31 luglio, 2011

Il “Caso Amicizia” approda negli Stati Uniti

Il cosiddetto "Caso Amicizia" è una storia tanto controversa quanto interessante. Le vicende sono ricostruite nel libro dell'ingegner Stefano Breccia, "Contattismi di massa", in cui sono descritti presunti alieni, gli Akrij, approdati in Europa nel 1956 e, in seguito ad una sconfitta subìta per opera di extraterrestri a loro ostili, i Weiros, costretti a smobilitare ed ad abbandonare, nel 1978, le loro basi, di cui la più importante costruita nel Mar Adriatico. Gli Akrij o W56 avrebbero contattato decine di Italiani che collaborarono con i visitatori, intenti a promuovere il progresso spirituale dell'umanità. Il saggio di Breccia, oltre a fornire informazioni inedite sul celeberrimo "Caso Ummo", rivela le straordinarie vicende vissute da un gran numero di persone, in Italia, in Svizzera, Austria, Germania, Francia, Cile, Argentina, Unione Sovietica... Sebbene l’intera storia sia stata ritenuta una volgare montatura da alcuni ricercatori, come Carlo Sabadin - siamo dispiaciuti per la sua prematura scomparsa, ma saremmo ipocriti, se non lo definissimo il peggior ufologo del nostro paese - alcune connessioni ed anticipazioni ci inducono a reputare che le avventure di Bruno Sammaciccia e dei suoi sodali contengano esperienze ed informazioni degne di essere verificate ed approfondite. E' vero che il volume di Breccia ha ottenuto l'imprimatur di Roberto Pinotti, sommo pontefice della C.U.N., Chiesa ufologica nazionale, ma questo non è un buon motivo per ignorare gli scenari prospettati da "Amicizia".

Di recente il "Caso Amicizia", a lungo ignorato sia in Italia sia all'estero, è stato scoperto, grazie alla pubblicazione del documentario inerente su Tanker Enemy TV, negli Stati Uniti dal regista e ricercatore David Wilcock. Wilcock è da taluni reputato figura non molto affidabile, perché tende a sminuire oppure a trascurare la portata delle cospirazioni ordite dalla Cabal. Bisogna, però, riconoscere che, in questi anni, ha compiuto un lavoro monumentale nell'ambito della scienza di frontiera con cui si stanno aprendo nuove prospettive per tentare di comprendere il mondo fenomenico.

L'interesse in Wilcock per "Amicizia" è stato solleticato da alcune corrispondenze che egli ha rintracciato con analoghi aspetti e fatti occorsi altrove e in questi ultimi decenni: testimonianze di contattisti statunitensi (Adamski ed Angelucci in primis), il sabotaggio di ordigni nucleari per opera di presunti alieni, soprattutto l'opportunità di un salto evolutivo per l'umanità. E' pacifico che l'intera storia con i suoi addentellati nella casistica posteriore, dev'essere presa con le classiche pinze. Siamo anche lontani dai facili ed ingenui entusiasmi di Wilcock, ma la sua corposa ricerca non solo offre molti spunti, ma sottrae in parte il filone del contattismo dal retrobottega dell'Ufologia in cui è stato relegato per tanto tempo. In particolare, il riferimento agli extraterrestri di Orione, presumibilmente malevoli, è un leit-motiv di tanti incontri e messaggi, analizzati in “Apocalissi aliene”. Va sottolineato che Wilcock, le cui ricerche sono pressoché a senso unico, potrebbe essere, per quanto ne sappiamo, o un disinformatore o un guru della New age (ammesso che le due figure non coincidano). Qual è il problema? Egli prospetta un’elevazione dell’umanità, per così dire, a costo zero, per giunta, fingendo di non vedere tutte le atrocità del passato e del presente che hanno straziato e straziano la storia. Anche il cenno alla Legge dell’Uno ed al materiale di Ra accende molti dubbi, sapendo che si tratta di comunicazioni canalizzate di dubbia matrice e dalle finalità ancora più dubbie, senza dimenticare i contenuti discutibili, pur dietro una parvenza di “spiritualità”.

Propongo alcune parti del corposo articolo di Wilcock.

Samaciccia chiamò gli alieni W 56. Nel libro di Breccia, egli spiega che "W" sta per "doppia W di viva", il 1956 fu l'anno in cui tutto ebbe inizio. I W 56 erano un gruppo di extraterrestri provenienti da diverse parti dell'Universo. Avevano sembianze simili a quelle degli esseri umani della Terra, ma con una statura che variava da un metro di altezza sino a sei(!!!).

Il primo incontro ebbe luogo nel mese di aprile del 1956. Bruno Sammaciccia si trovava con due amici, Giancarlo e Giulio. Essi stavano perlustrando il castello di Rocca Pia di cui avevano acquisito una mappa misteriosa e sentivano che c'erano dei segreti da scoprire. Una notte a Rocca Pia, apparvero due persone che si rivolsero loro. Il “capo” del gruppo fu chiamato Dimpietro.[…] I visitatori installarono varie basi in Italia, una a Rocca Pia, un’altra sottomarina nell'Adriatico, quasi a contatto con la piattaforma continentale, tra Ortona e Rimini. […]

Gli “Amici” chiesero per le loro attività assistenza logistica: domandarono che fossero loro procurate quantità industriali di frutta e di metalli tra cui nitrato di bario e stronzio. I contattisti non avevano idea di quale potesse essere l’uso di questi metalli, ma ora sappiamo che sono comuni nell’elettronica (e nelle scie chimiche, n.d.t.)

Nel libro di Breccia è spiegato che i W 56 non mangiavano la frutta, ma che la usavano come materia prima per estrarne nutrienti necessari per il proprio sostentamento. […]

II gruppo dei W 56 descrisse un conflitto con altri esseri che essi chiamavano "Weiros", ma che Bruno Sammaciccia ribattezzò i CTR , ossia i Contrari.

Questi esseri non erano etici, ma materialisti, praticamente l'opposto dei W 56 che non evocarono una vera una propria guerra con i rivali, quanto un attrito. Uno dei motivi per cui gli AKrji erano approdati sulla Terra era quello di tenere sotto controllo i CTR.

