26 aprile, 2014

Lo stravolgimento della giustizia nei sistemi attuali

Nulla oggi è storto quanto il diritto. La giurisprudenza è decaduta nella teoria come nella prassi. Si può forse definire giustizia quel ginepraio di norme in cui ci si perde come Dante nella “selva oscura”?

Non è ammissibile che il diritto, le cui regole dovrebbero essere adamantine ed ispirate ai più nobili valori, traligni. Indigna la corruzione del diritto, ma ancora di più che si levino poche voci a deplorarla, a condannare una “giustizia” ormai ridotta a mero strumento di coercizione.

Ci stiamo assuefacendo ad azioni extra legem: è normale che la Cassazione, il cui ruolo dovrebbe essere appunto quello di cassare, ossia cancellare le sentenze di secondo grado per ragioni procedurali e formali, decida di riavviare un processo? Il principio “ne bis in idem” è stato affossato con la conseguenza che si instaurano azioni penali interminabili. L’altro cardine giuridico, “in dubio pro reo” è da tempo del tutto sgangherato.

Si afferma che la “giustizia” italiana mutua alcuni suoi limiti dalla giurisprudenza romana. Bisogna essere precisi: il diritto a Roma era incentrato non su un corpus normativo, ma sulle sentenze precedenti, un po’ come avviene oggi – in linea teorica - nei paesi anglosassoni. E’ semmai l’eredità giustinianea del Codex a costituire la premessa di una giurisprudenza “chiusa”, rigida e che ambisce a regolare astrattamente una casistica articolata, complessa, talora contraddittoria.

Invero, non è che un sistema sia migliore dell’altro: se si applicano con rigore i princìpi di equità e di imparzialità, i due paradigmi giuridici si equivalgono. Bisogna, però, rilevare che il rischio del modello giustinianeo, avulso dalla considerazione delle circostanze più disparate, è quello del summum ius, summa iniuria.

Il problema reale è un altro ed è un problema spaventoso: la giustizia dovrebbe essere amministrata da persone integerrime, di comprovata equanimità e, last but not least, coltissime, perché il loro compito è assai delicato. La cultura è condicio sine qua non per esaminare accidenti difficili, controversi, ispirandosi alla saggezza dei giurisperiti e dei filosofi più eccellenti. Non si confonda la cultura con l’erudizione: in qualsiasi campo l’erudizione è più perniciosa che inutile, laddove la cultura è profondità, abitudine al discernimento e purezza di intenti. L’ignoranza della lingua italiana, fenomeno che aggredisce e corrode anche la categoria dei magistrati, è indizio di inquietante villania, di inadeguatezza per un ufficio in cui specchiata moralità e sapere sono interdipendenti. Solo l’uomo probo può essere veramente colto.

Orbene, nascono due o tre uomini in un decennio con i requisiti sullodati e di solito non intraprendono la carriera giudiziaria. Possiamo dunque pensare che, nel momento in cui valutiamo la “giustizia” nel mondo attuale, essa non sia piuttosto una sua grottesca caricatura al punto che sarebbe senz’altro preferibile non esistessero né tribunali né magistrati né processi né verdetti?

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2 commenti:

  1. Cicerone già allora diceva:Legum servi sumus ut liberi esse possimus." Siamo schiavi delle leggi, per poter essere liberi.

    Leggi, che non sono uguali per tutti, troppo sbrigative per molti, con difese fallose se non si è importanti e con poca pecunia, ma molto blande con personaggi facoltosi.

    La risposta alla catastrofe della giustizia sta sempre nelle parole antiche: Tempori serviendum est. Bisogna essere servi delle circostanze.

    Meglio una giustizia salomonica che lo stillicidio prolungato nel tempo.

    Ubi iudicat qui accusat, vis, non lex valet.
    Quando giudica chi accusa vale la forza, non la legge.

    Ciao.



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    Risposte
    1. Ottimo contributo, Wlady. Gli aforismi che hai riportato sono un esempio di quella saggezza antica e veneranda che oggi si tende ad ignorare.

      Sub lege libertas è massima sempre valida, ma la lex è quella interiore, non certo l'ingranaggio dentato e stritolatore della "giustizia" umana.

      Ciao

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