempo: i millenni, le ere, coi loro vortici di sabbie, gli passano accanto.

L'alba striscia fra i caprifichi e gli anfratti, il giorno lo scolpisce nella luce vitrea, nella notte le radici delle costellazioni spaccano il granito: così l'eterno si ripete, mutevole perennità. Così le cose nascono e periscono, in una vece eterna, senza principio, senza fine…

Il vento tra le forre fende i silenzi, affilando i crinali. L'eco si rifugia nelle grotte umide, per perdersi infine nell’orizzonte orlato di fragili nubi.

La cima, elevata verso l’arco della luna, ancora sfida il destino, mentre lenta sale la marea dell’oscurità.

APOCALISSI ALIENE: il libro

La squola della Gelmini - di Antonio Marcianò - Gemme scolastiche da collezionare

22 settembre, 2011

L'invasione degli intraterrestri (seconda parte)

Leggi qui la prima parte.

Nel sottosuolo reale e nel sottosuolo della Storia ci mena l’ingegnere polacco, Ferdinand Ossendovsky: nel suo celebre libro, “Uomini, bestie e dei”, sono citati i luoghi noti come Shamballah ed Agarthi. Lo scrittore narra l’odissea occorsagli tra il 1920 e il 1921 quando, attraversando l’Asia centrale, avrebbe scoperto l’entrata di uno straordinario regno ipogeo. Ospite poi del Bogdo Khan di Mongolia, venne a sapere che più di sessantamila anni fa un santo scomparve nel sottosuolo con un’intera tribù e non riapparve mai sulla faccia della Terra. Tuttavia, da allora, molte persone hanno visitato quel regno: Sakyamuni, Undur Gheghen, Khan Baber ed altri ancora. Nessuno sa dove si trovi questo luogo. Alcuni indicano l’Afghanistan, altri l’India. Tutti coloro che vivono nel regno scavato nella terra sono salvi dal Male ed entro i suoi confini il crimine non alligna. La scienza ha potuto svilupparsi pacificamente e non esiste minaccia di distruzione. Il popolo sotterraneo ha raggiunto le vette della conoscenza. Oggi è un grande regno popolato da milioni di uomini e il Re del mondo è il loro sovrano. Egli conosce tutte le forze della natura, legge in tutte le anime umane e nel grande libro del loro destino. Infine governa non visto ottocento milioni di uomini sulla superficie della Terra ed essi seguono ogni suo ordine.

Secondo la leggenda, narrata da René Guénon nel saggio “Il Re del mondo”, trenta o quaranta secoli fa esisteva nel Gobi una civiltà che, in seguito ad una catastrofe, forse nucleare, fu falcidiata. Il Gobi diventò un deserto e gli scampati emigrarono: alcuni verso l’Europa settentrionale, altri verso il Caucaso. I maestri della civiltà, i detentori della conoscenza, si insediarono in un immenso labirinto di caverne sotto la catena dell’Himalaya. Colà si scissero in due gruppi, seguendo l’uno la via della mano destra, l’altro la via della mano sinistra. La prima via avrebbe trovato il suo centro in Agarthi, luogo di contemplazione e di saggezza; la seconda sarebbe passata per Shamballah, città della sopraffazione e della potenza le cui forze comandano agli elementi, alle masse umane ed affrettano l’arrivo della Storia allo spartiacque dei tempi.

Costantino Paglialunga ha dedicato una monografia agli abitanti della Terra cava. Paglialunga ritiene che il nostro pianeta non sia una sfera con un nucleo di magma incandescente, ma che, escluso uno strato esterno spesso 1250 km, sia vuoto e dotato di un sole centrale dalla luce dorata in grado di illuminare e riscaldare i continenti disposti lungo la superficie interna della crosta. La lava occuperebbe solo la zona mediana della falda esterna del pianeta e, sempre in quella zona, la polarità della gravità si invertirebbe, permettendo agli abitanti sotterranei di aderire al loro suolo, rovesciato rispetto al nostro. Sarebbe possibile accedere al mondo interno attraverso aperture circolari che periodicamente si formano ai Poli o anche passando per altri varchi del pianeta (pure in Italia) o mediante ingressi interdimensionali.

Innumerevoli leggende rievocano luoghi meravigliosi come Eldorado, Shamballah, Shangri-là, Agarthi… popolati, secondo Paglialunga, da terrestri evoluti, tra cui molti scienziati, extraterrestri appartenenti a diversi livelli evolutivi, i Grigi (?) originari del sole centrale di Giove, eredi di popolazioni che abitavano in continenti distrutti da cataclismi.

