30 novembre, 2015

L'Internazionale del Terrore



I “fatti” parigini del 13 novembre 2015 hanno giustamente insospettito molti ricercatori ed osservatori che negano qualsiasi coinvolgimento di “attentatori islamici” nei presunti attacchi al teatro Bataclan, allo stadio di calcio ed in altri luoghi. E’ ovvio che fantomatiche “cellule jihadiste” non c’entrano alcunché con lo spettacolo grandguignolesco inscenato nella Ville lumière: è stata, invece, un’operazione dei servizi. Sì, ma quali? Qualcuno ha chiamato in causa la C.I.A., qualcun altro il Mossad, altri i servizi francesi. Certo, molte attricette ingaggiate per l’occasione (novelle prefiche) provengono dall’Impero di U.S.A.tana, come quella lì che piange al telefono e che non si stacca dal cellulare neppure se la minacci di dover recitare in un cinepanettone dei fratelli Vanzina.

Tuttavia crediamo sia errato cercare un unico ideatore e responsabile dell’inside job, perché i servizi segreti sono, alla fine della fiera, un unico soggetto, anche se con vari… complementi. E’ possibile che una struttura straniera sia riuscita ad agire a Parigi, senza che l’”intelligence” d’oltralpe abbia avuto almeno il sentore che si stava architettando qualcosa di grosso? E’ credibile che i Francesi con il loro presidente-gnomo, l’orrendo Hollande, non solo non sapessero uno iota, ma che non abbiano collaborato per allestire il false flag?

Secondo il parere di taluni, il vaudeville sarebbe un monito contro il governo di Hollande ufficialmente ed in modo del tutto ipocrita, come il Vaticano, incline ad appoggiare le rivendicazioni dei dilaniati Palestinesi. Se così fosse, perché François il galletto ha partecipato con tanta convinzione alla tragicommedia, subito accusando barbuti integralisti di aver turbato con le loro moleste raffiche il celestiale concerto che si teneva al Bataclan? E’ stato per lui un ottimo casus belli per decidere ipso facto di bombardare le postazioni dell’I.S.I.S. in Siria, anche se è probabile che gli ordigni siano sganciati e siano stati sganciati contro l’esercito di Assad, senza dubbio non un santo, ma mille volte migliore dei presidenti criminali assisi sugli scranni dell’Occidente, migliore dei monarchi sauditi.

Come nel caso di una malattia autoimmune, sono i servizi di ciascuno Stato, spesso in sinergia con quelli di altre nazioni, ad attaccare i propri cittadini, a spargere sangue sul proprio stesso suolo. Si pensi agli anni della strategia della tensione in Italia, con le varie stragi perpetrate da servizi “deviati” rigorosamente made in Italy, anche se con la complicità di forze appartenenti ad altri paesi della N.A.T.O. (Vedi F. Imposimato, La Repubblica delle stragi impunite).

Poiché gli apparati del sistema, sono compartimentalizzati, agenti di rango inferiore nulla sanno dei piani decisi ai piani alti: un normale agente della C.I.A. crede veramente di lavorare per gli Stati Uniti e che il suo compito sia quello di sventare azioni terroristiche ideate in tenebrose grotte afghane. Ai vertici, però, si orchestrano e si attuano azioni che vedono la stretta cooperazione di potentati che formano l’Internazionale del Terrore. E’ questo il governo occulto che trama dietro gli stessi poteri forti (banchieri, multinazionali, complesso militare ed industriale, organizzazioni mondialiste etc.) che poi così forti non sono, giacché anch’essi sono pilotati da un’entità nefanda.

La vera natura di codesta entità è così incredibile e malefica che è meglio si pensi che il mondo sia governato dai pur abominevoli, disgustosi banchieri.

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27 novembre, 2015

Alessandro Manzoni e la narratologia: che cosa possono suggerirci sugli eventi parigini del 13 novembre 2015?



La narratologia è per lo più considerata disciplina arida e noiosa. In parte ciò è vero, tuttavia, forse per serendipidità, essa si rivela utile non solo nell’analisi di molti testi letterari, ma pure nell’esplorazione dell’attualità.