Gli “Amici” li definirono "adoratori della scienza" e li dipinsero come del tutto privi di scrupoli. (Ricordano alcune razze di Grigi, sebbene qualche autore sia propenso ad identificarli con gli Ummiti, n.d.t.) La più grande paura dei W 56 era che gli esseri umani potessero seguire lo stesso percorso autodistruttivo su cui si erano incamminati i Weiros. È interessante notare che nel libro di Breccia è scritto che alcuni "bravi ragazzi" provenivano dalle Pleiadi, mentre i "cattivi" erano originari della costellazione di Orione.

Questa è stata un'ulteriore conferma della straordinaria serie della "Legge dell'Uno", in cui è indicato ripetutamente che gli ufonauti negativi, operanti nel nostro spazio aereo, hanno la loro sede nel sistema di Orione. Sono anche designati come "il gruppo di Orione" all’interno del documento noto come “Legge dell'Uno”.

I W 56 effettivamente intervennero per mezzo dei loro dischi volanti e della loro tecnologia, con l'ausilio di operatori terrestri previamente addestrati, per fermare una situazione che sembrava potesse portare a qualcosa di irreparabile. L'incidente avvenne nel 1967. Così fu attuata un'operazione gestita da esseri umani e che era stata progettata per disabilitare tutte le testate nucleari in Unione Sovietica e negli Stati Uniti, di fronte ad una situazione molto pericolosa e che sarebbe potuta degenerare da un momento all'altro.

Ci sono libri scritti da ufficiali della U.S. Air Force, ormai in pensione, (ad esempio “Faded giant” di Robert Salas e James Klotz) che raccontano la storia di come la loro batteria di missili Minuteman era stata resa inattiva da dischi volanti che erano penetrati nello spazio aereo sopra l'installazione. "Faded giant” contiene documenti militari ottenuti tramite il Freedom of Information Act (F.O.I.A.).

Nel documentario sul “Caso Amicizia” sono mostrate tre immagini di un test nucleare. La terza immagine sembra inquadrare un ricognitore molto simile a quelli fotografati da Adamski. Il velivolo è a sinistra dell’esplosione, anche se potrebbe essere facilmente un'ombra della deflagrazione.

Un altro scopo della presenza dei W 56 fu quello di aiutare il nostro processo evolutivo per spingerci ad un livello superiore di comprensione. Ecco perché erano stati sul nostro pianeta per un tempo tanto lungo, condividendo con noi alcune delle nostre sofferenze.

Breccia menziona alcune storie-chiave del contattismo negli Stati Uniti: sono episodi che stabiliscono chiaramente che i visitatori sono qui per la nostra evoluzione, per condurci in un’Età dell'Oro.

N.B. L’intera storia di “Amicizia” è dipanata qui. Il caso è stato studiato da Matteo Agosti, il quale, per quanto mi consta, è l’unico ricercatore ad aver compiuto, tra le altre stimolanti indagini, un’analisi etimologica del nome “Weiros”.

Fonte: divinecosmos


La squola della Gelmini - di Antonio Marcianò - Gemme scolastiche da collezionare

29 luglio, 2011

Fumo ed eufemismi

Alessandro Manzoni osserva che l’eufemismo è una figura ipocrita. Come non convenire? Il linguaggio è oggi più che mai snaturato da accorgimenti retorici: oltre all’eufemismo ed alla sua ganza, la litote, i discorsi sono costellati di espressioni sdolcinate e lievi idonee a smussare gli spigoli di una dura realtà, quando non servono a coprirla di spessi drappi.

I combattenti che sono massacrati su un fronte “sono caduti”. Sì, sono caduti per non rialzarsi più. Disgustosa è l’enfasi intrisa di ipocrisia, radicata sovente in una tradizione letteraria ampollosa e patriottarda: “E dimani cadrò”, scrive Giosuè Carducci in una sua celebre lirica. “Cadrò”, non “morrò”. E’ anche il tabù nei confronti della morte.

Glorificati ed elevati ad eroi, i soldati sono carne e sangue. La carne è da cannone. Il loro sangue è inchiostro con cui vergare solenni proclami, trasudanti unta eloquenza, in stile Napo Orso Capo, vero maestro della simulazione più gesuitica, le cui allocuzioni sono fimo fumante.

Se durante i due conflitti mondiali i coscritti cadevano durante un eroico attacco o l’altrettanto eroica difesa del suolo patrio, oggi i volontari che sono dilaniati da un ordigno in Afghanistan, cadono nel corso di una missione di pace. La guerra è diventata, con ossimoro che supera la stessa frode linguistica di Agostino, “umanitaria”. I bombardamenti sono “chirurgici, le bombe “democratiche”.

L’impostura lessicale si abbatte soprattutto sugli animali, questi oggetti che valgono meno degli oggetti. Quando un cavallo si è azzoppato in modo grave, viene abbattuto. I capi di bestiame, colpiti da un’epidemia, sono abbattuti, non uccisi. Sono muri che si abbattono, ergo cose. In questo ambito forse fermenta un oscuro senso di colpa, lo stesso senso di colpa che spingeva gli antichi Greci ad ornare con bende le corna del toro votato al sacrificio, destinato a dei assetati di sangue. Almeno, prima di procombere sotto la scure del sacrificante, il toro si sentiva al centro dell’attenzione. Furono le caste sacerdotali ad istigare le carneficine animali, persuasi a loro volta da “dei” carnefici. E’ incontrovertibile: il sacerdote è letteralmente colui che compie le azioni sacre, ma “sacer” vale anche “terribile”, “esecrando”. La lingua, denudata dei suoi insinceri paludamenti, manifesta l’orrore di certe contraddizioni.

Abraham non dovette sacrificare il figlio Isaac, ma immolò un montone. E’ sempre un’uccisione, anche se molti la giudicano veniale.

Che cosa pensare del verbo “fare” sempre impiegato per riferirsi alle vittime causate da una guerra, una calamità, un incidente, una strage di stato? “L’attentato ha fatto undici morti”. Il verbo anodino per eccellenza diluisce in una grisaille la tragedia della morte per consegnarla alla mercificazione degli uomini: la produzione tanatologica è allineata alle altre produzioni. Gli eventi mortali sono catene di montaggio… ben oliate. [2]

Un altro settore deturpato dalla falsità eufemistica è l’economia: le tasse sono “contributi”; i prezzi di prodotti e servizi non vengono aumentati, ma “rimodulati”. Salari, stipendi e pensioni non sono tagliati, bensì “ridefiniti”. L’età per il collocamento a riposo non è elevata, ma “adeguata alle aspettative di vita”.

