26 luglio, 2012

La morte di Ivan Il'ič

La morte di Ivan Il'ič (1886) è un celebre racconto di Leone Tolstòj: il protagonista, Ivan Il'ič Golvin, è consigliere di Corte d’appello nella capitale russa. Borghese soddisfatto e cittadino modello, la sua esistenza vira di botto, allorché si ammala di tumore all’intestino. La storia comincia dalla fine, con i colleghi che apprendono del decesso dal giornale per precipitare nell’analessi con cui l’autore ripercorre la biografia del consigliere. E’ così dipinto il ritratto ordinario di un uomo pienamente inserito nel milieu, emblema di una società che trova i suoi cardini nel decoro e nella rispettabilità.

Che cosa si agita dietro la normalità? La carriera, il menage familiare dignitoso, benché incrinato da incomprensioni e divergenze tra Ivan e la consorte su come arredare il lussuoso appartamento, circa l’educazione da impartire ai giudiziosi figlioli, sono le cianfrusaglie che l’autore ammassa. Dov’è l’autenticità in una condizione che tocca il suo culmine nelle brillanti, fatue conversazioni nel corso di una partita di whist?

Con disgusto e sofferenza – una sofferenza persino maggiore rispetto a quella provata da Tolstòj, quando si immedesima nel calvario del suo personaggio – il maestro russo indugia su una vita che non è vita, perché inautentica, sterile, cieca di fronte al male che scalpita, appena dietro l’uscio del “salotto buono”. Il culto del denaro e del prestigio non arretrano neanche di fronte al trapasso, perché a morire sono sempre gli altri. Cinismo, miserabile cronaca di omuncoli che solo il destino più feroce potrà forse trasfigurare in uomini… per un istante.

Possibile che solo l’indecorosa malattia e la gelida, incombente ombra della morte diano un senso all’esistere? Persino Dio, quel Dio di cui Ivan avverte “la crudeltà e l’assenza”, si palesa, negandosi, soltanto nella cella della disperazione, nel buio della solitudine.

All’improvviso tutto impallidisce: i fiori della carta da parati, lo scintillio delle suppellettili Biedermeier, l’odore del marocchino… All’improvviso la prospettiva è sovvertita. I rapporti umani si rivelano falsi, le lacrime finte, le parole vuote. Resta solo il dolore tanto più lancinante, perché inflitto ad un incolpevole (anche se nessuno è del tutto innocente). Resta solo il fantasma della morte. Il sillogismo “Socrate è un uomo. Gli uomini sono mortali. Socrate è mortale.” si dilata da procedimento dialettico a condanna senza appello. Eppure viviamo (viviamo?), quasi fossimo immortali…

“La morte ed il sesso… sono le due roccaforti del male che per Tolstòj non si arrendevano in nessun modo, nemmeno al Vangelo! La morte? Perché? Perché qualsiasi cosa, perché lottare e perché oziare, perché soffrire e perché gioire, se poi comunque si muore? L’idea di una sopravvivenza ultraterrena sembrava a Tolstòj una resa vergognosa allo sconforto. Era evidentemente un’illusione… e d’altronde Gesù, Gesù stesso non aveva provato repulsione e terrore della morte?” (I. Sibaldi).

Nel bellissimo, commovente epilogo, Ivan sprofonda in un pertugio, alla fine del quale si illumina qualcosa. Egli si riconcilia con sé stesso e con gli altri: non è tardi, anche quando è tardi, ora che il tempo non esiste più. Il dolore e la morte scompaiono: “Cercò la sua solita paura della morte, la paura di un tempo e non la trovò. Dov’era? Quale morte? Non c’era nessuna paura, perché non c’era neppure la morte. In luogo della morte, c’era solo la luce”.

La luce di un sole che non tramonta.

APOCALISSI ALIENE: il libro

La squola della Gelmini - di Antonio Marcianò - Gemme scolastiche da collezionare

21 luglio, 2012

Quando l'eroismo non basta

Di recente una rete televisiva ha mandato in onda la pellicola “Un eroe borghese”, per la regia di Michele Placido. Il film dipana le note vicende dell’integerrimo Giorgio Ambrosoli (Milano 1933-1979), l’avvocato scelto per liquidare la Banca privata italiana, appartenente a Michele Sindona (Patti 1920 - Voghera, 1986). Ambrosoli, per aver toccato dei nervi scoperti, fu assassinato da un sicario il giorno 11 (!) luglio 1979. Sindona, rampante uomo d’affari, tra il 1969 ed il 1974 aveva costruito un impero finanziario, al cui crollo era riparato negli Stati Uniti. Il faccendiere, essendo coinvolto nel fallimento della banca “Franklin”, fu arrestato e condannato. Morì in carcere per avvelenamento.