Consideriamo solo due aspetti naratologici per rapportarli agli episodî parigini del 13 novembre 2015: la focalizzazione multipla e la caratterizzazione antropologica. La prima implica la relazione dello stesso accadimento secondo l’ottica di due o più testimoni: è quanto si verifica nel momento in cui il “fatto”, così come è occorso, è subito filtrato dai media ufficiali che propongono ed impongono la propria narrazione, mentre osservatori spassionati ed indipendenti ricostruiscono o provano a ricostruire quanto davvero è accaduto. Così la versione fittizia di regime è contraddetta e corretta dai cronisti e dai ricercatori. Nei “Promessi sposi” il mercante dell’osteria di Gorgonzola riferisce i tumulti di San Martino con l’assalto ai forni per opera di una popolazione inferocita ed affamata (11 novembre 1628), sulla base della sua ideologia piccolo-borghese, radicata in una mentalità classista, sino a trasformare il mite Renzo in un feroce sedizioso. L’autore, invece, dipana le vicende milanesi con obiettività, evidenziando l’atteggiamento ingenuo ed avventato del protagonista, di cui, però, mette in luce l’indole pacifica, la sua innata ripugnanza per ogni atto violento. Così, nella focalizzazione multipla, verità e menzogna collidono.

E’ quel che succede nella disamina degli eventi parigini con le narrazioni convenzionali in stridente contrasto con una verità che stenta ad emergere a causa dell’inebetimento generale e dell’egemonia detenuta dai potenti mezzi di disinformazione.

Consideriamo ora un'altra circostanza: le reazioni dei parenti delle vittime. Senza scomodare la programmazione neuro-linguistica, che comunque si può rivelare giovevole nelle nostre indagini, è sufficiente ricorrere ad un altro potentissimo strumento della narratologia, vale a dire lo studio della caratterizzazione. La caratterizzazione è l’insieme delle note che rendono un personaggio verosimile, realistico, accattivante. Sempre nei “Promessi sposi”, Manzoni, ancor prima di dedicare un ampio ritratto a don Abbondio, descrizione da cui emerge l’indole di un sacerdote pusillanime, opportunista e stizzoso, già definisce il curato, raffigurandolo mentre “bel bello” rientra in canonica, compiuta la sua consueta passeggiata serale. La raffigurazione antropologica (l’insieme delle glosse che dipingono il modo di camminare, di gesticolare e di ammiccare) rivela da sola l’indole oziosa e superficiale del curato: il linguaggio del corpo tradisce la sua natura di uomo abitudinario, mediocre e pacioso.

Mutatis mutandis, ci sembra che i genitori di Valeria Solesin nella gestualità, nel tono della voce, nel movimento oculare lascino emergere una certa affettazione, una commozione appena percepibile e comunque studiata, come studiate paiono le frasi, addirittura con quel cedere la parola e con quel lapsussiamo andati a letto, a dorm…” su cui Freud, se fosse vivo, si potrebbe sbizzarrire. La sincerità sembra controllata, il controllo pare appena velato da un tentativo di veicolare emozioni: ne risulta un pàthos gelido e retorico, un turbamento imperturbabile, come di una fiamma che non scalda.

Naturalmente non tutti reagiscono alle disgrazie allo stesso modo: alcune persone non piangono, non si disperano. Nondimeno i lati antropologici e neurolinguistici deporrebbero a favore di un’incongruenza fra la condotta dei genitori e la sventura piombata loro addosso. E’ un’incongruenza cui si aggiunge il carattere nazional-letterario di Valeria Solesin, più simile ad personaggio con un suo ruolo preciso, l’eroina animata da nobili valori, che persona in carne ed ossa.

E’ ovvio che le nostre sono ipotesi, benché fondate su osservazioni non di poco conto, tra l’altro suffragate da numerosi altri riscontri ed acquisizioni. In ogni caso, non ha torto lo scrittore Giorgio Manganelli ad affermare che la “letteratura è menzogna”, soprattutto la letteratura dei media mainstream, chiosiamo noi.

Video correlato: Attentato a Parigi. L'altra verità, 2015



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23 novembre, 2015

Il solito Alfa-beto



“La pubblicità è l’anima del commercio”: si ripete questo frusto detto che è vero solo in parte, specialmente oggigiorno visto che la pubblicità non è volta solo ad incrementare un consumo frenetico ed irrazionale, ma è pure un potente linguaggio. Non è un caso se in questo linguaggio si esplica oltre alla funzione conativa, con cui si incita ad acquistare il prodotto, anche la funzione poetica che valorizza la retorica, l’efficacia strutturale e semantica del messaggio. Si giunge talora alla diffusione di quelli che sono definiti messaggi subliminali, ossia in grado di varcare la soglia della coscienza per colonizzare il subconscio e l’inconscio, simili a programmi mentali con cui molte persone sono gestite, eterodirette.



