Non si riconosce alla storia il suo ruolo. Ancella del potere, è oggi mera propaganda. Originariamente la storia era testimonianza oculare il più possibile obiettiva (historia, che vale indagine, deriva da histor, "testimone", a sua volta da una radice id con il significato di "vedere", "sapere"): chiunque oggi si impegni in una vera ricerca storiografica è ostracizzato o più spesso ignorato sicché il pensiero unico continua a dominare.
In uno scrupoloso saggio intitolato Chi ha scritto la Bibbia?, Richard Elliot Friedman si cimenta nell'impresa di stabilire la paternità dei libri che formano il Pentateuco. Basandosi su studi filologici ed esegetici e su scoperte archeologiche, il saggista, ricapitolando ed aggiustando i risultati di investigazioni che datano dal XVII secolo, formula la tesi secondo cui nella Torah confluiscono quattro fonti: J, E, D, P. J è la tradizione jahvista il cui milieu è il regno di Giuda; E è il testo elaborato all'interno del regno di Israele probabilmente da un Levita di Silo; D è il documento ascrivibile forse al profeta Geremia; P è l'insieme delle tradizioni sacerdotali elaborate da un appartenente al clero aronnita. Egli usa un linguaggio solenne, ieratico e, a differenza dei redattori di JE, reputa fondamentale l’osservanza dei sacrifici. Le prime due fonti sono i nuclei più antichi.
La conclusione interlocutoria ed aperta ad ulteriori approfondimenti nonché correzioni, è la seguente: la Torah è un corpus culturalmente omogeneo, ma risultato di stratificazioni, addizioni e sottrazioni. Friedmann, che colloca E alla fine dell'VIII secolo, evidenzia come molte profezie bibliche siano annotazioni post eventum, riferibili ad un preciso contesto politico e religioso che gli autori conoscevano, perché testimoni o vissuti poche generazioni dopo gli eventi raccontati.
Il merito maggiore del libro scritto dal biblista è la chiarezza espositiva: di solito la filologia è disciplina noiosa, adatta ad eruditi che si incaponiscono per anni su una lectio difficilior, ma che non sono in grado di apprezzare la bellezza di un poema. Friedmann, però, nel suo agile testo, amplia la trattazione verso la cultura materiale, la politica, l'economia, le usanze… riuscendo a delineare un quadro credibile degli Ebrei (tra VIII e V sec. a.C.), lontano sia dall'agiografia sia dall'atteggiamento iconoclasta e sdegnoso, tipico di certi moderni nei confronti degli antichi. Tale equidistanza è apprezzabile: infatti, oggi giorno, da un lato assistiamo a chi si arrocca su posizioni dogmatiche, accusando chi mette in discussione alcune certezze fideistiche di essere un miscredente blasfemo; dall'altro, improvvisati "teologi" alla Odifreddi si avventurano nel campo della storia e delle religioni antiche, tutto distruggendo, senza aver inteso alcunché.
Un altro aspetto pregevole del saggio è la sua somiglianza con un’inchiesta: infatti, raccogliendo indizi di vario genere e con un procedimento induttivo, l’erudito riesce a stabilire con un buon grado di plausibilità gli autori di J, E, D, P. Ne emerge un dualismo, in parte riconducibile alla divisione tra Regno di Israele e Regno di Giuda, dopo la morte del re Salomone, ma anche al contrasto, benché dissimulato, tra corrente mosaica e corrente aronnita.
Ben venga questo spirito di onesta ricerca: chiarire che la Torah (testo composito, pur nella sua unità) fu scritta da uomini (per lo più appartenenti al clero o profeti) con intenti nobili, ma anche con fini pragmatici ed ideologici, non mina la fede in Dio. Lo stesso discorso vale per l'esegesi dei Vangeli: qualunque sia l'approdo delle discussioni, la dimensione spirituale non è neppure sfiorata. Certo, molti paradigmi interpretativi cambieranno, ma l'esistenza di Dio che, di per sé, non può essere né razionalmente dimostrata né negata, nulla c'entra con le indagini storiche e documentarie. Anzi rinunciare ad usare le proprie capacità intellettuali alla ricerca di possibili verità significa, a mio avviso, non usare, affinché fruttino, gli evangelici talenti.
Si tratta di confrontarsi con ipotesi che cozzano con pregiudizi diffusi: ad esempio, Friedman vede nel Dio degli Ebrei una divinità originata dalla fusione tra Jahweh (YHWH) ed El/Elohim. Egli porta anche alla luce strati di credenze pagane poi inglobati nella fede monoteistica ebraica: si pensi al serpente di bronzo, ai culti sulle alture tra le tribù del Nord. Il biblista rintraccia anche il collegamento con la cultura egizia: i cherubini dell'Arca, nomi egizi come Mosè, Ofni e Fines etc. Non sono le fantasticherie di scrittori esperti in archeomisteri, ma acquisizioni documentate e che emergono da una disamina linguistica, stilistica e strutturale dei testi e dallo studio dei manufatti archeologici.
