21 settembre, 2008

La conoscenza di sé tra luci ed ombre

Oh, uomo conosci te stesso e conoscerai l’Universo degli Dei.
(Oracolo di Delfi)

Fu con Socrate che l'indagine del mondo cominciò a diventare introflessa. Il "conosci te stesso" è un monito che è stato interpretato variamente, di non agevole comprensione, un'esortazione che suscitò tante ma spesso superficiali incondizionate adesioni e pure un irritato commento di Albert Camus. Egli si chiede se sia possibile la conoscenza, vera e profonda. La sua risposta è senz'altro negativa. "Il conosci te stesso di Socrate ha il medesimo valore del sii virtuoso dei nostri confessionali: allo stesso tempo che una nostalgia rivela anche un’ignoranza". Camus cita anche il filosofo tedesco Jaspers: "Questa limitazione mi conduce a me stesso, là dove non mi ritraggo più dietro un punto di vista obiettivo che riesco soltanto a rappresentare, là dove né io stesso né l'esistenza altrui possono ormai divenire un oggetto per me".

Conoscere sé stessi può significare riscoprire una natura sub-lime, dove tale sub-limità è duplice, celestiale ed infera. Sub limen, sotto la soglia della coscienza, vedremo baluginare una luce divina, primigenia, ma tra le ombre divoranti della notte più nera. Sarebbe improvvido ignorare il male che alberga nell'uomo, forse anche come influsso di agenti esterni (Basilide docet) e pensare che il percorso verso noi stessi sia una strada diritta, piana ed ombreggiata da alberi frondosi e verdeggianti.

Edipo conobbe sé stesso, l'uomo che veramente era: sarebbe stato meglio per lui ignorare! D'altronde il 666 è numero d'uomo.

Chi dunque ha il coraggio per affrontare questa avventura che certamente lo condurrà verso dimensioni dove l'Anima si espande, ricongiungendosi al Principio, dove il silenzio interiore diventa melodia, dovrebbe sapere che lo attende al varco il Guardiano della soglia. Si armi dunque di una spada per intraprendere un cammino emozionante, ma irto di ostacoli. La meta è la Vita, misterioso affioramento dalla misteriosa energia. Ne vale senz'altro la pena, ma non so quanto giovino a tale conseguimento artifici, tecniche, metodi. Ognuno scelga la via che sente più confacente alla sua natura, puntando sulla qualità. E' più giovevole un minuto intenso di ascolto dell'Essere che un corso di mille ore per apprendere tecniche di meditazione.

Certamente è imperativo tener desta la coscienza per evitare che il bombardamento mediatico, elettromagnetico, (siamo, in parte, esseri elettromagnetici), sottile etc. distrugga l'identità di ognuno di noi. In questo caso alcune tecniche saranno utili, ma sempre ancorate all'amore per la verità che è il rimedio per eccellenza.

Inoltre, sebbene non sia facile coniugare la prassi con il ritorno a sé stessi, anzi col tentativo di trascendimento della propria natura caduca per riscoprire una sintonia con l'essere atemporale ed aspaziale, non credo si possano trascurare né l'azione né l'informazione.

A mio parere, quindi coglie nel segno Francesco Lamendola, quando, nell'articolo intitolato Il paese della felicità è un luogo dove il male non esiste?, chiosa: "Nella nostra attuale condizione, non ci viene domandato di cancellare il male dal mondo, ma di combatterlo per quanto possibile e, per quanto eccede le nostre forze, di accettarlo e trasformarlo in qualche cosa di diverso, che ci purifichi da una parte delle nostre imperfezioni e ci renda un poco migliori".

Il male dunque (naturale, morale, ontologico) è imprescindibile: anche la conoscenza di noi stessi potrà riservarci qualche brutta sorpresa.



