Sgomenta ed attrae l'abisso del nulla. Ci chiediamo per quale motivo gli uomini evitino la solitudine: anche gli anacoreti cercano nel silenzio dei loro romitaggi tra le montagne o nei deserti di udire la voce di Dio. L'uomo comune, per combattere l'isolamento, si circonda di "amici" e di conoscenti, li tempesta di telefonate, li subissa di inviti.
Un impulso incoercibile spinge le persone a cercarsi, ad unirsi: i fidanzati, oggi teneri e romantici, domani, sposi, si detesteranno o si sopporteranno vicendevolmente. Intanto avranno procreato e generato una terza infelicità. Anche qui agisce una sorta di horror vacui, una paura del vuoto, una smania di colmarlo in qualche modo. E' per questa ragione che l'autore crepuscolare Marino Moretti in una sua malinconica lirica, si chiedeva se non dovesse risolversi ad avere un figlio o almeno a piantare un tiglio. Si desidera lasciare qualcosa di sé, prima che le ombre avvolgano tutto.
In verità, non sappiamo che cosa ci attenda oltre la soglia e se perderemo per sempre quanto abbiamo costruito con passione e spirito di sacrificio. Forse scivoleremo nel nulla: allora sarà stato vano ogni affanno ed ogni gioia, vana ogni conquista ed ogni sconfitta. E' possibile che l'universo contempli questa destinazione per gli uomini. Forse, invece, ci aspetta un'altra vita altrove o di nuovo su questo pianeta.
Di fronte ai patimenti dell'esistenza, alle spine confitte nel cuore, al lento, irreversibile declino, il nulla non spaventa più, ma ci appare come un porto di pace. Solo grazie all'anestetico che ogni notte, se non siamo insonni, ci elargisce l'oblio, riusciamo a tollerare i mille triboli che straziano l'anima di giorno.
Antichi filosofi amaramente conclusero che è "meglio non esser nati": nichilismo assoluto, ma non scaturito per lo più da pose atee e provocatorie, a differenza il nichilismo di alcuni pensatori contemporanei, bensì sgorgato da una profonda, sconfinata esperienza del dolore.
Avremmo evitato questa abnorme mole di mali, se... Distinguiamo: non tutti i destini sono uguali. Il cupio dissolvi afferra gli sventurati ed i malinconici; gli altri vivono ogni dì, come se fosse il primo. Anche, questi ultimi, però, quando si affacciano, a causa dell'età avanzata o di una grave malattia, sul limitare dell'ignoto, si domandano che cosa sia e sia stato preferibile: immersi in pensieri ombrosi, tetri si interrogano sul senso (o non-senso?) del percorso, contemplano il baratro, incerti tra tremore e speranza. In ogni vita può leggersi in filigrana il significato recondito? Giace un significato nell'esistenza, a somiglianza di una partitura che, mentre per un profano è solo un bello ma insignificante insieme di glifi, diventa una melodia di fronte al musicista? Ci interroghiamo se ciascun evento del cosmo, dal palpito d'ala di una farfalla all'edificazione di una cattedrale gotica, obbediscano ad un piano segreto o se il caso, come un demiurgo maldestro, si sia insinuato in ogni dove.
Pensare ad un ordine mirabile, di là dalle eterogenee, confuse, lacerate apparenze, richiede fervida immaginazione. Non sappiamo rinunciare al senso, poiché in esso è la nostra consolazione, ma anche la giustificazione del tutto. E’ possibile che il cosmo sia frutto del caso? Forse il cosmo è la meravigliosa creatura di un Dio assalito da un senso di solitudine: i fogli bianchi sono lì per essere riempiti di parole, le tele per essere abbellite di figure e paesaggi, i silenzi per essere costellati di note, i cieli trapunti di astri… Da quel desiderio originario promanano tutti gli altri, come in un’irradiazione di luce ai confini del buio.