Tra i numerosi spot che veicolano i sinistri simboli dei soliti noti, spicca quello di una marca automobilistica. La produzione è stata così presentata: “In concomitanza con la diretta del "Match for Expo Milano 2015", è partita (sono partiti anche gli ideatori della réclame) su RAI Uno la nuova campagna pubblicitaria Alfa Romeo: immagini emozionanti, inondate dal rosso Alfa , ‘danzano’ al ritmo incalzante del nuovo singolo dei Negramaro, ‘Sei tu la mia città’, accompagnando Giulietta e MiTo in un viaggio suggestivo, fatto di evocazioni visive forti e seducenti”.

Altro che evocazioni visive! Siamo di fronte all’inquietante campionario di immagini ed adombramenti dei maramaldi, un bric à brac dove un imbarazzante cattivo gusto si sposa con la più smaccata esibizione di simboli erotico-satanici: la farfalla che ricorda il progetto di controllo mentale noto come Monarch, donne dalla movenze lascive, occhi onniveggenti con classico sfondo di cieli chimici, della serie “ti ficco la scia chimica anche dove non c’entra un emerito fico secco, così ti abitui e credi che sia tutto normale”.



La bellezza delle figure femminili entra in dissonanza con l’orrore delle altre icone, sino al fiore lacerato, emblema di disfacimento. Il tutto è dominato dal rosso e dal nero, colori su cui scrivemmo già tempo fa, per evidenziarne in certi contesti le proprietà bieche, entropiche, degenerative. I colori sono frequenze, vibrazioni nonché simboli: è facile immaginare quali effetti generino tinte siffatte insieme con segni destinati ad addentrarsi un po’ alla volta nei meandri della psiche, a definire un immaginario distorto e volgare.

Dulcis in fundo, anzi venenum in cauda (e che veleno!) lo spot contiene negli ultimi fotogrammi un’immagine velocissima, impercettibile che pare una testa cornuta o un pianeta alato (che in fondo sono la stessa cosa...). E’ questa la televisione, è questo il mondo in cui “viviamo”… non propriamente bello né accogliente.

E’ grave che siano escogitati questi orrendi messaggi; più grave che il pubblico li apprezzi.

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19 novembre, 2015

E' vero?



E’ vero che i veicoli potrebbero essere alimentati da energie pulite e poco costose?
E’ vero che esistono terapie efficaci per le varie patologie, compresi i tumori?
E’ vero che il riscaldamento globale da biossido di carbonio è una fandonia gigantesca?
E’ vero che, in assenza di servizi segreti, non sarebbero perpetrati attentati?
E’ vero che si potrebbe lavorare solo venti ore alla settimana ed avere un reddito più che decoroso?
E’ vero che si potrebbe garantire a tutti il necessario per vivere?
E’ vero che, senza i centri occulti di potere, non si combatterebbero guerre, non si creerebbero flussi migratori ed esodi di massa, crisi economiche, disgregazioni e tensioni sociali?
E’ vero che potremmo disporre di cibo sano e genuino?
E’ vero che potremmo contemplare un cielo azzurro cosparso di cumuli vaporosi?
E’ vero che potremmo vivere fino a cent’anni ed oltre?
E’ vero che si potrebbe sostenere l’amministrazione pubblica con una sola imposta indiretta, senza altri tributi e balzelli?
E’ vero che le carceri e gli ospedali sarebbero semivuoti?
E’ vero che gli eserciti e gli armamenti non avrebbero più alcuna ragione d’essere?
E’ vero che papa Ciccio è un pericoloso impostore?
E’ vero che la tecnologia potrebbe risolvere un numero enorme di problemi, invece di causarli?
E’ vero che gli esponenti della feccia dovrebbero andare non a casa, ma a lavorare nelle miniere di diamanti?
E’ vero che gli eventi più feroci non sono il risultato di coincidenze, ma che accadono perché Essi li fanno accadere?
E’ vero che non esistono “poteri buoni”?
E’ vero che i banchieri sono degli usurai?
E’ vero che Destra e Sinistra sono due facce della stessa patacca?
E’ vero che Noi non siamo come Loro?
E’ vero che…?