Che significato può assumere per il sistema inserire nei palinsesti certe produzioni cinematografiche e dedicare reportages e dibattiti ai crimini della mafia perpetrati con la collusione - come si suol dire – di “pezzi dello stato”? Si chiamano in causa trattative tra lo stato e Cosa nostra (c’est-à -dir lo stato tratta con sé stesso… ), servizi segreti deviati, quasi esistessero servizi retti come rette.

Non bisogna illudersi: il potere, che trova nei media un potente e capillare strumento di plagio dell’opinione pubblica, non lascia nulla al caso. Le celebrazioni untuose ed ipocrite in memoria dei compianti Giovanni Falcone e Paolo Borsellino obbediscono ad alcuni precisi scopi. In primo luogo, sono la maschera delle istituzioni che amano presentarsi, per alimentare il consenso della massa, come oneste e strenue oppositrici della delinquenza organizzata. Il governo così esibisce il suo volto imbellettato… peccato che sia il viso di una mummia putrida e puzzolente.

Inoltre l’insistenza sulle nefandezze della malavita cui si intrecciano complicità degli apparati, induce a credere che è sufficiente recidere i pochi legami tra la criminalità e qualche esponente della società civile o della politica (funzionario o sottosegretario o ministro) per ripristinare la legalità. Ecco allora che pullulano ripugnanti iniziative soprattutto “scolastiche”: commemorazioni, concorsi, mostre, spettacoli sono volti ad indottrinare le nuove leve, ad inculcare il convincimento che lo stato è buono. Supremo e vergognoso paradosso: il regime celebra gli eroi che esso stesso ha trucidato.

Anche lasciar balenare il sospetto che, dietro certi omicidi eccellenti si trovino personaggi del calibro di Giulio Andreotti, non rivoluziona le cose, non sovvertendo la fiducia nel sistema tout court. Si resta sempre ad un livello di comprensione non solo incompleto, ma tendenzioso, poiché è un’interpretazione del reale che prescinde dalla coscienza che “non esistono poteri buoni”. (F. De André)[1]

Compiere un passo decisivo nell’intelligenza dei processi politici significa acquisire che le élites sono talmente feroci e spregiudicate da non esitare a massacrare inermi ed ignari cittadini, spesso della stessa nazione cui, all’apparenza, appartengono le stesse classi dirigenti. Questo modus operandi è ben documentato, ad esempio, nel libro di Marco Pizzuti, “Rivelazioni non autorizzate”, in cui è illustrato come il Gotha sedicente ebraico non esitò a strumentalizzare ed a sacrificare inconsapevoli giudei, pur di perseguire i suoi diabolici fini. E’ una raison d’état che ignora e calpesta le patrie ed i popoli.

Non basta, però, concludere che la politica e l’economia mondiale sono dirette e gestite da pochi influenti centri: è codesta una conclusione che il cittadino medio, quasi sempre, rifiuta a priori, pur con tutte le prove che si possono addurre. Bisognerebbe, infatti, concepire una longa manus allotria dietro il sipario degli accadimenti…. e questo è davvero chiedere troppo anche ad un eroe, borghese o proletario che sia.

[1] E' naturale che all'interno delle istituzioni agiscono persone degnissime, ma purtroppo sono poche.

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La squola della Gelmini - di Antonio Marcianò - Gemme scolastiche da collezionare

19 luglio, 2012

Entropia (II)

Nulla è eterno e poche cose sono durevoli. (Seneca)

La vera sfida è sconfiggere l’entropia, vincere la gelida gravità, la greve inerzia... Vediamo, però, i giorni dileguarsi, i colori mentre sbiadiscono, l’orizzonte che incanutisce.

Dalle galassie che vanno alla deriva verso ignote sponde al pulviscolo roteante in un raggio di luce, tutto è preso nel movimento vorticoso del divenire, come in una frenesia di consunzione.

Passeremo. Le cose che ci hanno accompagnato dureranno ancora, ma anch’esse invecchieranno. Un giorno saranno risucchiate in mulinelli di polvere.

Corrono gli attimi, ombre di nuvole sul mare. Il cosmo, un po’ alla volta, si stinge, s’imbeve di buio, sprofonda nel silenzio.

Resterà ancora qualcosa, quando non rimarrà più nulla?