Paglialunga annota: “E’ indispensabile chiarire che in Occidente il termine Agartha si usa per identificare un altro continente sotterraneo localizzato nel nord della Terra. Si estende in corrispondenza della parte settentrionale dell’Europa, della Russia, dell’Alaska e del Canada… E’ un luogo di espiazione per tutti gli esseri che hanno condotto un’esistenza dissoluta”.

In alcuni casi, le leggende sui regni sotterranei si legano alle visite, avvenute in tempi remoti, di esseri dello spazio. Si pensi all’épos concernente Akakor.

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La squola della Gelmini - di Antonio Marcianò - Gemme scolastiche da collezionare

18 settembre, 2011

Rancore

Strange world people kill and people hate and people talk and people kill and still I wonder wonder why why. (Ke)

Dalle incomprensioni e dalle inezie provengono i mali maggiori.

Qualche giorno addietro è morto nel mare prospiciente Ventimiglia un giovane. Stava compiendo una battuta di pesca in apnea, quando, per tentare di liberare la fiocina rimasta incagliata sul fondale, arpione con cui aveva uncinato uno scorfano, è stato colto da una sincope sicché non è potuto tornare in superficie. E’ purtroppo una delle tante tragedie che gettano nella disperazione parenti ed amici. Il luttuoso evento è poi tanto più atroce, se si considera che è una fine prematura.

Eppure questa disgrazia unisce, sebbene – lo ammetto – in un rapporto squilibrato, due vittime: anche lo scorfano arpionato ha incontrato una morte orribile, dopo una lunga agonia. Dobbiamo riconoscere che un unico inspiegabile destino di sofferenza affratella gli esseri viventi, carnefici e vittime, a tal punto che il carnefice di oggi è la vittima di domani o viceversa, a tal punto che non si sa più chi possa reputarsi davvero innocente. Così, forse, prima o dopo, come sostiene qualcuno, pagheremo il fio con usura dei nostri sbagli ed è plausibile che alcuni paghino lo scotto (anche di altre esistenze?) in anticipo. Del giovane ligure resteranno le fotografie che lo immortalano, l’espressione orgogliosa, con i suoi sanguinari trofei di pesca.

In verità, agli uomini non è concesso sconfiggere il male che domina la Terra: è solo possibile tentare di alleviare qualche sofferenza e cercare di rendere il mondo un po’ migliore di quanto non sia, anche con piccoli gesti, se non è dato compiere atti decisivi ed eroici. Tuttavia siamo alacremente impegnati proprio nelle azioni contrarie! Nota giustamente William Golding che “l’uomo produce il male, come le api producono il miele”. Così al danno ontologico, ineliminabile, aggiungiamo altri danni. Nella sventura ci accapigliamo, dando il peggio di noi stessi, come ci insegna quel grande moralista che fu Alessandro Manzoni, con l’icastica descrizione dei capponi di Renzo. Nella buona sorte il nostro egoismo si accentua in modo parossistico; nella cattiva ci dividiamo. Nessuna etica ha mai cambiato né mai cambierà lo stato delle cose.

Un filo sottile connette l’epica catastrofe, che miete migliaia di vittime, al dissapore familiare che ci avvelena intere giornate. Siamo sempre di fronte al granitico mistero del dolore, in tutte le sue manifestazioni, con tutta la sua gamma: dalla semplice contrarietà alla disperazione, passando per la delusione, il patimento psicologico, l’amarezza, lo sconforto, il cruccio. Paradossalmente un’immane tragedia talora è più facile da tollerare del rancore sordo di chi pensavamo non fosse capace di nutrire tale acredine, del tradimento di un amico(?): in fondo, la nostra vita scorre “tranquilla” come prima, se non fosse che dentro, qualcosa si è rotto... per sempre.[1]

E’ una sofferenza invisibile che traspare solo in alcuni momenti, in uno sguardo velato di tristezza, nell’improvvisa increspatura della fronte. E’ uno strazio tanto più intollerabile, perché sovente originato da motivi futili. Lascia un solco profondo nell’animo: possiamo perdonare, non dimenticare. L’esperienza non insegna alcunché. Riusciamo a rovinare tutto con il puntiglioso orgoglio.