Non abbiamo certezze e forse, possiamo se non accettare, rileggere sotto una nuova luce un’accorata massima di Giacomo Leopardi contenuta nello Zibaldone: “Non v’è altro bene che il non essere: non v’ha altro di buono che quel che non è; le cose che non son cose: tutte le cose sono cattive”.
Di là dal nichilismo raggelante, si coglie un’intuizione: l’intuizione che, in fondo l’essere vero è imparentato con il non essere. Basilide scrisse:“Il Principio è l’inesistente”. Così certamente “le cose”, le mere cose, inerti e dure, sono insensate, mentre solo nel non essere delle cose così come sono è il bene. Se immaginiamo le cose radicalmente trasfigurate, restituite al loro valore originario, esse recuperano quel riverbero di Assoluto che hanno perso. Appunto “le cose che non sono cose”, il tempo e lo spazio che non sono più né tempo e spazio, ma orizzonti inimmaginabili di un “essere oltre” possono attingere l’estasi della vita. Qualsiasi paradiso confinato sulla Terra è un eden da cartolina turistica.
In fondo poi il Nulla, tanto vituperato e temuto, non è forse la sorgente del tutto, la fonte invisibile e sotterranea da cui erompono i fiumi dell’essere? Dio nella teologia negativa è Assoluto di là dell'essere e del non-essere e quindi privo di specificazioni, ineffabile secondo il linguaggio umano e qualsiasi altro linguaggio. E’ l’Assoluto che si specchia nel lago del Nulla: forse è per questa ragione che la rarissima esperienza del Nulla, annichilente ed abissale, paradossalmente ci avvicina al divino.
Un impulso incoercibile spinge le persone a cercarsi, ad unirsi: i fidanzati, oggi teneri e romantici, domani, sposi, si detesteranno o si sopporteranno vicendevolmente. Intanto avranno procreato e generato una terza infelicità. Anche qui agisce una sorta di horror vacui, una paura del vuoto, una smania di colmarlo in qualche modo. E' per questa ragione che l'autore crepuscolare Marino Moretti in una sua malinconica lirica, si chiedeva se non dovesse risolversi ad avere un figlio o almeno a piantare un tiglio. Si desidera lasciare qualcosa di sé, prima che le ombre avvolgano tutto.
In verità, non sappiamo che cosa ci attenda oltre la soglia e se perderemo per sempre quanto abbiamo costruito con passione e spirito di sacrificio. Forse scivoleremo nel nulla: allora sarà stato vano ogni affanno ed ogni gioia, vana ogni conquista ed ogni sconfitta. E' possibile che l'universo contempli questa destinazione per gli uomini. Forse, invece, ci aspetta un'altra vita altrove o di nuovo su questo pianeta.
Di fronte ai patimenti dell'esistenza, alle spine confitte nel cuore, al lento, irreversibile declino, il nulla non spaventa più, ma ci appare come un porto di pace. Solo grazie all'anestetico che ogni notte, se non siamo insonni, ci elargisce l'oblio, riusciamo a tollerare i mille triboli che straziano l'anima di giorno.
Antichi filosofi amaramente conclusero che è "meglio non esser nati": nichilismo assoluto, ma non scaturito per lo più da pose atee e provocatorie, a differenza il nichilismo di alcuni pensatori contemporanei, bensì sgorgato da una profonda, sconfinata esperienza del dolore.
Avremmo evitato questa abnorme mole di mali, se... Distinguiamo: non tutti i destini sono uguali. Il cupio dissolvi afferra gli sventurati ed i malinconici; gli altri vivono ogni dì, come se fosse il primo. Anche, questi ultimi, però, quando si affacciano, a causa dell'età avanzata o di una grave malattia, sul limitare dell'ignoto, si domandano che cosa sia e sia stato preferibile: immersi in pensieri ombrosi, tetri si interrogano sul senso (o non-senso?) del percorso, contemplano il baratro, incerti tra tremore e speranza. In ogni vita può leggersi in filigrana il significato recondito? Giace un significato nell'esistenza, a somiglianza di una partitura che, mentre per un profano è solo un bello ma insignificante insieme di glifi, diventa una melodia di fronte al musicista? Ci interroghiamo se ciascun evento del cosmo, dal palpito d'ala di una farfalla all'edificazione di una cattedrale gotica, obbediscano ad un piano segreto o se il caso, come un demiurgo maldestro, si sia insinuato in ogni dove.