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La squola della Gelmini - di Antonio Marcianò - Gemme scolastiche da collezionare

16 luglio, 2012

La questione sumerica

Serendipità, ossia compiere un’importante ed inattesa scoperta, mentre si sta cercando qualcos’altro. Per serendipità sia Mario Biglino sia Biagio Russo, tentando di venire a capo dello spinoso problema concernente le origini degli esseri umani, hanno rispolverato una possibile verità, già intuita nel 1956 da Poebel, ma a lungo ignorata, anzi ostracizzata. [1]

Qual è dunque tale riscoperta? Indagini linguistiche e filologiche sugli antichi testi (le saghe sumere, la Torah etc.) hanno evidenziato una parentela fra i termini Shumer-Shinar e Shem-Sem, quindi fra l’enigmatico popolo dei Sumeri (“Guardiani"?Teste nere”?) ed i Semiti. L’assenza di riferimenti ai Sumeri nel Pentateuco, se si esclude il cenno alla regione di Shinar, quasi certamente la terra di Sumer, ricorda il silenzio circa gli Esseni(?) nei Vangeli canonici. E’ un silenzio che alcuni esegeti hanno interpretato come l’eventualità di un collegamento, per qualche motivo occultato, tra il Messia e la comunità qumranita.

Ecco che cosa scrive il Professor Biglino: “Nella cosiddetta Tavola delle nazioni (Gen. 10) sono elencati i popoli che abitavano nei territori del Medio Oriente e non solo (Egizi, Assiri, Babilonesi, Cananei, Filistei, Hurriti, Hittiti, Etiopi, Amorrei, Evei, Accadi, quelli di Cipro, Rodi, Tarsi, Ofir…), ma non ci sono i Sumeri. Com’è stato possibile dimenticare proprio il popolo da cui l’Antico Testamento ha addirittura tratto gran parte dei suoi contenuti originali? E’ un’incomprensibile ed imperdonabile dimenticanza? Il sumerologo Kramer ci riconduce agli studi del suo maestro Poebel raccolti in un articolo in cui in sostanza si afferma che gli Ebrei sono i discendenti dei Sumeri. La Bibbia non li cita quindi espressamente perché, quando parla degli Ebrei, parla in realtà di un ramo diretto discendente del popolo che portò la civiltà nel mondo. I Sumeri erano dunque Semiti? Proviamo a rispondere con l’aiuto della Bibbia stessa. Sappiamo (Gen. 10, 21 e segg.) che Shem (Sem), figlio di Noè, ebbe vari figli da cui derivarono popolazioni che la storia conosce molto bene: Ashur, Elam, Aram… Da uno di questi figli discese Eber (Ever), capostipite degli Ebrei.”

Gli accademici hanno osservato che le forme Shumer-Sumer e Shum-Shem sono equivalenti sotto il profilo fonetico: a tali annotazioni bisogna aggiungere che i Sumeri si erano insediati nella Mesopotamia, la patria del patriarca Avram (Gen. 15, 7 e 24, 10), rampollo di Ever e dal cui figlio Isacco prosegue la discendenza geneticamente pura. Le consuetudini matrimoniali seguite da Abramo, Isacco e Giacobbe alias Israele corrispondevano agli usi endogamici dei Sumeri ed ancora prima degli Anunnaki. La Bibbia (Gen. 10, 29-30) infine ci informa a proposito del sito in cui si installò un altro gruppo ebraico, quello dei figli di Ioktan, il cui padre fu Ever: la regione è la Mesha, il territorio dell’attuale Arabia fino a Sefar, l’odierna catena dello Zufar che si snoda lungo il Mare arabico.

Annota Russo: “Secondo gli studi di Kramer, gli antenati dei patriarchi ebrei, lasciato l’Eden, si stabilirono nella terra di Shin'ar, l’antica Sumer. … Nella Bibbia vengono citate quasi tutte le civiltà importanti del Vicino Oriente antico come Egizi, Cananei, Amorrei, Hurriti, Hittiti, Assiri, Babilonesi (i Babilonesi sono gli Amorrei, popolo semita occidentale, n.d.r.) ed altri, ma i Sumeri non vengono indicati. Perché? Viene quasi il dubbio che nella famosa ‘questione sumerica’, i sostenitori della negazione del popolo sumero abbiano ragione… Ora, considerato che, come è comunemente accettato dall’intera comunità degli storici, per figli di Eber si intende il popolo ebreo, non potrebbe ugualmente dirsi che il nome Shem rappresenta l’eponimo del termine Shumer, ovvero la terra di Shumer?” [2]

Come si può constatare, identiche valutazioni storiche e glottologiche, spingono i due ricercatori verso lo stesso lido, cioè ad individuare nei Sumeri i predecessori degli Ebrei (Habiru, Hyksos?).