Scrive amaramente Michael Ellner: “Guardiamoci attorno. E’ tutto alla rovescia. I medici distruggono la salute, gli avvocati distruggono la giustizia, gli psichiatri distruggono le menti, gli scienziati distruggono la verità, i principali mezzi di comunicazione distruggono l’informazione, le religioni distruggono la spiritualità ed i governi distruggono la libertà”.

Stando così le cose, è vero o non è vero che dobbiamo svegliarci, prima che sia troppo tardi?

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14 novembre, 2015

Thoreau e lo Stato



La disobbedienza civile è l’unico modo per obbedire alla voce della coscienza, ergo è un obbligo.

Com’è potuto succedere ciò? Com’è potuto succedere che nel luogo in cui si estendevano prati con gruppi di alberi e viottole costeggiate da siepi, dove scorrevano rogge fra campi coltivati oggi si trovi un quartiere suburbano di tetri casermoni stagliati su un cielo pieno di grovigli: oggi solo cemento, centri commerciali, monumentali rotatorie, mefitici immondezzai… La metamorfosi è avvenuta con inesorabile lentezza: prima un condominio ancora circondato dal verde, poi due, tre, quindi le strade di collegamento, i tralicci dell’alta tensione, le antenne della telefonia mobile. I suoli da agricoli diventano edificabili e la deturpazione del territorio un po’ alla volta avanza.

In modo simile i primi consorzi umani si sono trasformati in Stati, mostruose costruzioni che hanno divorato gli ultimi brandelli di civiltà. Veramente, come scrive Henry David Thoreau (Concord, 12 luglio 1817 – Concord, 6 maggio 1862), filosofo, scrittore e poeta statunitense, lo Stato è uno stupido. Oltre alla coercizione, che esplica attraverso le forze di polizia e l’esercito, per mezzo di un ginepraio burocratico (basti pensare alle infinite e cervellotiche scadenze fiscali), mercé i grotteschi tribunali, il monstrum manifesta un’irredimibile ottusità. E’ l’ottusità di chi confida solo nella violenza, nella frode, nella codardia dei sudditi e nella connivenza degli adulatori. E’ l’idiozia di chi, sopraffacendo gli uomini, dimostra la sua totale inumanità. Ribellarsi allo Stato, rinnegare tutte le sue ignobili istituzioni non è un’occasione, non è neppure un auspicio, bensì un preciso, ineludibile dovere morale. Accettare codesta compagine significa non tanto essere vili, quanto, aderendo ad una natura tarata, essere deficienti e beoti, come le norme che il Leviatano rigurgita senza requie.

La sconfessione dello Stato è il fondamento della libertà interiore, il viatico della verità, il perno della rettitudine.

Nel 1846 Thoreau rifiutò di versare la tassa (poll-tax) che il governo imponeva per finanziare la guerra schiavista contro il Messico, conflitto da lui reputato iniquo e contrario ai principi di libertà, dignità e uguaglianza sanciti dalla Costituzione degli Stati Uniti. Per questo fu incarcerato per una notte e liberato il giorno successivo quando, tra le sue vibrate proteste, sua zia pagò il tributo per lui. In “Disobbedienza civile” Thoreau scrive:

“Per sei anni non ho pagato la ‘poll-tax’’. Una volta per questo fui imprigionato, per una notte; e, mentre stavo lì ad esaminare i muri di pietra massiccia, spessi due o tre piedi, la porta di legno e ferro spessa un piede e le grate di ferro dalle quali filtrava la luce, non potevo fare a meno di rimanere colpito dall’assurdità di quell’istituzione che mi trattava come fossi semplice carne e sangue e ossa, da mettere sotto chiave. Mi stupivo che esso avesse concluso alla fine che quello fosse il migliore uso che poteva fare di me e che non avesse mai pensato di avvalersi in qualche maniera dei miei servigi. Compresi che, se c’era un muro di pietra fra me e i miei concittadini, ce n’era uno ancora più difficile da scalare o rompere prima che essi potessero arrivare ad essere liberi come lo ero io. Non mi sentii segregato neppure per un attimo e quel muro mi apparve solo un grosso spreco di pietra e di malta. Mi sentivo come se io solo, tra tutti i miei concittadini, avessi pagato la mia tassa.