Ancora più della malvagità annichilisce e delude la meschinità che molti uomini dimostrano: se la scelleratezza ci rende figli del Diavolo, la miseria morale testimonia un vuoto disarmante. Invano abbiamo cercato l’umanità nell’umanità: neppure si può postulare l’esistenza di un dio secondario, genitore di un’umanità tanto arida.

È come se la vita ci fosse stata data in prestito, ma ci comportiamo, quasi ne potessimo disporre ad libitum per sempre, ripetendo errori e ripicche, in una sequenza che non sembra aver fine.

Uomini siffatti da tempo non credono più in Dio: non credono in nulla, se non nel denaro e nell’ego. Neppure Dio – se esiste – crede più in codesti suoi figli. Come dargli torto?


[1] Nietzsche scrive che “gli uomini magnanimi sono incapaci di risentimento”: ha ragione, ma penso che si contino sulle dita di una mano… monca.

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16 settembre, 2011

Il pensiero di Maritain: luoghi comuni ed adesione al sistema

Il francese Jacques Maritain (1882-1973), tra i maggiori propugnatori del neo-tomismo, incarna l’inconsistenza di un pensiero che scivola nei luoghi comuni. Così, se da un lato un autore come Emil Cioran, vigoroso e dirompente nel suo lucido “pessimismo”, è quasi ostracizzato (è difficile trovare un suo profilo o passi delle sue opere in enciclopedie ed antologie filosofiche), a Maritain è dedicato più spazio di quanto non meriti un filosofo così insulso.

Nel saggio “Introduzione alla filosofia”, Maritain definisce la filosofia come “la conoscenza scientifica che, mediante la luce naturale della ragione, considera le cause prime o le ragioni più alte di ogni cosa”. Nell’opera “Principi di una politica umanista” scrive: “Sappiamo che una delle caratteristiche essenziali di una civiltà degna di questo nome, è il senso ed il rispetto per la dignità della persona umana; sappiamo che per difendere i diritti della persona umana come per difendere la libertà, bisogna essere disposti a dare la propria vita… L’uomo è un individuo che si regge con l’intelligenza e la volontà; non esiste soltanto al(?) mondo fisico, ma sovraesiste spiritualmente in conoscenza ed in amore, in modo tale che in qualche modo è un universo a sé…”.

Potrei riportare altri passaggi desunti dai testi di Maritain, ma ci imbatteremmo in altrettali banalità: non è che alcune asserzioni non siano condivisibili, ma il pensiero del neo-tomista è di una superficialità disarmante, di deprimente piattezza. Come se non bastasse la trita ripetizione di concetti preistorici da temino svolto da uno studente di prima media, Maritain si sciacqua la bocca con espressioni retoriche e vacue, come “persona umana”. Ahinoi, tale sciatta, ambigua dicitura ha invaso i discorsi ed i libri di questi tempi degradati in cui il linguaggio rispecchia con il suo grigiore un modo di “ragionare” dozzinale. Sembra di ascoltare le omelie di un prete annoiato o le bolse, magniloquenti allocuzioni di Napo Orso Capo: così la fede ed il laicismo, coronando il sogno di Maritain, si danno la mano. Nell’indifferenziazione del linguaggio (un cattolico oggi parla come un comunista, un vescovo come un sindacalista) si manifesta l’omologazione.

Se la filosofia contemporanea si protende spesso verso concettualizzazioni astruse, verso compiacimenti intellettualistici, ha avuto comunque il coraggio di demistificare “verità” consolidate, di demolire idoli. Gli indirizzi ermeneutici, epistemologici, strutturalisti…, pur con molti limiti, hanno contribuito ad operare un trascendimento del common sense, a disintegrare i dogmi dell’idealismo, del realismo e dello scientismo. Con Maritain inciampiamo di nuovo in convincimenti ingenui che credevamo appartenenti ad un lontano passato. Non solo, tali convinzioni sono spiattellate senza un minimo di riflessione filosofica: oggettività del mondo, libertà, volontà, causa (!!!)… sono idee date per acquisite.

Che cosa caviamo dunque dai libracci di Maritain? Dei cliché e degli allettamenti: sono proprio le caratteristiche della comunicazione attuale. In “Scienza e saggezza” leggiamo: “Non dimentichiamolo, la scienza è buona in sé stessa; come tutto ciò che deriva dalle attività dello spirito in cerca della verità, essa è qualcosa di naturalmente sacro e guai a chi disconosce la sua dignità!” Non manca quindi quella soggezione per la scienza, peculiare dei nostri tempi, per cui chi osa discutere certi postulati scientisti, è messo alla gogna ed additato come eretico.