Le scuole non sono soppresse o unite, ma “la loro distribuzione sul territorio è ispirata a princìpi di razionalizzazione”. Le risorse non sono decurtate, bensì “ottimizzate”. I finanziamenti non sono ridotti, piuttosto “assegnati secondo criteri funzionali alle reali esigenze”. Se un insegnante viene a sapere che l’offerta didattico-educativa “sarà valorizzata attraverso una razionalizzazione”, significa che avrà una classe di 35 allievi! Il linguaggio della didattica rigurgita di leziosi eufemismi e di diciture tanto comiche quanto altisonanti. Gli obiettivi del piano didattico sono ormai la “mission d’istituto” (sic); il fine di un’attività è il “focus”; la fase di una procedura è lo "step"; la preparazione di base degli studenti è l”’imput” (con la m!) e ridicolaggini simili su cui è meglio non soffermarsi.

Campioni di lingua bastarda sono, come è noto, i giornalisti o sedicenti tali, ma con codesta genia di beoti rivaleggia la stirpe degenere dei sindacalisti, il cui idioletto è un non-linguaggio, un vuoto pneumatico, il nulla divenuto un brusio. I sindacalisti sono imbonitori, parolai: se non esalassero il fumo dei loro discorsi, sarebbero invisibili.

Ci emanciperemo mai dall’ipoteca dell’eufemismo e dalla mistificazione linguistica? Si avvererebbe un sogno, se un dì potessimo seguire un notiziario o leggere un quotidiano in cui la lingua fosse usata in modo cristallino ed onesto. Una lingua di questo tipo, però, presuppone una coscienza altrettanto cristallina ed onesta. Dunque la vedo grama.

[1] Laura Bossi, nel saggio “Storia naturale dell’anima”, 2003, ricorda che “in occasione dei massacri di animali perpetrati in Europa, durante l’epidemia epizootica, è apparso nel linguaggio degli allevatori, per indicare l’uccisione, il termine ‘smaltimento’, come si direbbe di una merce avariata”.

[2] Ben venga, però, il verbo “fare” quando ne abusa Paolo Cattivissimo: si acconguaglia ad uno che è completamente... fatto. Absit iniuria verbis.

Articolo correlato: Freeanimals, 41 eroi caduti finora per la democrazia, 2011


APOCALISSI ALIENE: il libro

27 luglio, 2011

Sanremo, il comune di Attila

Qualche anno addietro molti quotidiani liguri e del nord ovest titolarono “Strage di alberi a Sanremo”. Che cosa era accaduto? La scellerata amministrazione sanremese aveva deciso ex abrupto di sradicare decine di bellissime e maestose piante per mettere a dimora quasi esclusivamente palme, favorendo, in questo modo, qualche vivaista con aderenze presso il Comune. Fu addotto il pretesto che gli esemplari divelti erano malati: non era vero. Qualche matuziano protestò, ma gli amministratori, emuli di Attila, continuarono imperterriti nelle loro “deforestazioni” Le estirpazioni, specialmente di pini, seguitano ancora oggi, sebbene siano meno indiscriminate… perché ormai resta ben poco da distruggere.

Attualmente un parco come quello di villa Ormond, soprattutto nella parte che costeggia Corso Felice Cavallotti, è una deprimente sequela di stenti cespugli, di agavi improbabili, di palme di Chusan, un albero che con i suoi volgari pennacchi, pur con tutto l’amore per la natura, ci appare di una bruttezza assoluta. Il giardino di Piazza Colombo, tetra larva di quello coventrizzato per costruire dei posteggi sotterranei, è pietoso. Gli assessori competenti (si fa per dire) non hanno mai dimostrato né un briciolo di cultura né di buon senso: invece di abbellire gli spazi verdi con alberi ed arbusti della flora mediterranea o con essenze esotiche, ma frondose ed ornamentali, perpetrano scempi.

Ecco allora che i pochi angoli ancora ameni di Sanremo sono oasi di un tempo che fu, quando privati cittadini, soprattutto stranieri, e sindaci onesti ed accorti (oggi l’espressione “sindaco onesto ed accorto” è un ossimoro), su impulso di giardinieri dotati di fine senso estetico, crearono parterres incantevoli.

La situazione presente è molto diversa: nei parchi sanremesi non viene svolta un’idonea manutenzione, un po’ alla volta, molti arbusti rinsecchiscono, l’avifauna è pressoché estinta, le cartacce si accumulano nelle aiuole… Infine le turistiche bordure in cui occasionalmente vengono piantati dei fiori creano un contrasto stridente con il misero spettacolo tutto intorno.

Se poi si leva lo sguardo al cielo… meglio tacere.

Fonte: sciechimichesanremo

APOCALISSI ALIENE: il libro

25 luglio, 2011

La teoria dell’universo olografico: alcune implicazioni filosofiche

Per teoria dell’universo olografico si intende un modello interpretativo della realtà, secondo cui il mondo fenomenico è una proiezione priva di consistenza “oggettiva” ed in cui ogni parte contiene il tutto. Formulata dallo scienziato David Bohm, ripresa, con qualche variante da altri ricercatori, tale sistema è, mutatis mutandis, radicato in antiche concezioni (si pensi ai Veda) e dottrine filosofiche. Il visionario scrittore statunitense Philip K. Dick ne elaborò un’originale interpretazione.

Non approfondisco i capisaldi di tale teoria e di visioni contigue, perché li ho già discussi in parecchi articoli cui rimando, ma vorrei qui puntualizzarne alcune implicazioni.

E’ opportuna in primo luogo una riflessione linguistica: la materia è illusione (maya). Ora il termine “illusione” vale letteralmente “gioco interno” (da in e ludere): ne consegue che gli oggetti “là fuori” sono in verità nel nostro cervello. Nel cervello, che non è colpito dalla luce (fotoni), si formano le immagini delle cose che erroneamente collochiamo fuori di noi.

Sino a qui la teoria, pur contraria al senso comune che non solo distingue tra interno ed esterno, ma che attribuisce all’esterno autonomia rispetto alla coscienza, è ancora intuitiva. Diventa, però, contro-intuitiva nel momento in cui lo stesso cervello viene assimilato a tutti gli altri “oggetti”, poiché l’encefalo è visto come un elemento fallace proiettato da un quid che Bohm definisce “ordine implicito”.