Chiaramente essi non sapevano come trattarmi, ma si comportavano come persone rozze. In ogni minaccia e in ogni lusinga vi era grossolanità, poiché essi erano convinti che il mio più grande desiderio fosse quello di trovarmi dall’altra parte di quel muro di pietra. Non potevo evitare di sorridere nel vedere con quanta industriosità chiudessero la porta in faccia alle mie riflessioni, riflessioni che li seguivano fuori senza alcun impedimento peraltro e che costituivano l’unico vero pericolo. Poiché non potevano raggiungere me, avevano deciso di punire il mio corpo; si comportavano come certi bambini che, quando non possono arrivare a qualcuno per il quale nutrono risentimento, finiscono per maltrattarne il cane.

Capii anche che lo Stato era un idiota, un timorato al pari di una donnina nubile in mezzo all'argenteria, incapace di distinguere i suoi amici dai suoi nemici e così finii col perdere del tutto il rispetto che m’era rimasto nei suoi confronti e lo compatii. Lo Stato, dunque, non si misura mai direttamente con la sensibilità di un uomo, intellettuale o morale, ma solo con il suo corpo, con i suoi sensi. Esso non è dotato d’intelligenza o onestà superiore, ma solo di superiore forza fisica”.

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La squola della Gelmini - di Antonio Marcianò - Gemme scolastiche da collezionare

07 novembre, 2015

Che cosa succede dopo la morte?



Che cosa succede veramente dopo la morte? E’ domanda che dovrebbe incalzare tutti, ma – si sa – siamo presi da cose più importanti: il calcio, Renzi, "X Factor", il sabato sera in discoteca… Comunque è quesito che vogliamo porci.

Accantonati gli scenari secondo cui, dopo il decesso, ci attende il nulla o un sonno profondissimo prima della resurrezione, proviamo ad immaginare che la coscienza individuale sopravviva, una volta azzerati i parametri vitali. Gli studi ed i resoconti sulle esperienze di pre-morte hanno lasciato intravedere le dimensioni in cui l’anima presumibilmente si inoltra ed è singolare non tanto che queste esperienze si assomiglino un po’ tutte, piuttosto che, pur nella sostanziale affinità con altri vissuti, il racconto del neurochirurgo Eben Alexander se ne discosti, con la descrizione di particolari eccentrici ed anomali. Alexander, dopo essere “morto” per una settimana a causa di un’infezione da Escherichia coli che aveva colpito l’encefalo, non solo tornò in “vita”, ma, contro ogni prognosi, recuperò presto le facoltà motorie e cognitive. L’uomo, oltre a ricordare un’estatica avventura in una terra meravigliosa popolata da farfalle multicolori, riferì di aver dimorato in una regione repellente, piena di miasmi e dove aveva udito un suono meccanico ed ossessivo. Forse Alexander si era smarrito nell’Inferno, prima di trovare la strada per il Paradiso?

Non mancano relazioni di esperienze terribili (di solito narrate da persone che hanno tentato il suicidio) né rapporti antitetici con “viaggi” in plaghe luminose dove i redivivi hanno provato un senso di ineffabile beatitudine, ma reperire nello stesso resoconto entrambi i vissuti lascia esterrefatti. Quella zona tenebrosa, invasa da creature ripugnanti e mefitiche, in cui la coscienza di Alexander rimase per un po’ di tempo imprigionata, è l’Inferno?

Per rispondere, dobbiamo rispolverare una veneranda e negletta Tradizione, quella gnostica. La Gnosi antica è simile ad un fiore profumato e bellissimo che riesce a spuntare in uno stretto interstizio: è pressoché l’unico retaggio che pare essere senza ambiguità dalla parte degli Uomini e non degli Arconti. (1) E’ la Gnosi antica che tenta di avvisare l’umanità dell’arazzo di inganni tessuto dai Dominatori, non solo durante l’esistenza ma pure nel momento decisivo del trapasso.

Non è scontato che l’anima, una volta uscita dal guscio corporeo, si rechi nell’aldilà: essa potrebbe rimanere, per un periodo più o meno lungo, in una sorta di zona di frontiera (l’astrale?) che presenta tratti simili a quelli del mondo tetro e mefitico rappresentato da Alexander. Forse non è solo la condotta durante la vita terrena ad influire sul destino post mortem, ma pure una particolare consapevolezza della propria natura e del fatto che i Guardiani della soglia hanno tutto l’interesse ad evitare che l’anima ritorni nella sua sede primigenia per cui tentano di acciuffarla e di rigettarla nel calderone del samsara.