Il pensiero deve scuotere dal torpore, provocare, affermare per negare, assurgere a dialettica incessante: non può adagiarsi sugli allori della convenzionalità. Si intende: la filosofia di Maritain è rassicurante, mediatrice, concilia scienza e fede. Per questi motivi piace. E’ proprio quello che agogna la nostra società addormentata: un “pensiero” tranquillizzante, sedativo, acritico. Non sorprendiamoci poi, se, nonostante le rivoluzioni epistemologiche, ci tocca leggere le scempiaggini dei negazionisti che, nella loro saccente ignoranza, confondono “fatti” con teorie, tesi con protocolli, teoremi con assiomi… Naturalmente i disinformatori difettano della capacità di distinguere tra teorico ed empirico, non riescono a concepire problemi di natura epistemologica e credono, da ammuffiti positivisti quali sono, che la scienza fornisca tutte le risposte, purché non intacchino il loro sistema di credenze. Più fideisti di una beghina, ignorano tutte le questioni linguistiche attraverso cui si struttura l’analisi del mondo.

Responsabile dello scadimento culturale è in buona parte la scuola, dalle primarie all’università: essa inculca, presentandola come l’unica vera, una “logica” binaria, impone modelli matematici realisti, trasmette cognizioni utilitaristiche, disconosce il senso estetico, soprattutto veicola quell’umanismo d’accatto ed ipocrita, lo stesso di cui trasudano gli scartafacci di Maritain, fautore di un arrogante antropocentrismo senza centro, di una filosofia del tutto priva di amore per la conoscenza.

Quasi in modo paradossale, tutti gli autori che affermano di battersi per la libertà e la dignità dell’individuo (si pensi a Karl Popper) sono gli stessi che, con i loro modelli sclerotici e la loro denigrazione del dissenso, concorrono ad avallare l’establishment. Incapaci di operare una critica implacabile dell’esistente, bandiscono il riformismo, il gradualismo, il migliorismo. In Maritain non si va oltre le buone intenzioni, oltre il generico e dolciastro appello alla creazione di una società più giusta ed umana. Ci vuole ben altro che una precettistica di valori e di buoni sentimenti. Sarebbe necessario un pensiero divergente, anti-umanista, di radicale contestazione del sistema.

Se la celebrazione che il Nostro tesse degli alleati i quali, durante la Seconda guerra mondiale combatterono “per la giustizia e la libertà” (“L’uomo e lo Stato”), non è propaganda mondialista, ma dabbenaggine, è pur sempre da condannare: deficienti e disinformatori, pur tanto diversi, propalando le medesime versioni ufficiali, ratificano le menzogne del potere.

Consideriamo le dissertazioni di Maritain prediche, circolari ministeriali, ebeti tracce per gli esami di stato, al limite mediocri componimenti di alunni standardizzati, ma NON filosofia.

Maritain sembra l’incarnazione dell’insegnante-tipo: nozionista, allineato, razionale, dispensatore di un “sapere” predigerito, dal quale gli scrittori rivoluzionari sono esclusi o, peggio, dove sono normalizzati. Speriamo che, pur in una società tanto conformista e programmata, un allievo alzi la mano per chiedere il perché del perché.

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La squola della Gelmini - di Antonio Marcianò - Gemme scolastiche da collezionare

12 settembre, 2011

Progetto

Quando sento qualcuno che elabora progetti per il futuro, non so se sorridere o compatire. Quale futuro? Le nuove generazioni credono che tutto quanto continuerà più o meno come prima: non percepiscono i prolegomeni del disfacimento che gli adulti, invece, il più delle volte sottovalutano. Quasi tutti gli adolescenti ed i giovani, pragmatici ed utlitaristi, studiano figurandosi una carriera. Il sistema li ha abituati a perseguire obiettivi meramente materiali: così, una volta che avranno completato gli studi, andranno incontro a cocenti delusioni. Dalla scuola odierna si può apprendere solo qualche conoscenza utile ai fini pratici e nulla (o quasi) che possieda un vero significato culturale. Non avranno neppure il conforto di una poesia da declamare nella mente, prima della fine.

Molti non hanno compreso che siamo ormai prossimi ad un guado doloroso, decisivo. Per la prima volta, nel percorso del genere umano, non è soltanto la storia a disgregarsi, ma la realtà, così come la conosciamo. I progetti che saranno attuati non sono quelli dei cittadini, ma quelli dei potentati… e sono diametralmente opposti. Figurarsi una vita “normale” con un lavoro, una famiglia, le ferie estive è utopia: il mondo piccolo piccolo del borghese sta per crollare.