Non è quindi il cervello a generare la “realtà”, ma una sorta di coscienza transpersonale: è come se Dio proiettasse le figure e gli eventi di un sogno (o incubo?). Figure ed eventi sono simulacri che gli uomini scambiano per oggetti e fatti “concreti”. Gli uomini si limitano ad osservare la pellicola quadridimensionale della creazione.

Vogliamo trarne alcune inevitabili conclusioni? Il libero arbitrio non esiste, giacché non è l’uomo con il suo cervello a generare una porzione di realtà, ma è un’unica coscienza (affine ad un elaboratore organico?) che la produce. Non solo, l’individuo non può in nessun modo incidere sugli avvenimenti e le cose. Ogni sua azione, sebbene egli non ne sia consapevole, è simile a quella di uno spettatore che in una sala cinematografica pensasse di poter interagire con gli attori del film, rivolgendosi loro, o di poter cambiare l’intreccio, magari tentando di strappare la pistola al marito-attore che sta per uccidere la moglie-attrice, rea di averlo tradito con un altro.

La teoria dell’universo olografico quindi consuona con la forma più radicale di fatalismo che si possa immaginare. Introdurre il concetto di libera volontà significherebbe disintegrarne la logica, dunque costruire un modello incompatibile con quello di cui in parola.

In questo modo l’etica risulta compromessa per due motivi: ogni azione è agita da Qualcos’altro estraneo al soggetto percipiente. Ogni azione plasma e modifica un mondo non solo già plasmato e modificato da un Altro, ma persino di per sé inconsistente ed inesistente. Intervenire su tale realtà è ininfluente, privo di significato morale, perché la realtà materiale non esiste. Parafrasando Dostoevskij, si potrebbe scrivere: “Se non esiste la materia, tutto è lecito”. E’ come se una persona fosse incarcerata per aver ucciso un suo nemico in un sogno! Come si può essere moralmente responsabili di aver assassinato un essere che è solo un’ombra?

Sono situazioni paradossali che, però, non si possono ignorare, se si vuole analizzare ed illustrare la teoria dell’universo olografico in modo rigoroso. Non è facile ignorare tale sistema che scaturisce da un’indagine coerente dell’infinitamente piccolo, cosmo rarefatto ed impalpabile, quasi sull’orlo del nulla, oltre che da una convergenza con molte dottrine tradizionali, senza dimenticare alcune conferme empiriche.

Ne consegue che l’etica si può solo basare su un postulato della ragion pratica e su un rifiuto della teoria dell’universo olografico. Tale rifiuto implica l’elaborazione di un sistema dualista con tutte le aporie che le filosofie dualiste implicano, benché anche i modelli monisti (come la teoria dell’universo olografico) incorrano in sfide concettuali non meno ostiche.

Molti altri aspetti meriterebbero di essere almeno sfiorati: qual è la natura della dimensione onirica all’interno di un cosmo olografico? Come inscrivere i sogni nel Sogno? E’ possibile conciliare tale teoria con altre che attengono alla sfera fenomenica? Se sì, a quale prezzo? Dove si situa il male in questo asettico, perfetto disegno concettuale? Altri potrà provare a rispondere a questi ed altri quesiti vertiginosi che snocciolo come altrettante sciarade.

Va rilevato che questo sistema è l’unico, tra gli schemi scientifici, che tenta di inoltrarsi nel non-manifesto, di cui non sappiamo in verità nulla e sul quale si possono formulare solo ipotesi non falsificabili. Quindi da teoria scientifica tende a configurare una dottrina filosofica.

Alla fine, lo scetticismo di Pirrone, che andava a sbattere contro gli alberi, non disponendo di un criterio di verità da cui arguire che gli alberi esistono e che sono lì dove li vediamo, pare inevitabile. Infatti non sappiamo né possiamo sapere se l’albero esista né se sia lì né perché né come etc.

Il nostro tragico destino è quello di andare a sbattere contro la vita, assai più dura e ruvida degli alberi pirrroniani.


[1] Differente è la terminologia con cui i diversi scienziati individuano questo quid: ad esempio l’italiano Sergio Corbucci lo chiama “vuoto quantomeccanico”. Giustamente Luigina Marchese preferisce definirlo “nulla”: è il nulla, infatti, a partorire il tutto. Come ciò possa avvenire, in violazione del principio del terzo escluso, con l’equazione 0 = 1, non possiamo né comprendere né spiegare, ma è un dato che può essere solo constatato.


[2] L’essere è: nessuno ha mai chiarito in modo persuasivo “perché l’essere, invece del non essere”.

Qui un'ampia e perspicua descrizione della teoria.


APOCALISSI ALIENE: il libro

21 luglio, 2011

Heavy Heaven

Ali pesanti nel fango, la pioggia punge la notte con spilli d’acciaio, le fiamme delle stelle incendiano il foglio del cielo che si accartoccia. L’orizzonte è lama di ghigliottina. Alberi decapitati laggiù. Il tempo si spacca, la realtà va in frantumi. Finisce così quello che non ha principio.


APOCALISSI ALIENE: il libro

19 luglio, 2011

Una teoria di teorie

Dove affiora la vita e che cos’è? E’ possibile che la vita sia generata dalla coscienza, ma non sappiamo che cosa si debba intendere veramente per coscienza. Perché affermiamo che piante, animali ed uomini sono esseri animati, mentre le pietre ed i cristalli non lo sono? Anche i cristalli potrebbero essere creature viventi in cui la coscienza è sopita.

Alcuni indirizzi di pensiero oggi riscoprono l'Anima mundi, studiando l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande, ma nessuno è riuscito a spiegare, a dar conto della discontinuità tra il mondo delle particelle e l’universo delle cellule per risalire via via sino alla consapevolezza, all’anima, fino allo spirito.

Giustamente si suppone che la mente possa influire sul corpo, ma resta un enigma in che modo e come gettare un ponte tra le due rive. E’ in gioco non solo una questione conoscitiva, ma anche la salute che è il risultato di un fragile equilibrio. Affermare che le cellule, le molecole e persino gli atomi sono dotati di mente è più uno stratagemma linguistico che un chiarimento, anche se probabilmente è così.[1]

Non conosciamo dove finisca la fisica per dar spazio alla chimica, dove termini la chimica e principi la biologia, dove si compia la biologia per dar luogo alla psicologia… In modo quasi paradossale, in una struttura del sapere ad anello, è la fisica la disciplina più contigua alla metafisica: qui l’orizzonte diviene elusivo, quasi immateriale.