La Prima Apocalisse di Giacomo rivela una sorta di salvacondotto verso la Liberazione? In questo testo apocrifo (segreto) leggiamo: “Il Signore disse a lui: 'Giacomo, ecco, ti rivelerò la redenzione. Quando sei afferrato e subisci queste sofferenze, una moltitudine si armerà contro di te per afferrarti. E in particolare tre di loro ti ghermiranno - coloro che siedono come esattori di pedaggio. Non solo chiedono il pedaggio, ma portano via le anime con un furto. Quando si cade in loro potere, uno di loro che è a guardia ti dirà: 'Chi sei tu e da dove vieni?' Gli risponderai: 'Io sono un figlio e sono dal Padre'. Egli ti chiederà: 'Che tipo di figlio sei ed a quale Padre appartieni?' Dirai: 'Vengo dal Padre pre-esistente e sono un figlio pre-esistente".

La cella buia e maleodorante evocata da Alexander potrebbe non essere l’Inferno, ma il ribrezzoso Regno degli Arconti ed il cosmo, dove siamo incarcerati, una propaggine tecno-olografica del loro Impero nefando e squallido. Notiamo in primo luogo che nel film “Matrix”, l’ambiente in cui le macchine allevano il bestiame umano è desolato e freddo come l’Ade raffigurato da Alexander.

Inoltre, in questi ultimi anni alcuni scienziati, preceduti, però, da un artista visionario come Philip K. Dick, hanno ipotizzato che l’universo sia una neurosimulazione o, meglio, un sofisticato software: qualche ricercatore si è accorto che la strutture basilari del cosmo paiono avere i caratteri dei pixel, come se la “realtà” fosse l’immagine di uno schermo, un’immagine composta in ultima istanza da innumerevoli puntini. A quale cosmo ci riferiamo? Probabilmente a quello generato e distorto dagli Arconti, non alla realtà reale (dall’iperuranio di Platone all’ordine implicito di David Bohm). Si comprende allora perché molte sinistre confraternite adorano il Grande Architetto dell’Universo (G.A.U.): esse venererebbero il Signore degli Arconti, un essere in cui una sbalorditiva conoscenza della matematica si abbina alla smania di controllo. Culto fanatico della tecnologia, smania di controllo non sono le ossessioni delle sedicenti élites, composte dai sicari delle Potenze?

Galilei scrisse che “l’universo è scritto in caratteri matematici”: quale universo? La caverna arcontica (il programma informatico percepito come unica realtà) o l’Empireo dove non hanno cittadinanza i perfetti, algidi numeri?


(1) Nei testi gnostici gli Arconti sono dipinti come una progenie imitatrice. “Arconti” significa sia “reggitori” sia “esseri del principio”, giacché nacquero prematuramente, donde l’analogia con l’aborto spontaneo nei papiri di Nag Hammâdi. Questa genia deviante venne alla luce prima che si formasse la Terra: a differenza degli uomini e delle altre specie, gli Arconti non originarono dalla Luce, ma dalla materia inorganica. In principio gli Arconti non possedevano un habitat, ma brulicavano attorno alla Terra a guisa di cavallette fameliche, attratti da Sophia, da cui furono respinti. Queste creature sono prive di ennoia, ossia volontà ed intenzione, rappresentando un’aberrazione cosmica. Degli Arconti ci siamo occupati in parecchie occasioni soprattutto in relazione ad orizzonti xenologici. Perciò rimando i lettori ai precedenti articoli per approfondire il tema e per le fonti.

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05 novembre, 2015

Luciano De Giovanni: semplicità e profondità



Luciano De Giovanni è poeta nato a Sanremo nel 1922 e morto a Montichiari nel 2001. E’ anche autore di un romanzo autobiografico, pubblicato postumo, “Le case vicino al torrente”.

E’ un peccato che De Giovanni sia voce misconosciuta, poiché le sue liriche, confluite negli anni in esili ma preziose plaquettes, sono quanto mai ispirate nella loro semplicità.