Negli anni che seguiranno sarà un miracolo, se preserveremo uno stato di salute accettabile, se qualcuno manterrà l’equlibrio di fronte ad eventi terribili, estremi. Ho visto quali sono le reazioni delle persone che amano definirsi “spirituali”, “evolute”: se prospetti loro la possibilità che un giorno non lontano manchi l’essenziale per sopravvivere, la loro “spiritualità” si sbriciola come una cialda. Un uomo veramente evoluto di fronte alle sventure ed alla morte, si comporta come un saggio stoico, ma oggi la “saggezza” non prescinde dalla carta di credito.

I più accorti prenderanno delle precauzioni, ma non è sicuro che le attenzioni li metteranno al riparo. E’ verosimile che alcuni cambiamenti saranno a tal punto repentini e distruttivi che atterreranno anche i prudenti. La situazione incombente non è neppure assimilabile alle circostanze che precedettero il declino dell’Impero romano: non vedremo popoli esterni profilarsi minacciosi all’orizzonte. Il nemico non è alle porte della città: l’ha già espugnata, senza che ce ne accorgessimo.

E’ vano ed illusorio progettare. Viviamo questi ultimi scampoli di presente, consci che l’ingranaggio sta per incepparsi. D’altronde non ci si può augurare che l’attuale stato di cose continui ancora a lungo, logorato da una decadenza sempre più turpe, in uno stillicidio intollerabile.

Meglio il deserto, dove rarissime ma fecondatrici piogge favoriscono meravigliose fioriture, che un “paradiso” di plastica.

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09 settembre, 2011

Coloro che dal cielo caddero

Il numero 6 dell’albo “The secret”, ideato da Giuseppe di Bernardo, si intitola “Coloro che dal cielo caddero”. Le avventure di Adam Mack sono ambientate in Iraq, l’antica Babilonia, la terra in cui, secondo alcune tradizioni (e traduzioni), approdarono esseri provenienti da un altro pianeta, gli Anunnaki. Gli autori del soggetto e sceneggiatori, Francesco Matteuzzi e Giuseppe Di Bernardo, avvalendosi di due bravissimi disegnatori, Riccardo Pieruccini e Beniamino Del Vecchio, coniugano mito e storia, digressioni filosofiche ed attualità in un episodio, come sempre, pirotecnico.

Nel prologo le crudeli azioni belliche di Saddam Hussein contro i Curdi anticipano una delle puntate più cruente della serie: la devastazione dello stato medio-orientale per opera delle forze occidentali, la corruzione della “democrazia” irakena, il saccheggio del museo archeologico di Baghdad con la distruzione di alcuni reperti che adombrano inquietanti segreti.

Il montaggio russo, accanto alle inquadrature (primi piani e dettagli) che tagliano in modo non realistico le scene, rendono serrata e quasi straniante la narrazione, mentre il gioco delle analessi scompone e ricompone gli eventi, senza, però, che si perda il filo, grazie ad una sapiente regia.

L’ironico e smagato Adam Mack si confronta con il fascino del misticismo sufi e con le sorprendenti conoscenze (genetiche e spirituali) codificate nella Qabbalah. Se, ancora una volta, il suo razionalismo corrosivo tende a prevalere, vi si aprono delle brecce che forse preludono ad un cambiamento di paradigma. E’ nella babelica, labirintica realtà di un mondo insanguinato che si può intravedere una via d’uscita? Gli autori tendono a vedere il varco per la liberazione nella conquista della propria anima, nonostante le tetre ombre del passato e le incombenti minacce del futuro prossimo.

Daniele Di Luciano e Laura Caselli di “Lo sai”, nella presentazione dell’episodio scrivono: “Alcuni argomenti trattati in ‘The secret’, come la sovranità monetaria, le scie chimiche, le società segrete, il Nuovo ordine mondiale dovrebbero comparire sulle prime pagine dei quotidiani oltre che nei fumetti”. Come dare loro torto?

Relegati questi soggetti scomodi in angoli stretti, respinti ai margini dell’informazione, una volta di più si comprende che la “cultura” ufficiale è la cassa di risonanza di un potere le cui parole sono vuote e false. Schegge di verità sono conficcate dove forse non ci aspetteremmo di trovarle.