A questo punto, però, sono d’obbligo alcune domande. Pur riconoscendo la rilevanza degli indizi raccolti da Poebel, Kramer, Biglino, Russo et al., restano delle zone d’ombra. Le lingue semitiche palesano una notevole discontinuità rispetto alla parlata dei Sumeri, il cui idioma era agglutinante. Come si spiega tale discrepanza? Se gli Ebrei furono i discendenti diretti dei "Guardiani", Giapeti (Indoeuropei) e Camiti, successori anch’essi di Noè, con quali etnie si mescolarono? In che dose il sangue sumerico-ebreo, dopo tanti secoli, scorre nelle vene degli attuali sedicenti Giudei? Le altre nazioni debbono essere considerate “sumerico-ebraiche” diluite? Esistono ceppi umani non derivanti da Shumer? Siamo di fronte a questioni meramente religiose (gli Israeliti come seguaci di YHWH) o, almeno in una certa misura, etnico-linguistiche?

Siamo ancora lontani dal trovare il bandolo della matassa, soprattutto perché non si è ancora riusciti a rispondere in modo soddisfacente ad altri quesiti: chi erano veramente gli AnunnaKi, gli Igigu (o Igigi) ed i Lulu? Esiste ancora oggi una genia che, menando vanto di un’ascendenza dai primigeni Dingir (i Superiori, gli “dei”), agisce dietro le quinte della storia per dirottarla verso inconfessabili obiettivi? E’ evidente che non è sufficiente interpellare l’archeologia, la paleografia, la linguistica, l’antropologia per dissipare le fitte nebbie del passato e per stanare i veri dominatori di oggi. Occorre esplorare altri campi in cui forse si può internare qualche intrepido pioniere. Sono ovviamente campi minati.[3]


[1] Qualcuno ha scritto che Russo, con le sue ipotesi contenute nel libro "Schiavi degli dei", va oltre Sitchin. A me non sembra: il suo saggio è prudente ed interlocutorio. Non si pronuncia sull’identità degli Anunnaki né si avventura in ipotesi riguardanti Nibiru etc. Forse l’autore intende riservare ad un prossimo lavoro risultati più decisivi.

[2] Sono, tra gli altri, D. Marin, E. Schievenin, I. Minella nel saggio "Atlantidi, i tre diluvi che hanno cancellato la civiltà", 2010, a negare l’esistenza del popolo sumero.

[3] Si pensi all’idea di Carl Edward Sagan (1934-1996). Il celebre astronomo statunitense, noto soprattutto per aver indagato con zelo il tema della possibile esistenza di civiltà tecnologiche nel cosmo e l’eventualità di comunicare con loro, predispose per la sonda Pioneer 10 un messaggio destinato a civiltà stellari che comprendeva musiche di un complesso mariachi ed auguri scritti in sumero, per illustrare a nazioni extraterrestri i caratteri precipui della vita sul nostro pianeta. Nella pellicola per la regia di Olatunde Osusanmi, Il quarto tipo, 2010, malvagi alieni parlano… in sumero.

Fonti:

M. Biglino, Il dio alieno della Bibbia, 2011
S. N. Kramer, I Sumeri agli esordi della civiltà, Milano, 1958
Id., I Sumeri alle radici della storia, Roma, 1979
B. Russo, Schiavi degli dei, 2010, pp. 115-124, 146-150


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La squola della Gelmini - di Antonio Marcianò - Gemme scolastiche da collezionare

11 luglio, 2012

Stato ed utopia sociale

“Gli uomini della folla sono talmente ipnotizzati che vedono e non comprendono il significato di quel che continua ad avvenire dinanzi ai loro occhi. Vedono quanto si preoccupano tutti i re, gli imperatori, i presidenti di avere un esercito disciplinato; vedono quelle rassegne, quelle parate, quelle manovre che essi fanno e di cui menano vanto l’uno dinanzi all’altro; e corrono con diletto a vedere come i loro fratelli, agghindati in abiti buffoneschi, variopinti, luccicanti, al suono dei tamburi e delle trombe si trasformino tutti quanti in macchine ed al grido di una sola persona compiano tutti insieme un identico movimento; e gli uomini della folla non capiscono che cosa significhi tutto ciò. E dire che il significato di ciò è molto semplice e chiaro: si tratta di una preparazione all’omicidio, nulla più. Si tratta di istupidire gli uomini per renderli strumenti di omicidio”. (L. Tolstòj, "Non uccidere", 1900, pamphlet scritto a seguito dell’assassinio di Umberto I di Savoia)

Sono queste le lucide parole dello scrittore russo che, attraverso una profonda crisi spirituale, approda ad un rifiuto di ogni forma di violenza, ad un cristianesimo evangelico e comunitario, espressosi nella fattiva solidarietà con i derelitti ed i bisognosi, siano agricoltori poveri, vittime di carestie o appartenenti a gruppi perseguitati.

