“I due compagni” è un romanzo di Giovanni Comisso (Treviso 1895, ibidem 1969). “Scritto nel 1934, narra le storie parallele di due amici, Giulio Drigo e Marco Sberga. Dietro al primo si nasconde, per dichiarazione dell’autore, un personaggio composto, in parte Comisso e in parte il suo amico, Arturo Martini; l’altro è il pittore Gino Rossi che morì in manicomio. L’epoca è quella della Prima guerra mondiale, vissuta come pura atrocità. I due giovani amici maturano le loro crisi esistenziali in una città di provincia: provati dal conflitto e dal fallimento dei loro matrimoni, si rivolgono all’arte come ad un riscatto possibile. ‘I due compagni’, rievocando con partecipazione diretta questa storica amicizia con le sue opposizioni spesso drammatiche, offre una testimonianza unica di due artisti tra i maggiori del nostro tempo”.
Il libro di Comisso è apprezzabile per il montaggio sincrono delle esperienze vissute dai due sodali, le descrizioni impreziosite da liriche pennellate, l’indugio in pensose introspezioni: sono strumenti espressivi usati con straordinaria sobrietà sì da conferire naturalezza e levità all’esile ordito narrativo. L’autore, attraverso un racconto semplice, comune, esplora il dramma della vita cui forse solo l’arte può dare un senso, una direzione, sia pure quella sbagliata.
Di fronte all’arte gli stessi rapporti umani, soprattutto la relazione tra uomo e donna che si brucia in rovinosi coniugi, appaiono solo surrogati. “Capiva che vivere è un ingannevole e continuo legarsi a persone ed a cose che, con il passare del tempo, si rivelano altrimenti da come erano state considerate prima”. E’ in questa inautenticità, nello stesso dialogo tra i due coetanei, inficiato da incomprensioni, da irriducibili divergenze d’opinione sullo scopo e l’essenza dell’arte, che l’opera si rivela significativo documento delle inquietudini novecentesche. Si situa così nel solco tematico che dall’inettitudine, dal solipsismo, dalla dissonanza con il mondo che porta o può portare alla follia. La follia come unica via di fuga da un mondo folle.
Il libro di Comisso è apprezzabile per il montaggio sincrono delle esperienze vissute dai due sodali, le descrizioni impreziosite da liriche pennellate, l’indugio in pensose introspezioni: sono strumenti espressivi usati con straordinaria sobrietà sì da conferire naturalezza e levità all’esile ordito narrativo. L’autore, attraverso un racconto semplice, comune, esplora il dramma della vita cui forse solo l’arte può dare un senso, una direzione, sia pure quella sbagliata.
Di fronte all’arte gli stessi rapporti umani, soprattutto la relazione tra uomo e donna che si brucia in rovinosi coniugi, appaiono solo surrogati. “Capiva che vivere è un ingannevole e continuo legarsi a persone ed a cose che, con il passare del tempo, si rivelano altrimenti da come erano state considerate prima”. E’ in questa inautenticità, nello stesso dialogo tra i due coetanei, inficiato da incomprensioni, da irriducibili divergenze d’opinione sullo scopo e l’essenza dell’arte, che l’opera si rivela significativo documento delle inquietudini novecentesche. Si situa così nel solco tematico che dall’inettitudine, dal solipsismo, dalla dissonanza con il mondo che porta o può portare alla follia. La follia come unica via di fuga da un mondo folle.
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