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7 commenti:

  1. Il tema dei tuoi ultimi blog mi hanno aperto la via ad una sana riflessione e non trovo altro di più appropriato, per quello che sono le mie possibilità, di questo che qui sotto riporto, per apportare il mio piccolo contributo a questa ricerca.
    Approfitto del tema del post per riallacciarmi anche all’idea stessa di felicità così come è stata evidenziata nell’altro.
    Ritengo opportuno dire che Pico della Mirandola, nell’aprire il suo trattato sulla dignità dell’uomo, scrive che sono proprio le Arti a schiudere all’uomo la via della felicità, e qui, non credo che dobbiamo intendere la parola felicità con il significato che oggi comunemente le è attribuito, ovvero come un indistinto quanto scialbo stato di beata gaiezza.
    Con lo scrivere il termine “Felicità”, Pico della Mirandola intendeva riferirsi proprio all’originario valore latino che il termine Felice significava, ovvero Felice era chi aveva acquisito la più alta Conoscenza mediante l’iniziazione ai Sacri Misteri, appunto il Felix: “Felix qui potuit rerum cognoscere causas”, tradotta letteralmente, significa felice colui che ha potuto penetrare nell’essenza delle cose. (Virgilio, Georgiche, lI, 489).

    Così come il conosci te stesso, inciso sul frontone del tempio di Delphi, invita al percorso di conoscenza affatto lineare ma propriamente labirintico che richiama all’acrostico Basiliano del VITRIOL = visita inferiora terrae rectificando invenies ocultum lapidem, che invita ad una modalità operativa di crescita interiore volta ad esaltare l’anima per mezzo della “lapidem”, celata in noi stessi, nella zona più recondita dell’essere e Giuliano Kremmerz, non inutilmente rammenta che la parola lapide, spesso è tradotta erroneamente come semplice pietra, che nel parlare allegorico significa sasso non mondato dal lavoro dell’uomo, mentre lapidem, ha lo specifico significato di pietra raffinata dall’ingerenza umana, ovvero perfezionata dal metodo che per mezzo dell’Arte la fa divenire medicina occulta e gli alchimisti, scrivendo Lapidem sui loro trattati, si riferivano proprio a quel metodo specifico da seguire.

    Si può chiudere richiamando alla memoria il Faust di Goethe, il quale conclude il dramma dell'orgoglio dell'uomo, che ha ricercato ansiosamente la verità, la felicità, (iniziatica) mediante la glorificazione dell'atto, del lavoro fecondo sovrapposto all'astrazione del solo pensiero.
    L'indagine più alta del vero si ha mediante l'ispirazione poetica...la ribellione dell'intuizione di una verità profonda...inesprimibile se non per mezzo di un atto lirico epperciò irrazionale...qualcosa che i filosofi hanno raramente e mal volentieri riconosciuto.
    L'atto lirico è lo specchio nel quale si riflette il mistero che avvolge il vuoto che separa l'atomo dall'atomo...quell'infinito multiforme e cangiante contenuto nel semplice respiro poetico, che è pure il respiro dell'immensità di un mare altrimenti oscuro.

    L’accettazione della vita, e intendo dire del principio apparentemente finito, luminoso, che alberga in essa, pertanto non può che essere nettamente, santamente irrazionale, quali furono l'antico spirito dei Misteri arcaici e lo spirito del Cristianesimo originario.
    La vita è reale tensione, sforzo è dolore annodato al piacere...è la soavità delle luminose selve...la misteriosa armonia dei boschi...delle fonti...l'armonia fatta di chiaroscurati contrasti necessari...dei necessari contrasti che animano la moltitudine delle piante in una selva, in cui la somma di tutte le rispettive tensioni, della vastità di una lotta solo apparentemente immota, che si svolge nei contrasti di luce ed ombra, esprime un indefinito quanto sacro controllo della nostra stessa accettazione di noi stessi, all'apice della percezione più pura dello scenario naturale, vi è la percezione della soavità...che è il successo della vita e della sua immensa realtà generativa.
    Un saluto.

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  2. Ciao Giovenale, risponderò al tuo messaggio oggi pomeriggio, anche se non credo di poter aggiungere molto.