Il rigetto della violenza è sic et simpliciter negazione dello Stato e della Chiesa (maiuscolo ironico). Stato e Chiesa, infatti, non incarnano forse la sopraffazione? Ecco allora l’antimilitarismo militante, la denunzia della trasformazione degli uomini in altrettanti automi adatti a stuprare, compiere sevizie, massacrare... con la benedizione dei cappellani.

Parate e funerali di stato: non manca mai il predicozzo del vescovo che, insieme con le impettite autorità, accoglie il feretro dell’eroe caduto in “missione di pace”. Il feretro è avvolto nell'italica bandiera ed il presidente, commosso sino alle lacrime, la mano tremebonda, sfiora il drappo.

Parate reboanti e retoriche: si vis pacem, para bellum... Saettano lassù le “Frecce tricolori”.

Si può costruire, si chiede Tolstòj, una società senza stato? Il modello che egli addita è la comunità cristiana dei primordi, fra utopia e realtà. Erano confraternite in cui era abolita la proprietà privata e dove il giuramento, le leggi umane, la coscrizione non avevano alcuna cittadinanza. Vero è che lo stato è simile ad una mala pianta dalle radici tenaci: essa tende a ricrescere, poco tempo dopo essere stata svelta. Così le primitive confraternite cominciarono ad organizzarsi, persino secondo forme gerarchiche, con i vescovi (episcopoi) preposti a vigilare sulla condotta dei fratelli, e gli anziani (presbyteroi) superiori rispetto agli altri, se non altro per la loro autorevolezza. Allo spirito egualitario, con i suoi pregi ed eccessi, subentrò un po’ alla volta, un embrione di struttura che culminò nelle chiese dirette da vescovi, ormai autorità con precise prerogative. Alcuni gruppi rimasero fedeli al comunitarismo, al vegetarianesimo, all’attesa apocalittica, ma i “Cristiani”, ormai Niceni, poi Ortodossi e Cattolici etc., gettarono alle ortiche le loro origini ed i Vangeli. Se nel III sec. d. C. Tertulliano ancora tuona contro il giuramento, il servizio militare, la cultura pagana condannata in toto, un secolo dopo, un “cristiano” soldato o magistrato o mercante è la norma. Così breve è il passo fra il rispetto della tradizione ed il suo sovvertimento. Non basta: il dorato manto dell’ipocrisia dichiara “eretici” gli osservanti ed ortodossi i bestemmiatori.

L’ipocrisia è la quintessenza della Chiesa e dello Stato a tal punto che non sapresti distinguere tra insincerità e le due colonne del sistema.

Ci domandiamo: è possibile ed auspicabile una società senza stato? Auspicabile, certamente. E’ anche possibile? Proviamo ad immaginare un paese in cui i tribunali sono edifici vuoti, fatiscenti, dove gli eserciti sono ormai sciolti, dove le divise dei “tutori dell’ordine”, sdrucite e consunte, sono raccolte per essere bruciate... E’ un mondo senza vertice e senza base. Non è solo il rifiuto dell’autorità in quanto tale a promuovere i princìpi anti-statali, ma la consapevolezza che le autorità sono malvagie. Che differenza rispetto agli imperi antichi in cui ogni tanto i reggitori erano uomini della caratura etica ed intellettuale di un Giuliano! Oggi i politici, se non sono dei perfetti inetti, sono dei criminali incalliti.

Non so quanto realistico sia il progetto di annientare lo stato che, anche qualora fosse distrutto, tenderebbe a risorgere nelle sembianze di un’amministrazione via via più capillare ed invadente. So, però, che la compagine odierna, essendo molto più dispotica dell’Impero zarista che Tolstoj disconobbe, merita di essere smascherata come costruzione vessatoria e coercitiva. Niente oggi dello stato si salva: né il sistema fiscale né la cosiddetta giustizia né le forze militari né l’assetto “educativo”.

Se un tempo era forse possibile riformare gli organi istituzionali o, per lo meno, provare a smussare gli spigoli del potere, oggi lo stato è invincibile, poiché è simile ad un liquido soporifero e letale che si diffonde nelle vene del consorzio umano, un liquido inafferrabile che, prima di uccidere, addormenta le coscienze. E’ questa la diversità: se gli stati del tempo trascorso suscitavano moti di opposizione nelle coscienze vigili ed intemerate, oggi lo stato, con le sue imposizioni e bugie, è la stessa “coscienza ipnotizzata” dei “cittadini”.

Non occorrono incitamenti a combattere, a morire per la patria, a debellare il “terrorismo islamico” e gli “stati-canaglia”. Non è più necessaria la propaganda bellicista e razzista. Non bisogna convincere che una causa è giusta, poiché si combatte per denaro, tornaconto o abitudine alla violenza.