E’ evidente: bisognerebbe riuscire a comporre tutte le discontinuità, a saldare le fratture, ma è compito arduo. Così la “semplice” frase: “La mente influisce sulla materia” implica dei passaggi concettuali audaci, vertiginosi, poiché ignoriamo i due corni del dilemma e come interagiscano. Anche qualora intendessimo eliminare uno dei due corni, per mezzo di una visione monistica, ci troveremmo di fronte a tante e tali aporie da sbriciolare la teoria nel momento stesso in cui venisse ventilata.[2]

Le teorie sono edifici splendidi, ma fragili. Le teorie sono edifici grandiosi che si riempiono di crepe, un istante dopo che sono stati innalzati. Ipotesi, sistemi, interpretazioni… mai come in questi anni si sono moltiplicati e sono più gli aspetti che li differenziano da quelli che li accomunano.

Mi pare che i modelli esegetici siano dei cerchi perfetti, ma vuoti. La realtà manifesta rimane un enigma e, quanto più tentiamo di delinearla, tanto più il quadro si complica, abbisognando di continui aggiustamenti. Le teorie sono simili a quei dipinti che un artista incontentabile continua a ritoccare con il risultato che, alla fine, li rovina.

Altro che teoria del tutto, qui non siamo ancora stati in grado di formulare un agile e comprensibile modello di settori limitati del reale. Se poi si aggiunge che le teorie che ambiscono ad essere onnicomprensive sono complesse a tal punto da debordare nell’astrusità, si intende che la strada da percorrere è ancora molto lunga. Si consideri che molte interpretazioni si ostinano ad aggredire, in verità con scarsissimo successo, solo il mondo fenomenico. Che cosa succede quando si tenta di addentrarsi nell’essenza? Siamo ciechi che brancicano nel buio.

Ancora, ammesso e non concesso che si riesca a fornire un quadro pur sommario, ma plausibile dell’universo, come si potrà poi attaccare la roccaforte del male? Se la presenza della vita nel cosmo è una sfida formidabile anche per gli intelletti più eccelsi, il problema del male, in quanto realtà incongrua, dissonante con il tutto, disarma.

Eppure si seguita a cercare ed a porsi domande, perché è nella natura umana, anche se forse sarebbe meglio evitare di porsi quesiti che non possono avere risposta.

[1] Se la medicina allopatica considera solo i sintomi, perdendo di vista l’uomo, priva com’è di una visione olistica, alcune medicine cosiddette alternative tendono a colpevolizzare il paziente. Lo riconosce lo stesso Deepak Chopra, medico ayurvedico: se – egli nota – riteniamo che molte malattie affondino le radici in conflitti interiori, in squilibri psichici di cui spesso non si è consapevoli, esortare il paziente a prendere coscienza di questi problemi significa creare dei sensi di colpa, senza che si riesca a favorire la guarigione, anzi causando talvolta un peggioramento.

[2] E’ naturale che pure “la materia produce il pensiero” è asserzione altrettanto ardita ed indimostrabile.


APOCALISSI ALIENE: il libro

16 luglio, 2011

Adesso

La nostra mente è sempre presa tra due fuochi, il passato con il suo strascico di ricordi e recriminazioni, ed il futuro, gremito di timori e di inani speranze. I pensieri brulicano: è un moto incontrollabile ed estenuante. Il pensiero pesa. Esso è radice di ogni infelicità. Dunque hanno ragione coloro che esortano a spegnere la mente, ad archiviare il passato che tanto, qualcuno sostiene, non esiste più, e ad annullare l’avvenire. E’ necessario concentrarsi sul presente e cogliere il potere dell’adesso, come recita il titolo di un celebre libro, sebbene io non sappia fino a che punto l'adesso sia tanto gradevole: sovente ha un sapore molto amaro.

Agostino aveva esaminato il tema con maggiore lucidità: se possiamo concludere, secondo una certa ottica, che il tempo trascorso e quello futuro sono mere astrazioni, nebulose propaggini di una mente mai paga di sé stessa, dobbiamo anche constatare che il tanto decantato “ora” è altrettanto inconsistente, essendo un attimo inafferrabile. Valorizzare l’ora è quindi eternare il nulla, trasferire il pensiero in una dimensione in cui si acquietano le idee, non perché trasmutate, ma in quanto annichilite.

Una vena di nichilismo percorre dunque gli insegnamenti che si prefiggono un’elevazione individuale, tramite il conseguimento del silenzio interiore. E’ così: al caos dell’esistenza si può fuggire solo negandola. Il movimento tautologico del destino umano ci spinge a riconquistare il nulla da cui proveniamo.

Pure le vie non basate sull’ascetismo sottendono un assottigliamento del pensiero, sorgente di inquietudine e di affanno. Infatti, se la vita non fosse tormentosa, non si avvertirebbe l’esigenza di ricondurla in qualche modo a quel non essere donde essa promana. Si riconosce quindi, sebbene in modo implicito, che la vita così com’è, è imperfetta ed innaturale. Solo chi è stato sconfitto desidera una rivincita.

“Tanto rumore per nulla”, ossia l’esperienza umana è così tumultuosa e travagliata che il fine ultimo del saggio deve essere il nulla. E’ l’unico obiettivo di un cammino disseminato di ostacoli, di un uomo sempre oscillante tra la grigia noia ed il corrosivo dolore. Di fronte un solo stretto passaggio: l’adesso con il suo potere. Peccato (o per fortuna?) che l’adesso non esista. E’ solo una metafora per indicare quella singolarità esistenziale in cui tutto (desideri, nostalgie, illusioni, aneliti… ) è risucchiato nel non essere, come un buco nero, secondo molti astrofisici, fagocita la luce.

Senza dubbio liberarsi dalla schiavitù della memoria e dalle catene delle aspettative è un obiettivo da perseguire per ottenere un po’ di calma interiore, ma bisogna essere consapevoli che svellere le radici significa rinunciare ad una ricca parte di noi, per quanto contraddittoria. Così al niente, inteso come non-senso ed assurdo dei giorni, si sostituisce il dono dell’adesso, il niente.

Solo il nulla può cancellare il nulla, anche se esso potrebbe essere, se mai troveremo la chiave, la porta per il tutto.