Intendiamo privare di qualsiasi valore le ricostruzioni storiche? Se non intendiamo applicare metodi rigorosi per investigare l'antichità, potremo poi rivendicare un approccio coraggioso e non allineato, quando si scava nella storia più o meno recente?
Bisogna, però, evitare di commettere anche un altro errore, ossia pensare che, una volta che la storiografia e le altre discipline scientifiche hanno messo a fuoco un soggetto, rimanga solo da accumulare conoscenze su conoscenze e dati su dati, per esaurirlo. Restano, infatti, certi temi preclusi ad un'indagine razionale, come è necessario valicare certi confini per intraprendere studi pionieristici, senza dimenticare che alcuni ambiti sono estranei alle analisi empiriche ed alle dissertazioni logiche.
I significati simbolici ed esoterici della Tradizione (anche quella biblica) si percepiscono - se si percepiscono - con altri sensi.
In uno scrupoloso saggio intitolato Chi ha scritto la Bibbia?, Richard Elliot Friedman si cimenta nell'impresa di stabilire la paternità dei libri che formano il Pentateuco. Basandosi su studi filologici ed esegetici e su scoperte archeologiche, il saggista, ricapitolando ed aggiustando i risultati di investigazioni che datano dal XVII secolo, formula la tesi secondo cui nella Torah confluiscono quattro fonti: J, E, D, P. J è la tradizione jahvista il cui milieu è il regno di Giuda; E è il testo elaborato all'interno del regno di Israele probabilmente da un Levita di Silo; D è il documento ascrivibile forse al profeta Geremia; P è l'insieme delle tradizioni sacerdotali elaborate da un appartenente al clero aronnita. Egli usa un linguaggio solenne, ieratico e, a differenza dei redattori di JE, reputa fondamentale l’osservanza dei sacrifici. Le prime due fonti sono i nuclei più antichi.
La conclusione interlocutoria ed aperta ad ulteriori approfondimenti nonché correzioni, è la seguente: la Torah è un corpus culturalmente omogeneo, ma risultato di stratificazioni, addizioni e sottrazioni. Friedmann, che colloca E alla fine dell'VIII secolo, evidenzia come molte profezie bibliche siano annotazioni post eventum, riferibili ad un preciso contesto politico e religioso che gli autori conoscevano, perché testimoni o vissuti poche generazioni dopo gli eventi raccontati.
Il merito maggiore del libro scritto dal biblista è la chiarezza espositiva: di solito la filologia è disciplina noiosa, adatta ad eruditi che si incaponiscono per anni su una lectio difficilior, ma che non sono in grado di apprezzare la bellezza di un poema. Friedmann, però, nel suo agile testo, amplia la trattazione verso la cultura materiale, la politica, l'economia, le usanze… riuscendo a delineare un quadro credibile degli Ebrei (tra VIII e V sec. a.C.), lontano sia dall'agiografia sia dall'atteggiamento iconoclasta e sdegnoso, tipico di certi moderni nei confronti degli antichi. Tale equidistanza è apprezzabile: infatti, oggi giorno, da un lato assistiamo a chi si arrocca su posizioni dogmatiche, accusando chi mette in discussione alcune certezze fideistiche di essere un miscredente blasfemo; dall'altro, improvvisati "teologi" alla Odifreddi si avventurano nel campo della storia e delle religioni antiche, tutto distruggendo, senza aver inteso alcunché.
Un altro aspetto pregevole del saggio è la sua somiglianza con un’inchiesta: infatti, raccogliendo indizi di vario genere e con un procedimento induttivo, l’erudito riesce a stabilire con un buon grado di plausibilità gli autori di J, E, D, P. Ne emerge un dualismo, in parte riconducibile alla divisione tra Regno di Israele e Regno di Giuda, dopo la morte del re Salomone, ma anche al contrasto, benché dissimulato, tra corrente mosaica e corrente aronnita.
Ben venga questo spirito di onesta ricerca: chiarire che la Torah (testo composito, pur nella sua unità) fu scritta da uomini (per lo più appartenenti al clero o profeti) con intenti nobili, ma anche con fini pragmatici ed ideologici, non mina la fede in Dio. Lo stesso discorso vale per l'esegesi dei Vangeli: qualunque sia l'approdo delle discussioni, la dimensione spirituale non è neppure sfiorata. Certo, molti paradigmi interpretativi cambieranno, ma l'esistenza di Dio che, di per sé, non può essere né razionalmente dimostrata né negata, nulla c'entra con le indagini storiche e documentarie. Anzi rinunciare ad usare le proprie capacità intellettuali alla ricerca di possibili verità significa, a mio avviso, non usare, affinché fruttino, gli evangelici talenti.