In un mondo dove la volgare doppiezza di presidenti e papi non scandalizza, dove è usuale dilapidare cifre astronomiche per le armi e benedire feroci mercenari, dove essere “cristiani” significa andare a messa la domenica, lo stato, questo stato osceno e blasfemo, rischiamo di essere noi.

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05 luglio, 2012

"Marco e Mattio": omaggio ai vinti

“Marco e Mattio”, libro di Sebastiano Vassalli, narra le peripezie di Mattio, figlio del calzolaio di Zoldo, borgo del Bellunese. A Zoldo comincia il viaggio del protagonista verso l’insania, itinerario che culmina a Venezia nel tentativo di crocifiggersi, novello Cristo, per redimere l’umanità.

Più dell’opera a tesi e manichea “La chimera”, “Marco e Mattio” impone un confronto con “I promessi sposi”: il modello manzoniano è ineludibile per Vassalli che (ri)costruisce gli eventi principali sulla base di documenti d’epoca. E’ un romanzo storico dunque, purché si consideri la storia umana come un inferno in cui l’autore si inoltra per strappare ai dannati la dichiarazione della loro, in qualche caso, eroica sconfitta. “Ogni sconfitta è insieme testimonianza e protesta, assoluta e senza speranza, che viene insinuata qua e là nei confronti della realtà di oggi, a chiarire come i tempi cambino, ma il mondo proceda sempre uguale”.

La comparazione verte in primo luogo sullo stile e sulle strategie narrative: alcune trascuratezze linguistiche incrinano la prosa altrimenti tornita, venata di un pàthos contenuto. Le tecniche coincidono per lo più con i moduli della narrativa tradizionale, manzoniana in primis. Il narratore onnisciente è, però, è più partecipe, persino dolente. L’ironia è spesso amara, ma senza la degnazione aristocratica del Manzoni.

Il raffronto, alla fine – so che sarò considerato eretico, ma tant’è… – è a vantaggio di Vassalli, il cui nichilismo e sfiducia nell’umanità, mitigati da una sincera adesione alle sofferenze dei “vinti”, sono un antidoto contro gli schemi delle ideologie. “I promessi sposi”, pur apprezzabili per tanti motivi, sono comunque un’opera cattolica o, meglio, cristiano-giansenista: l’Ideenkleid agisce da filtro e da abbellimento sicché, anche scavando nella realtà più turpe, se ne offre un’interpretazione consolatoria. Quando il Manzoni si interroga sul male, ha già le risposte, parziali e perplesse quanto si vuole, ma le ha. In alcune circostanze più del credo religioso, agisce un residuo illuminista che, se consente di gettare uno sguardo lucido e razionale sulle cose, preclude una visione mistica della natura e della vita.

Il Manzoni, nel suo lirismo, non si innalza oltre il cielo di Lombardia, “così bello quando è bello”, laddove Vassalli squaderna alcuni brani cosmici in cui si fondono turbamento e meraviglia. Il primo ignora, nel suo antropocentrismo, i patimenti degli animali; l’altro si china compassionevole sulle torture inflitte loro: “L’urlo silenzioso di quella carne macellata che reclamava vendetta ad un Creatore indifferente e lontano”.

Vassalli, che non è cristiano né razionalista, riesce ad aderire al corpo nudo della verità per mostrarne i pori, le rughe, le macchie… Come in una sorta di visione iperrealista, i personaggi schiacciano, con le loro dimensioni eccessive, il lettore: un parroco spilorcio (erede di don Abbondio, ma senza alcun tratto umoristico), una santa anoressica, un falsario di monete, un padre, quello di Mattio, infoiato, un attante misterioso, Marco, incarnazione del mito dell’Ebreo errante… Le loro vicende più che intrecciarsi con la storia, collidono con essa. Gli echi dei lumi settecenteschi arrivano fiochi e non scalfiscono la miseria e le malattie, alleggeriscono, ma solo per un breve periodo, il giogo dei privilegi. I luoghi poi non sono descritti, ma visti attraverso lo sguardo allucinato di Mattio: Zoldo, stretto nella morsa della fame e delle ripide montagne, Venezia, nella sua splendida decadenza, la pianura brumosa… assumono i connotati di un sogno (conturbante) ad occhi aperti.