De Giovanni appartiene a pieno diritto a quella linea ligure che annovera in Montale ed in Sbarbaro i suoi esponenti più insigni. Come è ovvio, questa linea trascende una valenza meramente geografica: è, infatti, un modo di essere, di percepire la vita. Ci sembra che i tratti salienti di tale orientamento siano il disincanto e, quasi in modo paradossale, una tensione metafisica a valicare il limite. Si avverte nei componimenti di De Giovanni l’amaro della salsedine, l’anelito verso l’orizzonte infinito: la Liguria, come condizione esistenziale, stretta tra le montagne ed il mare, tra l’aridità del destino e la speranza nell’altrove. Così talune composizioni sono ventilate da un soffio di fede, una fede comunque dubbiosa e precaria.

In molti casi la misura breve delle unità metrico-ritmiche, la concentrazione semantica cingono le parole in composizioni gnomiche, a creare quasi degli aforismi versificati. Piccole cose e grandi aspirazioni si abbracciano nell’inventario lirico di De Giovanni.

La fragile realtà di tutti i giorni è sfiorata, come se il poeta temesse di incrinarla con parole fuori registro o toni che non siano dimessi. Le stesse rime, timide e consuete, accennano solo una melodia per lasciare spazio ad una meditazione su sofferenze e gioie ordinarie tra cui si insinua la grazia straordinaria di un’immagine limpida, di un’emozione senza tempo.

Di seguito alcune liriche dell'autore matuziano.

Penso
che il paradiso
sia ciascuno di noi
quando dimentica
il suo nome

Accettarsi: come il pesco
che sboccia mille fiori
per poche decine di frutti.
E non raccoglierli
nemmeno tutti.

I miracoli sono così fragili!
rifletto,
mentre delle cose osservo
i misteriosi confini.
Fragili come bambini!

Chissà quante anime mi stanno accanto,
mentre io soffro d’essere solo,
chissà l’ala, chissà il volo,
chissà il cielo, chissà il mare
che ancora non so navigare.

La nostra tristezza
nasce dal ricordare:
amare
e poi dimenticare
non ci è consentito.

Imparare a leggere
sul foglio bianco
un immaginario disegno
e non chiedere
altro segno


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La squola della Gelmini - di Antonio Marcianò - Gemme scolastiche da collezionare

01 novembre, 2015

Assolutamente



Ormai ci si imbatte sempre più spesso nell’abominevole “Assolutamente”. Donde sia spuntato questo mantra e perché si sia diffuso a macchia d’olio è difficile da comprendere. Fatto sta che l’avverbio ormai impazza e non ce ne liberiamo più: “giornalisti”, “politici”, “esperti”, persone comuni a qualsiasi domanda rispondono con “assolutamente” oppure per giunta con “assolutamente sì” o “assolutamente no”. Il lessema è usato come sinonimo di “certo”, “senza dubbio”, “affatto”, ma ormai è anche fine a sé stesso. Il vaniloquio degli hollow men alla fine ruota attorno a due o tre luoghi comuni, infarciti di codesta parola-intercalare che, con la sua lunghezza e la s geminata, forse aiuta a colmare il vuoto da cui è fagocitato il nostro decadente corpo sociale. Non abbiamo più alcunché da dire: possiamo dichiarare soltanto la nostra assoluta relatività, anzi trascurabilità.

Anche “assolutamente” è un segno dei tempi, come gli ormai quasi estinti “cioè”, “ovviamente”, “voglio dire”…: sono tempi in cui l’incommensurabile numero di parole che invadono lo spazio della “comunicazione” è poco più di un borborigmo.

Si racconta che Diogene andasse in giro con una lanterna per cercare l’”uomo”: il filosofo cinico intendeva in quel modo irridere i pensatori secondo cui esiste un archetipo “uomo” di cui i singoli sono accidenti.

Oggi qualcuno ancora si ostina a cercare un’ombra di humanitas tra la gente, ma è impresa vana. La maggioranza degli uomini non è formata da individui malvagi, bensì da ignavi. Basta camminare per strada: si incrociano non esseri coscienti, ma quasi sempre sagome senza identità. I volti sono vuoti, piatti, inespressivi. Oltre quelle superfici il niente. Le silhouettes si muovono sotto un cielo d’asfalto, percorrendo strade senza direzione, con la testa incollata al cellulare. Si ha il sentore che siano esistenze abortite nel cimitero della storia.

Articolo correlato: Umanità?, 2015

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