Pensare ad un ordine mirabile, di là dalle eterogenee, confuse, lacerate apparenze, richiede fervida immaginazione. Non sappiamo rinunciare al senso, poiché in esso è la nostra consolazione, ma anche la giustificazione del tutto. E’ possibile che il cosmo sia frutto del caso? Forse il cosmo è la meravigliosa creatura di un Dio assalito da un senso di solitudine: i fogli bianchi sono lì per essere riempiti di parole, le tele per essere abbellite di figure e paesaggi, i silenzi per essere costellati di note, i cieli trapunti di astri… Da quel desiderio originario promanano tutti gli altri, come in un’irradiazione di luce ai confini del buio.
Non abbiamo certezze e forse, possiamo se non accettare, rileggere sotto una nuova luce un’accorata massima di Giacomo Leopardi contenuta nello Zibaldone: “Non v’è altro bene che il non essere: non v’ha altro di buono che quel che non è; le cose che non son cose: tutte le cose sono cattive”.
Di là dal nichilismo raggelante, si coglie un’intuizione: l’intuizione che, in fondo l’essere vero è imparentato con il non essere. Basilide scrisse:“Il Principio è l’inesistente”. Così certamente “le cose”, le mere cose, inerti e dure, sono insensate, mentre solo nel non essere delle cose così come sono è il bene. Se immaginiamo le cose radicalmente trasfigurate, restituite al loro valore originario, esse recuperano quel riverbero di Assoluto che hanno perso. Appunto “le cose che non sono cose”, il tempo e lo spazio che non sono più né tempo e spazio, ma orizzonti inimmaginabili di un “essere oltre” possono attingere l’estasi della vita. Qualsiasi paradiso confinato sulla Terra è un eden da cartolina turistica.
In fondo poi il Nulla, tanto vituperato e temuto, non è forse la sorgente del tutto, la fonte invisibile e sotterranea da cui erompono i fiumi dell’essere? Dio nella teologia negativa è Assoluto di là dell'essere e del non-essere e quindi privo di specificazioni, ineffabile secondo il linguaggio umano e qualsiasi altro linguaggio. E’ l’Assoluto che si specchia nel lago del Nulla: forse è per questa ragione che la rarissima esperienza del Nulla, annichilente ed abissale, paradossalmente ci avvicina al divino.
Esimio Zret, hai la capacità di farmi andare su per ragionamenti (per questo fallaci, penso) su questioni che hanno visto milioni o miliardi di parole per "descrivere" o dare un "senso" al "nulla".
RispondiEliminaIl “nulla” penso sia ineffabile proprio come Dio.
Inconcepibile ed imperscrutabile è, forse, inesistente.
SE ci FOSSE altro dopo la morte del corpo il “nulla” lo chiameremmo ancora “nulla”? SE ci FOSSE “nulla” dopo la morte sarebbe un controsenso in quanto il verbo stesso ammetterebbe la presenza di qualcosa o qualcuno. Aspettiamo e... “vedremo”.
Care cose.
Carissimo Margius, il rischio è quello di perdersi in circonvoluzioni e dedali logico-linguistici simili a quelli di alcune cerebrali opere di Heidegger il cui "il niente nientifica" e tortuosità simili.
RispondiEliminaTorniamo al genio italiano Guglielmo Crollalanza, noto ai più come William Shakespeare, alla sua question: "To be or not to be"? Io risponderei "Not to be". Credo.
Ciao e grazie.
