L'identità è un terreno sdrucciolevole, poiché installata sulla memoria che, nella sua natura più profonda, è una nebbia in cui i ricordi si sciolgono nell'oblio e da cui, viceversa, affiorano di quando in quando le reminiscenze. Si potrebbe paragonare l'io ad una superficie collosa, colla su cui si attaccano percezioni, sensazioni, intermittenze. Quale sia la vera sostanza dell'identità ci sfugge e non sappiamo neppure se questa ipostasi esista o se sia solo la conseguenza di un'abitudine appercettiva (percezione consapevole).
La memoria come perennità a sé stessi, come costante nell'incostanza, provoca l'identificazione ancora più del corpo, soggetto-oggetto di relazione con il mondo, poiché residuale: per questo motivo, quando il corpo è nel rilassamento e quasi insensibile agli stimoli, i pensieri ancora fluttuano in un oceano informe, prima di spegnersi nel sonno.
L'io assomiglia ad un iceberg, la cui parte visibile coincide con la coscienza, mentre la parte sotto il pelo dell'acqua non solo è di maggiori dimensioni rispetto a quella sub divo, ma anche sottoposta ad incessanti trasformazioni e modellamenti. In questa parte albergano ricordi dimenticati, immagini archetipiche; questa parte è tramata da scure vene: sono aspetti che vengono alla luce, allorquando un'oscillazione lascia emergere una superficie del blocco di ghiaccio. Fuor di metafora, la fluttuazione è un evento traumatico o un cambiamento rilevante.
Interrogarsi sui processi cerebrali legati ai ricordi, individuando quelle aree dell'encefalo che sono preposte ala memoria, può spiegare le conseguenze di traumi e malattie sulle facoltà cognitive, ma non chiarisce in che cosa veramente consista la coscienza che pare avulsa dal substrato cerebrale. Influire sul cervello con strumenti fisici e chimici (impulsi elettromagnetici, farmaci, neurotrasmettitori...) significa pure incidere sulla coscienza? Nell'oblio di sé stessi, l'io continua a sussistere come precipitato insolubile? L'io è un ente o una transitoria emersione dell’essere?
Mi pare discutibile l’attitudine oggi assai diffusa a denigrare la mente: la mente, come testimoniato dall’etimologia, è già memoria, anche se di corto raggio, e quindi presenza a sé stessi, coesione psichica da cui dipende un pur instabile equilibrio. Non è un caso se in latino “amens”, ossia privo di mente, significa “folle”, “insano”.
La memoria pura, in quanto luogo di ricordi solo potenzialmente attingibili dall'io, come riteneva Henri Bergson, è imparentata con la dimenticanza.
La memoria come perennità a sé stessi, come costante nell'incostanza, provoca l'identificazione ancora più del corpo, soggetto-oggetto di relazione con il mondo, poiché residuale: per questo motivo, quando il corpo è nel rilassamento e quasi insensibile agli stimoli, i pensieri ancora fluttuano in un oceano informe, prima di spegnersi nel sonno.
L'io assomiglia ad un iceberg, la cui parte visibile coincide con la coscienza, mentre la parte sotto il pelo dell'acqua non solo è di maggiori dimensioni rispetto a quella sub divo, ma anche sottoposta ad incessanti trasformazioni e modellamenti. In questa parte albergano ricordi dimenticati, immagini archetipiche; questa parte è tramata da scure vene: sono aspetti che vengono alla luce, allorquando un'oscillazione lascia emergere una superficie del blocco di ghiaccio. Fuor di metafora, la fluttuazione è un evento traumatico o un cambiamento rilevante.
Interrogarsi sui processi cerebrali legati ai ricordi, individuando quelle aree dell'encefalo che sono preposte ala memoria, può spiegare le conseguenze di traumi e malattie sulle facoltà cognitive, ma non chiarisce in che cosa veramente consista la coscienza che pare avulsa dal substrato cerebrale. Influire sul cervello con strumenti fisici e chimici (impulsi elettromagnetici, farmaci, neurotrasmettitori...) significa pure incidere sulla coscienza? Nell'oblio di sé stessi, l'io continua a sussistere come precipitato insolubile? L'io è un ente o una transitoria emersione dell’essere?
Mi pare discutibile l’attitudine oggi assai diffusa a denigrare la mente: la mente, come testimoniato dall’etimologia, è già memoria, anche se di corto raggio, e quindi presenza a sé stessi, coesione psichica da cui dipende un pur instabile equilibrio. Non è un caso se in latino “amens”, ossia privo di mente, significa “folle”, “insano”.
La memoria pura, in quanto luogo di ricordi solo potenzialmente attingibili dall'io, come riteneva Henri Bergson, è imparentata con la dimenticanza.