APOCALISSI ALIENE: il libro

14 luglio, 2011

La fine del mondo storto

Mai, come in questi tempi, è necessario trascendere.

"La fine del mondo storto” è un romanzo di Mauro Corona, pubblicato nel 2010. Liquidiamo subito l’opera: è un testo a tesi, piatto e mal scritto, irritante per il suo ambientalismo a senso unico (lotta contro gli autoarticolati che attraversano le valli montane, ma neanche un richiamo alla geo-ingegneria). Vi accenno solo per svolgere alcune riflessioni. L’autore, che è anche scultore, prospetta uno scenario futuro in cui l’umanità deve all’improvviso fronteggiare una realtà senza energia e senza tecnica. Gelo, fame, sete ed immani ostacoli pratici attendono sia i ricchi sia gli indigenti. Corona è facile profeta: anche se le cause del “nuovo Medioevo” non saranno quelle da lui additate, è inevitabile che il mondo precipiti nella miseria e nel buio, pure in senso letterale.

Resteranno come uniche risorse la natura e l’ingegno: la prima, dipinta con le solite pennellate estetizzanti, sarà molto più avara, provata tra l’altro da decenni di contaminazioni, di quanto si possa oggi immaginare; il secondo dovrà vedersela con l’egoismo. Nelle situazioni peggiori, molti uomini riescono a dare il peggio di sé e la discordia fra chi versa in frangenti è la regola. E’ puerile l’appello dell’autore a riscoprire la sapienza dei nonni, mentre è verosimile la cruda descrizione di un mondo dove gli scintillanti oggetti della tecnologia più avveniristica sono perfettamente inutili.

E’ pur sempre una finzione letteraria, eccepirà qualcuno. No! L’avvenire che ci aspetta è probabilmente questo, piaccia o no, sia perché è stato programmato sia perché sarà una lezione per gli uomini di oggi, abituati quasi tutti solo a lamentarsi. Sarà una lezione da cui molti non apprenderanno alcunché: la si veda come un compenso per gli oziosi lamentosi che pullulano nell’opulento Occidente, se esiste una Giustizia superiore. Certo, gli eventi colpiranno nel mucchio e non è escluso che qualche viziato si salvi. Se, però, la tumultuosa storia umana culminerà in un pareggio dei conti, in ultima istanza si raccoglierà quanto si è seminato.

Sarà dunque la fine, “la fine di un mondo storto”, come recita in maniera molto opportuna il titolo. Storto è soprattutto l’uomo di oggi, amputato degli arti che lo collegavano alla natura madre-matrigna. E’ un uomo cui non è stata strappata l’anima, poiché semplicemente l’ha lasciata marcire. La morte fisica è solo il suggello di una morte metafisica, assai più grave. Il sintomo della morte interiore si concretizza nell’indifferenza per tutto ciò che è sacro, sublime, elfico.[1]

L’uomo d’oggi, nonostante (o a causa?) di tutta la sua tecnologia, è una creatura malferma, malata, debole, minorata, eppure, in quanto ignara di tale condizione, arrogante e piena di sicumera. E’ simile ad uno che usi le stampelle per camminare e per percuotere chi gli è antipatico: se gli si tolgono le grucce, lo si rende impotente.

E’ un’umanità di enfants gaté, di schizzinosi e pretenziosi, di incontentabili. L’arte della querimonia è l’unica in cui eccelle. Persino il pensionato che, sovente a ragione, impreca contro il governo ed i partiti per poi comunque votare, è arido oltre che schiavo, come il borghese, di molte comodità date per scontate: ad esempio, aprire il rubinetto e poter usare l’acqua (sia pure inquinata) per lavarsi, bere, cucinare…è un (piccolo) lusso che apprezzerà solo quando dalla cannella non cadrà più una sola goccia. Non chiediamogli poi di comprendere la sacralità dell’acqua.

Ben venga dunque una tabula rasa. Non attendiamoci risoluzioni umane, perché, non solo non esistono, ma anche in quanto, tranne pochi casi, non le meritiamo. Non attendiamo salvatori o soccorritori terreni: persino una società, passata al vaglio della carestia e della guerra, prima o dopo ricade nei suoi usuali errori. Lasciamo ai romanzieri come Corona l’ingenua evocazione di utopie agricolo-pastorali o addirittura silvestri. Lasciamo ai globalizzatori la prospettiva di una “pace” universale. Lasciamo ai sognatori l’idea di un intervento esterno.

La salvezza, per quei pochi che potranno attingerla, sarà nel totale distacco e nell’abnegazione.

[1] Si consideri il valore ambivalente dei termini “sacro” e “sublime”: nello specifico sacro non è solo “santo”, ma pure “estraneo, potentissimo, numinoso, terribile”. Così chi coglie nella natura, lato sensu, solo aspetti gradevoli, scivola in una concezione limitata e turistica; gli antichi di fronte all’enigma dionisiaco dell’essere, erano, invece, estasiati ed atterriti. E’ naturale che questo discorso non può essere compreso dalle beghine.


APOCALISSI ALIENE: il libro

12 luglio, 2011

Ur

Siamo (non tutti) esseri celesti? Sparse briciole linguistiche sembrerebbero accreditarlo. Ur è uno dei più antichi centri sumeri. “Ur “dovrebbe valere appunto “città”. Le città mesopotamiche (e non solo) progettate e costruite, seguendo canoni simbolici, erano uno specchio del cielo. Il loro cuore era lo ziqqurat, il tempio-osservatorio, pinnacolo puntato verso il firmamento stellato. Fu la nostalgia di una cultura già decaduta quando sbocciò.

Da Ur dei Caldei – alcuni contestano l’identificazione con la città mesopotamica – proveniva Abraham, il sumero progenitore (mitico?) di genti medio-orientali. L’Oriente è l’origine: la radice vale “sorgere”. E’ un’alba di civiltà remote, la cui ascendenza è forse uranica. Il cielo quindi è la patria, perduta. Non lo si intenda tanto in senso letterale, ma come “luogo” del principio anteriore alla caduta. Sebbene gli etimologisti rifiutino il legame, il tedesco "Ur", originario, antico, ancestrale, potrebbe conservare una parentela con il sumero. Il nucleo semantico è lo stesso di Oriente, da orior, sorgere. Che cos’è la città, se non il nascimento di un popolo? Ecco l’urbe e l’Urbe. Si suppone che “urbs” sia connesso al latino “orbis”, mondo, globo ed anche cerchio. Roma fu città quadrata, ma nel quadrato si può inscrivere in un cerchio, figura della perfezione. Quadrato e cerchio: terra e cielo. Atlantide, invece, l’archetipo urbanistico, ebbe pianta circolare con tre canali concentrici attorno agli insediamenti. Inoltre la città è un mondo, un cosmo con i suoi punti cardinali, i quarti, gli assi, il centro. Una ruota cosmica è adombrata nell’icnografia urbana.