    Ciao

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  3. Giovenale, penso alla pietra d'angolo scartata dai costruttori, al lapis niger, ai pani del Vangelo che sono pietre, al Graal che è anche calice di pietra: sono simboli della Tradizione, della Philosophia perennis. Sono simboli che richiamano il processo alchemico, inteso come crescita interiore, fatta di sacrificio, abnegazione e tenacia. Sono qualità che non possiedo: esistono oggi uomini pneumatici? Anche gli psichici possono nutrire qualche speranza?

    Occorre una visione talmente acuta da sconfinare nella cecità, la cecità del veggente, del profeta, ma tale percezione è dolore, è solitudine: è per questo che spesso è meglio non vedere.

    La natura, come velo meraviglioso dell'essere, può aiutarci nella comprensione, se sappiamo contemplarla in silenzio, in solitudine, con umiltà.

    Ciao!

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  4. Oh, uomo conosci te stesso e accoglierai la morte.
    Claudiux
    Ciao!

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  5. La frase di Camus discende verosimilmente da una specie di delusione interiore. Ad ogni modo è sbagliata nella misura in cui egli instaura un parallelismo fra l'atto conoscitivo in sè e le raccomandazioni del confessore che richiamano il penitente alla dimensione etica e nient'altro.

    A quanto pare Camus confondeva i due ambiti, quello etico e quello noetico. Forse anche a quell'equivoco è legata la sua prematura fine che tutti conosciamo.

    La conoscenza interiore scaturisce da una vocazione primordiale, da una sorta di chiamata e pertanto è perfettamente inutile raccomandare ' Gnoti seautòn' a chi non gliene importa nulla.
    Ma per mirare a tanto bisogna anche disporre di una qualificazione congenita, insomma bisogna essere dotati all'impresa.

    Abbiamo diversi esempi di persone che hanno sciolto gli ormeggi ed iniziato la navigazione verso il mare aperto assai presto. Ad es. Matilde di Magdeburgo ebbe la prima esperienza dello 'Spirito Santo' a dodici anni, Ramana a diciassette, Novalis verso i diciotto, Guénon verso i diciotto- diciannove e per Yvon Le Loup già verso i trent'anni cominciava ad albeggiare la coscienza dedl'Assoluto.

    Ma non per tutti vale la medesima regola. Molti o moltissimi rimangono ai blocchi di partenza per svariati lustri o decenni o anche pre tutta la vita.
    Essi si sono precocemente resi conto che la coscienza della vita ordinaria è come racchiusa da uno spesso muro di cemento armato che nemmeno una esplosione nucleare riesce a smuovere.Impossibile evadere.

    Con il passare degli anni e dei decenni si diventa frustrati e talora cattivi. Ma il bisogno della conoscenza è lì e non si riesce ad eludere.

    Ciao.

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  6. Zret tu scrivi: "Sono simboli che richiamano il processo alchemico, inteso come crescita interiore, fatta di sacrificio, abnegazione e tenacia. Sono qualità che non possiedo: esistono oggi uomini pneumatici? Anche gli psichici possono nutrire qualche speranza?"

    Come può essere che rinneghi a te stesso l'idea o le qualità di sacrificio e tenacia...a che altro restituire l'essenza stessa di queste pagine virtuali che dirigi? Noi siamo chiamati ad incarnare lo spirito di Samurai precari...è possibile che tutti siamo fasulli? non sta forse a noi il compito di sorvegliare il limes invisibile, l'ideale linea di confine che il destino ci ha riservato in sorte? non riesco a pensare che in fondo noi, come moderni, sostanzialmente siamo tutti fasulli...al più debolmente ispirati, fondamentalmente smarriti o anche miseramente pragmatici, meschinamente furbi...occorre mantenere alta una tensione interna perché ricercando determinati significati si apre una porta che non si può più chiudere e se disattendiamo quei motivi ispiratori per i quali abbiamo percepito l'effettiva possibilità di renderci migliori allora sarà come dice Paolo, che per sopravvenuto disincanto con il passare degli anni e dei decenni si diventa frustrati e talora cattivi e scivolando nella bassa demagogia...ma è difficile...difficile, ma cos'altro rimane per dare effetivo valore e riscattare la propria misera condizione di scialbi consumatori
    Un saluto

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