“Marco e Mattio” vuole essere un tributo ai matti, come scritto nella dedica e nella premessa. La follia è, in primo luogo, irrazionalità del destino e sono i “folli” che lucidamente la riconoscono, mentre i “sani”, non essendone coscienti, sono terribili nella loro passiva accettazione della sorte e dello status quo. E’ proprio all’assurdo, accolto come normale, che Mattio si ribella, tentando di immolarsi sulla croce: il sacrificio di uno solo può salvare l’umanità o tutte le azioni, anche le più nobili, sono vane? Vassalli conosce la risposta: “Mi piace perdermi col pensiero in quel pulviscolo di sistemi solari che si vedono tra una costellazione e l’altra e in quel buio dove si muovono inutilmente milioni di mondi. Soffermarmi a riflettere sull’infinità di quello sperpero che chiamiamo universo mi fa bene e mi aiuta a stare bene. Che altro sono le nostre impercettibili vite e le nostre microscopiche storie, se non sperpero nello sperpero?” A Vassalli, con la sua narrativa amara ma solidale, il merito di aver compensato, anche se in piccolissima misura, questo sperpero.

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02 luglio, 2012

L'enigma di Göbekli Tepe

"Göbekli Tepe è il più importante sito archeologico del mondo" (David Lewis-Williams).

Göbekli Tepe (in turco, “la collina dal ventre gonfio”) è un sito archeologico presso la città di Şanlıurfa nell'odierna Turchia, presso il confine con la Siria, risalente all'inizio del Neolitico o alla fine del Mesolitico. Vi è stato rinvenuto il più antico complesso templare litico (11.500-8.000 a.C. circa), la cui edificazione si protrasse presumibilmente per tre o quattro secoli.

Il complesso è ubicato su una collina artificiale alta circa quindici metri e con un diametro di pressappoco trecento metri, situata sul punto più alto di un'elevazione di forma oblunga. Da lì si domina la regione circostante, tra la catena del Tauro e il Karaca Dağ e la valle dove sorge la città di Harran.

Il sito fu individuato nel 1963 da un gruppo di ricerca turco-statunitense, che notò diversi consistenti cumuli di frammenti di selce, segno di attività umana nell'età della pietra.

Göbekli Tepe fu riscoperta trent'anni dopo da un pastore curdo: l’uomo notò alcune singolari pietre che affioravano dal suolo. La notizia del rinvenimento giunse al responsabile del museo della città di Şanlıurfa. Egli contattò il ministero preposto: a sua volta i funzionari del dicastero si rivolsero all’Istituto archeologico germanico con sede ad Istanbul. Nel 1995 cominciarono gli scavi per opera di una missione congiunta del museo di Şanlıurfa e dell'Istituto archeologico germanico, sotto la direzione di Klaus Schmidt. Nel 2006 le attività furono assegnate alle università tedesche di Heidelberg e di Karlsruhe.

Si portò così alla luce un monumentale santuario megalitico, costituito da una collina artificiale delimitata da muri di pietra grezza a secco. Furono anche reperiti quattro recinti circolari, delimitati da enormi pilastri in calcare pesanti oltre dieci tonnellate ciascuno. Secondo il direttore del dissotterramento, le pietre, drizzate in piedi e disposte in circolo, simboleggiano assemblee di uomini.

Sono stati poi dissotterrati circa quaranta blocchi a forma di Tau e che raggiungono i tre metri di altezza. Nella maggior parte dei casi vi sono effigiati in rilievo diversi animali (serpenti, anatre, gru, tori, volpi, leoni, gazzelle, cinghiali, gamberi, scorpioni, formiche…). Alcune sculture vennero volontariamente abrase. Altre pietre sono decorate con motivi geometrici. Certuni monoliti sono istoriati con forme falliche. Forse risalgono ad epoche successive e trovano similitudini nelle culture medio-orientali (siti di Byblos, Nemrik, Helwan e Aswad).

Indagini geomagnetiche hanno indicato la presenza di altri duecentocinquanta macigni ancora inumati.

Secondo gli archeologi ufficiali, l’esistenza di codesta struttura monumentale dimostra che anche precedentemente allo sviluppo dell'agricoltura e nell'ambito di un'economia di caccia e raccolta, gli uomini possedevano mezzi bastevoli per erigere poderosi complessi. Il direttore dello scavo ritiene che fu proprio l'organizzazione sociale necessaria alla creazione di Göbekli Tepe a promuovere uno sfruttamento pianificato delle risorse alimentari ed a favorire le prime pratiche agricole. Il sito si trova, infatti, nella regione della Mezzaluna fertile, dove cresceva il grano selvatico.

Nessuna traccia di piante o animali domestici è stata tuttavia recuperata negli scavi, inoltre mancano resti di abitazioni. A circa quattro metri di profondità, ossia ad un livello corrispondente a quello della costruzione del santuario, sono stati dissepolti frammenti di utensili litici (raschiatoi e punte per frecce), insieme con ossi di animali selvatici, semi di piante spontanee e legno carbonizzato. Sono vestigia che testimoniano la presenza in questo periodo di un insediamento stabile.