Erano un tempo i sacerdoti a delimitare il perimetro di una città, a stabilire i riti di fondazione, a sacralizzare uno spazio, il templum, che rispecchiava un settore del cielo. Gli ierofanti interpretavano la volontà dei Celesti.

La sorgente delle lingue è presumibilmente unica, anche se ne scaturirono molti ruscelli e fiumi i cui corsi si sono diramati assai lontano dalla scaturigine. Così il sumero Ur, il germanico “ur”, il morfema "or", nascere, il latino urbs… potrebbero discendere da una stessa voce.

Quanto diversa è la città antica da quella odierna! Un tempo i confini di un’urbe erano sacri, invalicabili, oggi le città sono tentacolari, fagocitano l’esterno, dopo aver digerito sé stesse. Del cielo, di cui erano un’icona, un riflesso nelle armonie e nelle prospettive, non è rimasto nulla: gli sguardi sono chini verso il basso ed una giungla di edifici lo scherma, mentre venefici serpenti lo attraversano. Il vero cielo poi non è quello sopra di noi: la volta è solo un simulacro dell’Empireo.

Scrivono A. Anzaldi e L. Bazzoli: “Urano è il cielo, bello, lontano misterioso. … Evoca la tendenza alla solitudine. Urano può essere inteso come Spazio, laddove Saturno è il Tempo”.

L’eco stessa di Urano (greco Οὐρανός), primordiale dio degli spazi siderei, il cui nome vale “firmamento”, oggidì è imprigionata nei giacimenti del metallo denominato “uranio”. [1] Tragico destino che il fecondo soffio celeste si sia corrotto in un vento radioattivo, che la vita si sia tramutata in morte.

[1] Il nesso etimologico tra l’ellenico Οὐρανός e l’indiano Varuna è in genere rifiutato dai linguisti che non sono concordi sul significato dalla base da cui deriva il nome del dio, “wer “, coprire, o “uer”, legare.



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10 luglio, 2011

Il genocidio degli Armeni

L’Armenia è lo stato attuale dell’Asia sud occidentale (29.785 kmq) e regione storico-geografica suddivisa tra l’attuale Armenia, Turchia ed Iran. Chiamata Subartu sin dal XVI sec. a. C., sede del regno di Urartu (terra delle montagne?) tra il IX e l’VIII secolo, la ragione fu occupata dagli Armeni nel VII sec. a.C. Conquistata dai Persiani Achemenidi, diventò parte poi dell’Impero di Alessandro Magno e fu in seguito incorporata nel regno ellenistico dei Seleucidi. Nel I sec. a. C. vi si formò il Regno di Tigrane che fu sconfitto nel 69 a.C. dai Romani. Nel 117 si ricostituì in Regno di Armenia che adottò il Cristianesimo come religione di stato (305). Inglobata nell’Impero romano d’Oriente da Giustiniano (527-565) fu occupata dagli Arabi. Nel 1473, dopo secoli di invasioni e di instabilità, l’Armenia fu invasa dai Turchi Ottomani. Fra XVII e XVIII secolo fu spartita tra Russia e Persia; nel 1828 la parte persiana passò alla Russia. La zona turca fu teatro di feroci repressioni della popolazione armena, culminate con il genocidio degli anni 1894-1918. In seguito al collasso dell’Impero zarista, nel 1918 fu creata un’effimera repubblica. Occupata dai bolscevichi nel 1920, divenne una repubblica sovietica. La disgregazione dell’Unione sovietica al principio degli anni 90 del XX secolo, infiammò le tensioni con l’Azerbaigian musulmano, per il progetto armeno di inglobare l’enclave del Nagorno-Karabah, abitata in prevalenza da Armeni cristiani. Ne seguì un sanguinoso conflitto trascinatosi per quasi un decennio. Nel 1991 l’Armenia si staccò dalla Comunità di stati indipendenti. Nel 1997 con l’Azerbaigian fu stipulato un accordo in vista della concessione dell’autonomia alla provincia del Nagorno-Karabah.

Secondo alcuni studiosi, l’area armena potrebbe essere il centro di irradiazione degli Indoeuropei: la lingua armena è indogermanica, forma un gruppo a sé stante e presenta notevoli somiglianze lessicali con vari idiomi dello stesso ceppo, in particolare l’inglese. Erodoto ricorda che gli Armeni erano imparentati con i Frigi, antica etnia dell’Asia minore, mentre, tra i contemporanei, il professor Paris Herouni afferma, che l’Armenia è la regione in cui sbocciò la più antica civiltà del pianeta. Terra montuosa, ricca di pascoli, sorgenti, fiumi pescosi e di amene valli, legata a venerande tradizioni – secondo il racconto biblico l’arca di Noè si adagiò sul Monte Ararat, l’Armenia è popolata da una gente di fede cristiana monofisita. I cristiani monofisiti ammettono in Cristo, una sola natura, quella divina, come i Giacobiti della Siria, i Copti d’Egitto e d’Etiopia. La Chiesa apostolica armena conserva antiche dottrine ed adotta una liturgia non molto diversa da quella delle comunità ortodosse, rimase isolata rispetto alle diatribe teologiche che impegnarono i vescovi riuniti nei concili del IV e V secolo, evitando così di snaturare le concezioni del III, un po’ più vicine al Cristianesimo pre-costantiniano.

Purtroppo gli atroci massacri subiti dagli Armeni, ad opera dei Turchi soprattutto tra il 1915 ed il 1918, quando sfaldatosi l’Impero ottomano, fu instaurato in Anatolia con Ataturk un governo nazionalista, sono spesso sottaciuti. Eppure fu un’orrenda carneficina: lo storico britannico Toynbee stima in 1.800.000 le vittime, barbaramente trucidate o morte di stenti. Il genocidio non è stato neppure riconosciuto come tale dall’O.N.U. (Organizzazione dei nazisti uniti), a causa delle forti pressioni esercitate dal governo turco sulla comunità internazionale, esecutivo intento ad occultare ed a ridimensionare le stragi.