APOCALISSI ALIENE: il libro

07 settembre, 2011

Angelology

Può l’orrore irradiare luce? In che cosa risiede la fascinazione del male? Sono le domande che, come proiettili, colpiscono il lettore di “Angelology”, opera prima dell’italo-statunitense Danielle Trussoni. L’autrice, con questo romanzo fastidioso e coinvolgente, irrigidito nei cliché, eppure in parte insofferente dei soliti steccati, ci conduce nel sulfureo regno degli angeli prigionieri.

E’ naturale: bisogna chiedersi che senso oggi abbia il genere, ormai scaduto nell’intrattenimento più volgare ed effimero o, di converso, (ma è un’antitesi apparente) nei prodotti cervellotici ed ottusi di Umberto Eco, il cui ultimo conato, “Il cimitero di Praga”, è il cimitero di ogni speranza in una resurrezione del romanzo.

La letteratura contemporanea, se veramente affonda in questi tempi martoriati e folli, aborre dalla narrativa, perché non è possibile raccontare l’iterazione del non-senso che semmai si può affidare ad una fotografia, eternatrice della morte.

Così ci accontentiamo di abbozzi, di quasi-testi che, nella loro incompiutezza, spalancano abissi di pensieri. Ci beiamo di saghe interrotte oppure di opere come “Angelology”, il cui valore è nei frammenti che scheggiano gli specchi di consolidate percezioni e concezioni. Dimentichiamo dunque gli angeli tradizionali, quelli che finiscono, con tanto di diafane ali e di tuniche elegantemente drappeggiate, nei libri della New age. Figuriamoci, invece, creature (i Nefilim, gli Anakim ed i Gibborim) in cui una bellezza sfolgorante si congiunge ad una malvagità assoluta, quasi il divino (sia pure un divino decaduto) ed il diabolico si compenetrassero. Dimentichiamo i celestiali cori angelici sovrastati dalla musica che incanta ed uccide.

A differenza di molti autori d’oggi, la Trussoni non massacra la lingua (ma il verbo “posizionare” è una scelta delittuosa dei traduttori), anzi manifesta una certa vena poetica, quando indugia nella descrizione di New York, raggelata nei rigori invernali, nella pittura di interni ora sontuosi ora disadorni. La sensibilità muliebre le consente di evocare emozioni, intensità di sguardi e chiaroscuri di sfondi naturali, anche se la citazione delle marche (di scarpe, abiti, accessori) è fatuo snobismo.

Dopo alcuni capitoli psicologici, il romanzo si immette nel solco del thriller storico. I cerchi concentrici delle analessi e la decorosa costruzione di alcuni personaggi si innestano talvolta (e sono le parti migliori) sulla riflessione che ha al centro la ferocia del male, giunto sulla terra con gli alati Nefilim.

Per affrontare il tema vertiginoso delle tenebre che incombono sul mondo, occorre una tempra che la Trussoni non possiede, ma in alcune pagine l’autrice riesce a far vibrare le corde dello Spannung, mentre la melodia terribile della lira appartenuta ad Orfeo echeggia nelle pagine che dipingono la metamorfosi di Evangeline, la protagonista.

L’avventura può ora assurgere ad un volo tanto imponente, quanto solitario e pericoloso.

Ringrazio l'amica Lavinia per avermi consentito di venire al corrente del romanzo, grazie alla sua recensione su "X Times".

APOCALISSI ALIENE: il libro

La squola della Gelmini - di Antonio Marcianò - Gemme scolastiche da collezionare

05 settembre, 2011

Le radici dell’esserci in Jaspers: qualche nota

Per il filosofo tedesco Karl Jaspers, l’esistenza è sempre in situazione. La situazione è l’orizzonte in cui si trova l’esistenza, in quanto Dasein, esserci, essere qui ed ora. L’uomo tende a percepire la vita come un quid che sempre trascende la condizione data, in cerca della realizzazione delle proprie possibilità. In questo senso, l’esistenza è libertà: il termine, però, non va inteso nel senso di “libero arbitrio”, come indifferenza tra molteplici opportunità equivalenti, ma come amor fati, presa di responsabilità del proprio Dasein, entro confini precisi.

Le situazioni-limite (sofferenza, senso di colpa, lotta e morte) esprimono in modo ancora più cogente la responsabilità della vita di fronte a sé stessa: gli abissi che si spalancano ad ogni passo impongono una scelta che non può essere elusa. E’ una scelta radicale: o si accetta la situazione-limite o si precipita nell’autoannientamento. L’esistenza è condanna a decidere, ma l’opzione non è un "poter essere", piuttosto "un non poter non essere".