Hai detto bene. Vivere ogni giorno come il primo è il miglior modo di vivere la vita! :)
RispondiEliminaNon mi trovo d'accordo con Marino Moretti quando affermava di voler lasciare ai posteri qualcosa di sè.
RispondiEliminaPersonalmente, se ho fatto dei figli, è perchè intendevo semplicemente obbedire al 'dharma' ovvero alla 'legge che sovrasta gli umani.
Il voler lasciare qualcosa di sè stessi riflette pur sempre l'illusione di avere un io, di essere qualcuno, di rappresentare un 'quid'.
Ma se l'io empirico è un cumulo di convenzioni e di illusioni poichè solamente il 'daimon' esiste, cosa mai dovremmo pensare di lasciare alla nostra dipartita?
Proprio negli ultimi giorni pensavo come sia possibile possedere un corpo fisico ed al tempo stesso trovarsi immersi nel Non-Essere.
Qualcuno si dice ci sia arrivato, ma francamente questo è per me - e non soltanto per me - il più grande degli enigmi.
Concordo con te, Paolo. Tu che sei evoluto, hai compreso che non importa lasciare alcunché che sia il riverbero di un io caduco. La stessa poesia eternatrice di foscoliana memoria è solo un'illusione.
RispondiEliminaNon mi cale di lasciare di me qualcosa, sia un libro, una progenie, un ricordo...
Immergersi nel non essere? La liberazione durante questa vita? Per me sono chimere e, come osservi, enigmi.
Lorenzo, vivere ogni giorno come se fosse aurorale... Dopo tanti anni...
Ciao e grazie.
"Di colui che vide ogni cosa", è il primo verso del poema epico di Gilgamesh, grazie ai cataloghi trovati nella biblioteca di Assurbanipal, si può riferire all'autore che lo ha scritto, Sin-leqi-unnini, chiamato il poeta esorcista, (2700 ac.) e consigliere del re di Uruk "Gilgamesh"
RispondiEliminaGilgamesh, figlio di una dea e di un mortale uomo, era alla ricerca della vita eterna; non voglio qui entrare nel poema che conosco molto bene ma solo un riferimento alla vita stessa che è stata negata a Gilgamesh e a tutto il genere umano.
Utnapishtim, "il lontano", il Noè Biblico (che per grazia degli dei fu concessa la vita eterna) incontro per ordine degli dei Gilgamesh (avventuriero, sovrano di Uruk, giudice dell'oltretomba, fratello di Ishtar dea dell'amore, ecc. le parole del Noè bibblico furono precise:
"Non cercare la vita eterna perché agli esseri umani non è stata concessa, godi dei doni della terra, lavati ogni giorno con acqua fresca, indossa vesti pulite, gioisci dei piaceri della tua compagna, e porta per mano il figlio frutto dell'unione della tuo accopiamento, e sappi che dopo la vita terrena non vi sarà più Nulla...già il Nulla" ...
Voglio riportare qui sotto alcune considerazioni fatte nelle mie ricerche:
"L'umanità conta i suoi giorni
e qualunque cosa faccia è vento. Nessuno può oltrepassare i limiti della vita, e si sa dall'etimologia che limite è in corrispondenza biunivoca con necessità. La necessità (ananke) non è una divinità vera e propria, quanto piuttosto il riconoscimento di una forza cosmica superiore alle cose, superiore allo stesso destino di uomini e dei (fato = Namtar in Mesopotamia, la Moira in Grecia, poi personificata in tre entità: Atropo che fila, Cloto che avvolge e Lachesi che recide il filo della vita umana).
Il Nulla ... sarà questa la nostra sorte? Cui prodest? ("a chi giova?"), quale è il senso della vita?
wlady
Wlady, mi piace sottolineare la pregnanza e la profondità del tuo commento, senza aggiungere molte parole.
RispondiEliminaVeramente un'altra domanda capitale: "Cui prodest" che ricorda il leopardiano: " A che tante facelle?"
Ciao e grazie.