Si tratta di confrontarsi con ipotesi che cozzano con pregiudizi diffusi: ad esempio, Friedman vede nel Dio degli Ebrei una divinità originata dalla fusione tra Jahweh (YHWH) ed El/Elohim. Egli porta anche alla luce strati di credenze pagane poi inglobati nella fede monoteistica ebraica: si pensi al serpente di bronzo, ai culti sulle alture tra le tribù del Nord. Il biblista rintraccia anche il collegamento con la cultura egizia: i cherubini dell'Arca, nomi egizi come Mosè, Ofni e Fines etc. Non sono le fantasticherie di scrittori esperti in archeomisteri, ma acquisizioni documentate e che emergono da una disamina linguistica, stilistica e strutturale dei testi e dallo studio dei manufatti archeologici.
Intendiamo privare di qualsiasi valore le ricostruzioni storiche? Se non intendiamo applicare metodi rigorosi per investigare l'antichità, potremo poi rivendicare un approccio coraggioso e non allineato, quando si scava nella storia più o meno recente?
Bisogna, però, evitare di commettere anche un altro errore, ossia pensare che, una volta che la storiografia e le altre discipline scientifiche hanno messo a fuoco un soggetto, rimanga solo da accumulare conoscenze su conoscenze e dati su dati, per esaurirlo. Restano, infatti, certi temi preclusi ad un'indagine razionale, come è necessario valicare certi confini per intraprendere studi pionieristici, senza dimenticare che alcuni ambiti sono estranei alle analisi empiriche ed alle dissertazioni logiche.
I significati simbolici ed esoterici della Tradizione (anche quella biblica) si percepiscono - se si percepiscono - con altri sensi.
Ottima recensione di un libro famoso di qualche anno fa scritto da un biblista molto apprezzato nei circoli accademici. A questo titolo ne seguirono poi alcuni altri sempre a firma di R.E.Friedmann.
RispondiEliminaPur non essendo versato nella critica dell'Antico Testamento credo si possano sottoscrivere pressochè in toto le affermazioni del tuo post, a parte il concetto espresso proprio nel cappello del medesimo.
Dire che gli Antichi, quando scrivevano di argomenti storici, erano il più possibile obiettivi non mi trova gran che d'accordo. Se prendiamo ad es.le 'Vite dei Dodici Cesari' di Svetonio potremmo discutere circa la sottile linea di demarcazione che separa elementi verosimili e dati leggendari. Forse nella mente degli Antichi la separazione fra dato storico e dato leggendario confinante con la dimensione onirica non era poi così netta.
Segno che gli uomini del passato si trovavano ancora, anche se a vari livelli, immersi nel mito. La solidificazione del mondo circostante era ancora in fieri.
Il dire che i testi sacri sono il frutto di un lavorio letterario e redazionale durato svariati secoli sfonda naturalmente una porta aperta.
E il discorso vale per tutti quanti a partire dall'Occidente fino ad arrivare all'Estremo Oriente passando persino per il Corano, testo sacro la cui unità compositiva è stata da sempre rabbiosamente difesa dagli islamici.
Nessuno di questi documenti religiosi è uscito già bell'è compiuto dalla penna degli artefici allo stesso modo in cui Minerva uscì tutta formata, con tanto di armatura, dalla testa del padre Zeus. Ed è proprio questo il discorso di fronte al quale i tradizionalisti di ogni risma e confessione si turano disperatamente le orecchie.
La critica vale sia per la Torah come per il Corano come per i Vangeli accreditati e non come per la vasta letteratura sacra del Buddhismo.
Vi posero mano uomini spesso ispirati ma i segni del loro lavorio redazionale è quasi sempre ben discernibile.
Hai ragione, Paolo. La mia stima degli storici antichi è eccessiva, in una tendenza all'idealizzazione: lo stesso "padre della Storia", Erodoto era sullo spartiacque tra testimonianza oggettiva e tradizione leggendaria. La curiosità e l'attenzione per gli oracoli, i prodigi, gli eventi preternaturali ci ha, però, fortunatamente e fortunosamente preservato antichi miti che spesso valgono più dei cosiddetti "fatti".
RispondiEliminaSottoscrivo in toto la tua dotta e perspicua epitome sul lavorio tradizionale che contraddistingue i testi sacri delle varie religioni.
Ciao e grazie della sincera critica.