In modo lapidario, Jaspers compendia la sua visione fatalista nell’aforisma: "Posso, perché sono costretto". Ognuno di noi assomiglia a Sisifo che spinge, con spasmi orrendi, il ponderoso macigno. Incastrato in una condizione storica ed esistenziale prestabilita e limitata, l’individuo si illude di essere libero, ma può soltanto prendere su di sé il peso del proprio destino. L’uomo non può non morire, non può non essere colpevole, non può non lottare: il naufragio delle azioni e delle opportunità dichiara la totale impossibilità di essere.

Scrive il pensatore nell’opera "Filosofia": "Io sono sempre in situazioni, io non posso vivere senza lotta e dolore. Fatalmente sono destinato alla morte… Tali situazioni sono immutabili, definitive, incomprensibili, irriducibili, non trasformabili, soltanto chiarificabili. Sono come un muro contro cui urtiamo fatalmente".

Eroico ed ostinato, l’uomo continua ad urtare contro il muro, metafora dell’inscalfibilità e dell’irrazionalità. Chi può comprendere o spiegare l’assurdo?

Mi pare che Jaspers tenda a sovrapporre al Dasein il senso di colpa: non è una colpa motivata da un errore di cui comunque non siamo responsabili, ma è stessa mancanza di fondamento dell’esistenza. La colpa è nell’esserci: per questo motivo, si traduce in una sensazione oscura, si condensa in un’ombra che accompagna la vita. E’ un’ipoteca non riscattabile, un debito che non può essere saldato. Nelle circostanze vertiginose, si radica la profondità dell’esistere: "Il mio trovarmi in una situazione sempre determinata significa che io esisto tanto più decisamente, quanto più esercito la mia azione nella situazione unica ed irripetibile".

Le esperienze abissali ci mettono in contatto, in comunicazione con il possibile senso dell’essere che, comunque, resta sempre "altro" ed "oltre", come le immani radici di un albero secolare di cui vediamo solo poche propaggini.

APOCALISSI ALIENE: il libro

La squola della Gelmini - di Antonio Marcianò - Gemme scolastiche da collezionare

04 settembre, 2011

In edicola X Times di settembre

Dal 5 settembre sarà in edicola il nuovo numero di "X Times", rivista diretta da Lavinia Pallotta e da Pino Morelli. Il lucidissimo editoriale di Lavinia Pallotta è incentrato sulla farsa di "Wikileaks" e sul 9 11.

APOCALISSI ALIENE: il libro

La squola della Gelmini - di Antonio Marcianò - Gemme scolastiche da collezionare

03 settembre, 2011

Ruderi

Possiamo costruire il nostro mondo solo su ruderi, puntellare le rovine, accumulare macerie su macerie. Possiamo disseppellire scarti, rovistare fra soffitte polverose, in cantine piene di ragnatele.

Putrelle arrugginite e rovi strappano il cielo, coperchio di piombo sulla terra crepata. Il vento è un fiato ammorbante. Svenati, i fiumi rantolano tra carcasse di alberi.

Un peso invisibile schiaccia la vita, ormai grido soffocato, sanguinante silenzio.

APOCALISSI ALIENE: il libro

La squola della Gelmini - di Antonio Marcianò - Gemme scolastiche da collezionare

01 settembre, 2011

L’invasione degli intraterrestri (prima parte)

Forse siamo stati distratti dalle sfere che brillano in cielo. Quante pellicole stanno annunciando un’invasione dallo spazio! Depistaggio? O un accerchiamento?

Sentenziano Pauwels e Bergier: “Gli storici sono razionali, ma la storia è irrazionale”. Da millenni una razza sanguinaria domina la Terra: è alluso nelle più venerande tradizioni, le tradizioni che ci ostiniamo ad ignorare. Amiamo pascerci di rassicuranti bugie, adagiarci su soffici cuscini, anche se con l’imbottitura piena di chiodi.