Intorno al IX millennio a.C. il centro fu deliberatamente abbandonato e sepolto sotto un colle artificiale.

Göbekli Tepe è un enigma archeologico, la tessera che mal si incastra nel mosaico della storia accademica: come coniugare la primitiva cultura di genti del Mesolitico, dedite alla caccia, alla raccolta e ad una rudimentale agricoltura con la costruzione di un sito megalitico di tale imponenza e complessità? In verità, alcune questioni meritano delle indagini che non si limitino alle analisi stratigrafiche ed alla catalogazione tipologica dei manufatti. Bisognerebbe in primo luogo tentare di comprendere il valore iconografico degli animali scolpiti sulle pietre a Tau: molti studiosi hanno ipotizzato un contenuto di tipo sciamanico; altri hanno sottolineato il valore simbolico delle raffigurazioni…. Spesso, quando si brancica nel buio, ci si appella alla valenza simbolica delle immagini, il che può significare tutto e niente. E’ evidente che molti animali non sono legati alla pastorizia ed alle attività venatorie: dunque qual è il retroterra culturale da cui emerse tale “bestiario”? Se non si pensa ad uno scenario totemico o archeoastronomico, è arduo formulare supposizioni plausibili. [1]

Göbekli Tepe non fu una città, ma un gigantesco tempio eretto in una zona non distante da Harran, il centro che, nella tradizione è collegato, insieme con Ur, ad Abraham, il patriarca sumero. Non siamo lontani dalla Siria, dalla Fenicia e dalla Mesopotamia, regioni in cui si incontrarono e scontrarono popoli di diverse stirpi (Sumeri, Camiti, Semiti, Indoeuropei), dove furono fondate splendide ed opulente città (si ricordi almeno Ebla), crocevia di commerci, di fecondi scambi culturali, fucine di miti e di invenzioni (l’alfabeto, il vetro…). Gobekli Tepe è, però, più antica: dovrebbe avere grosso modo l’età di Catal Huyuk (nell’attuale Turchia) e della biblica Gerico.

Perché il luogo fu abbandonato e coperto con tonnellate di terra? Chi l’aveva creato volle forse occultare ai posteri un inconfessabile segreto? Chi decise di consacrare la vasta area? Quali dei adoravano i costruttori di Göbekli Tepe? Il complesso irradia un fascino che ha alcunché di sinistro. Saranno certi rilievi di animali rappresentati in modo rude con tratti a volte terrifici, saranno i pilastri a Tau, simili ad uomini pietrificati (le sculture della Lunigiana sono circonfuse da un’aura simile, sacrale ed enigmatica e, come certi idoli del santuario medio-orientale, hanno spesso braccia stilizzate). [2] Sono pilastri che non sorreggono nulla, inframezzati ad altri reperti, talora inquietanti: statue lapidee con teste prive di bocca, sculture itifalliche, blocchi con glifi indecifrabili…

Si ha l’impressione che questa specie di Stonehenge curda sia, in qualche modo, la sesquipedale impronta di una genia estinta (?), una razza di Giganti (i Nephilim? ), un’area in cui si installarono poi gruppi di cacciatori-raccoglitori che non padroneggiavano tecniche architettoniche e scultoree tanto raffinate.

Göbekli Tepe, per lo più sottovalutata in Italia, all’estero, invece, è oggetto di appassionate ricerche: ad esempio, Linda Moulton Howe le sta dedicando un dossier in costante aggiornamento, con interviste ad archeologi e geologi, fotografie, disamine di varia natura.

Il mistero più impenetrabile riguarda l’abbandono e l’esumazione del complesso templare: se delle modificazioni climatiche e pedologiche possono spiegare lo spopolamento, non motivano la sepoltura di un luogo dove furono praticati riti di cui non sappiamo nulla.

Abbiamo appena cominciato a riscrivere la storia umana e non solo umana, proprio ora che…

[1] E’ difficile negare che certe figure zoomorfe, come gli avvoltoi, non si collochino in un contesto sciamanico.

[2] Uomini colpiti dal fulmine di una divinità adirata o esseri soprannaturali puniti per la loro empietà?

Fonti:

Dizionario di Archeologia, Milano, 2001
G. F. Ferri, Tutto il nostro mondo è cominciato lì, 12.000 anni fa?, 2009
T. Razo, Göbekli Tepe, World known oldest temple, 2011


APOCALISSI ALIENE: il libro

La squola della Gelmini - di Antonio Marcianò - Gemme scolastiche da collezionare

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