Lo scrittore britannico Edward Bulwer Lytton (1803-1873) è autore di un romanzo intitolato “Vril, la razza che verrà”. Protagonisti dell’opera sono uomini la cui vita psichica è molto più evoluta della nostra. Essi hanno acquisito una mirabile padronanza di sé stessi e delle cose, divenendo simili a dei. Per il momento si tengono ancora nascosti in caverne, ma presto ne usciranno per soggiogare definitivamente l’umanità. Bulwer Lytton era affiliato ad una confraternita che contraffaceva i Rosacroce. E’ celebre per il romanzo storico “Gli ultimi giorni di Pompei”, ma coltivò molti generi e sottogeneri: nei suoi racconti soprannaturali soffia il vento gelido dell’angoscia. L’idea di Vril in origine si trova nelle opere dello scrittore francese Louis Jacolliot (1837-1890, console di Francia a Calcutta, durante il Secondo impero. Nei libri “I figli di Dio” (1873) e “Le tradizioni indoeuropee” (1876), Jacolliot asserisce di essersi imbattuto nel Vril tra i Giainisti di Mysore e Gujarat. Il termine Vril, con cui lo scrittore di Albione indica l’energia usata dalle creature sotterranee, fu ripreso nell’ambito di sette magico-esoteriche che prelusero al Nazionalsocialismo. Questi movimenti erano contraddistinti da un particolare interesse per temi quali il Graal, la lancia di Longino, ma soprattutto per le memorie riguardanti Agartha, l’antichissimo e mitico impero situato sotto l’altipiano del Tibet. È un mistero l’identità e l’origine del popolo che vi dimorerebbe da tempo immemorabile: i sopravvissuti di Atlantide o di Mu o creature extraterrestri o interdimensionali?

Tra la Grecia e la Bulgaria si snoda per circa 300 km la catena dei Monti Rodopi, che culminano nel Monte Sjutkja (2188 m) nella terra un tempo chiamata Tracia, la regione di cui fu originario Orfeo, il mitico cantore e suonatore di lira, figlio di Apollo e di una Musa. Nei Monti Rodopi si apre, non lungi dal villaggio di Trigrad, la Gola del Diavolo. La Gola fende il fianco d’una montagna per proseguire sottoterra dove si slarga in un enorme pozzo le cui pareti a strapiombo sono di granito. Nel sottosuolo scorre un fiume che forma un’imponente cascata. Entrando nelle grotte, i primi esploratori riferirono di aver scorto strane luci e di aver provato una sensazione di euforia, probabilmente a causa di esalazioni inebrianti.

Gli antichi Elleni ritenevano che la Gola del Diavolo fosse l’adito dell’Oltretomba varcato da Orfeo per ricondurre nel mondo dei vivi l’adorata consorte Euridice, perita per il morso di un serpente. In alcune tradizioni medievali, l’orrida spelonca della Gola fu considerata il luogo in cui precipitarono gli angeli ribelli, dopo essere stati espulsi dal Cielo. I cristiani della plaga credevano che la spaccatura netta e verticale dell’ingresso fosse stata creata dal corpo ardente di Lucifero, quando procombé nell’Ade. Secondo alcuni studiosi, il nome “Gola del Diavolo”, deriva dalla forma dell’imboccatura che ricorda la testa di un demonio.

Per molto tempo, si è tramandato che l’antro fosse la prigione non solo della milizia degli angeli riottosi, ma anche dei “Figli di Dio”, le creature citate in Genesi 6 e nell’apocrifo libro di Enoc. Definiti Vigilanti (Irin) dal patriarca Enoc, tale progenie di messaggeri disobbedienti era caduta in disgrazia presso Dio, dopo che gli Irin, avendo copulato con donne umane, avevano procreato la stirpe ibrida dei Nephilim. Per questo misfatto, i Vigilanti erano stati incarcerati sotterra. La loro tenebrosa segreta è menzionata in Giuda 1,6. Nella lettera attribuita a Giuda Tommaso, si legge: “Egli tiene in catene eterne nelle tenebre, per il giudizio del gran giorno, gli angeli che non conservarono la loro dignità, ma lasciarono la loro dimora.”

I Vigilanti e gli angeli caduti, guidati da Lucifero, appartenevano probabilmente a gruppi differenti: i primi al decimo ordine dei ben Elohim (figli di Dio? figli degli dei?); il diavolo e la sua coorte provenivano dalla schiera dei Malakim (esseri potenti, spirituali). Mentre il diavolo era stato condannato al fuoco eterno, i Vigilanti (o una loro fazione?) erano stati rinchiusi per un tempo lunghissimo, ma determinato. Essi dunque attendevano di essere liberati dalla loro cattività nelle viscere della Terra.

APOCALISSI ALIENE: il libro

La squola della Gelmini - di Antonio Marcianò - Gemme scolastiche da collezionare