Perseguitati come quasi tutti i Cristiani non subalterni alle gerarchie cattoliche, di fronte al genocidio armeno, lo stesso olocausto anti-ebraico (non anti-semita: Arabi ed Aramei sono Semiti, mentre gli Israeliani attuali sono discendenti per lo più dai Turchi Khazari e, stando a Flavio Barbiero, gli Ebrei biblici erano Camiti e non Semiti) impallidisce. Nel 1983 la Televisione della Svizzera italiana realizzò un documento sulla diaspora armena, seguìta allo sterminio in patria: il reportage, nonostante alcune imprecisioni storiche, colma un’enorme lacuna, riepilogando con immagini crude e testimonianze dirette, la tragica storia di una nazione che cerca di preservare la sua identità culturale, in primis, l’armoniosa lingua, e di consentire all’opinione pubblica mondiale di conoscere e di condividere la causa armena.

Il dossier contiene un’intervista all’anziana Mélanouche Tchitbachian, fuggita dalla patria, dopo mille disavventure. La donna, mancata non molto tempo fa, risiedeva a Bordighera. Alla sua storia si sono ispirati i fratelli Taviani nella pellicola intitolata “La masseria delle allodole”. Il documentario è un spaccato su una delle pagine più tragiche e terribili di una storia ancora piena di dolorosi capitoli. Gli Armeni, infatti, non negli anni successivi conobbero la guerra con l’Azerbaigian ed il rovinoso terremoto artificiale scatenato dai Russi il 7 dicembre del 1988. Causò 25.000 morti.


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08 luglio, 2011

Leopardi satanista o ottimista? (prima parte)

Giacomo Leopardi era un satanista. E’ questa la vulgata con cui si bolla l’ultima fase poetica del Recanatese. Lo strale critico centra, come è noto, l’incompiuto Inno ad Arimane, il componimento dove l’autore celebra con feroce sarcasmo il dio delle tenebre. Si vede nell’Inno l’approdo di una filosofia “pessimista” che appunto culmina nell’empio panegirico della divinità incarnante, nella tradizione mazdea, il male.

Lo sostiene, ad esempio nell’articolo "Leopardi, cantore di Arimane, è il campione di un satanismo disperato, ma lucido e coerente", 2008, il Professor Francesco Lamendola. E’ di un parere simile Lorenzo Venza nel breve testo intitolato Leopardi arimanico e l’inno alla religione exoterica, 2011. Va riconosciuto che, come sempre, il Professor Lamendola avvince, con la sua prosa efficace, anche se non mi convince del tutto, laddove il Dottor Venza, a causa di un andamento e di un linguaggio sciancati, non mi persuaderebbe neanche qualora io pensassi possa aver ragione.

A mio avviso, il carattere frammentario del cantico, onde non sappiamo come Leopardi l’avrebbe compiuto, già scagiona almeno in parte l’autore dalla taccia di satanismo. Sarebbe come giudicare le capacità artistiche di uno scultore solo da una statua da lui abbozzata. Inoltre l’amara ironia con cui è incensato Arimane è la prova che il Nostro allude il contrario di quanto scrive.

Alcuni versi poi sono inequivocabili: “Ma l'opra tua rimane immutabile, perché p. natura dell'uomo sempre regneranno. L'ardimento e l'inganno e la sincerità e la modestia resteranno indietro e la fortuna sarà nemica al valore, e il merito non sarà buono a farsi largo e il giusto e il debole sarà oppresso ec. ec….Pianto da me per certo Tu non avrai: ben mille volte dal mio labbro il tuo nome maledetto sarà ec. Ma io non mi rassegnerò ec”.

Vi immaginate un adoratore del demonio che ne tesse l’elogio in modo beffardo o che ne decanta i demeriti, interpretandoli come tali e non come luciferine virtù? Vi immaginate un adoratore del demonio che ne maledice il nome e che non intende rassegnarsi al suo funesto potere? Ancora una volta, vi vedrei il titanismo leopardiano, la virile ed eroica sfida alla Natura che connota, verbigrazia, il canto "La Ginestra" ed il "Dialogo della Natura e di un Islandese".

Non si può negare che tra le righe dell’Inno serpeggi alcunché di blasfemo. Il Professor Lamendola nota a tale proposito: “Quella delineata nell'inno Ad Arimane, si badi, non è semplicemente una forma di adorazione del Diavolo: è la proclamazione che solo il Diavolo esiste, e che la creazione è totalmente e interamente malvagia. Non si tratta né di nichilismo, né di satanismo contrapposto al teismo, ma di un monoteismo diabolico, che esclude qualunque idea di bene dalla faccia del mondo”.

Così il “pessimismo” (logora categoria, ma tant’è) di Leopardi sfocerebbe in un “monoteismo diabolico”, nella descrizione di un universo in cui non balugina neppure una speranza di redenzione. Si è che Leopardi fu, checché ne opinino altri, pensatore potentissimo (alcune sue analisi della società massificata, allo stadio embrionale a cavallo tra XVIII e XIX secolo, sono esemplari e profetiche): il suo inno è il sigillo di un ateismo, ma di un ateismo problematico e, come quello di Nietzsche, torturato da una nostalgia del divino che si palesa con un’implacabile irrisione della fede.

In verità Leopardi fotografa, per mezzo di una costruzione metaforica, questa realtà, questa dimensione e chi potrebbe contestare che le cose si svolgono grosso modo come egli le immortala?

“Produzione e distruzione ec. per uccidere partorisce ec. sistema del mondo, tutto patimen. Natura è come un bambino che disfa subito il fatto. Vecchiezza. Noia o passioni piene di dolore e disperazioni: amore. […] taccio le tempeste, le pesti, ec. tuoi doni, che altro non sai donare. Tu dai gli ardori e i ghiacci.

E il mondo delira cercando nuovi ordini e leggi e spera perfezione. Ma l'opra tua rimane immutabile, perché p. natura dell'uomo sempre regneranno. L'ardimento e l'inganno, e la sincerità e la modestia resteranno indietro, e la fortuna sarà nemica al valore, e il merito non sarà buono a farsi largo, e il giusto e il debole sarà oppresso ec. ec.[…] Animali destinati in cibo. Serpente Boa. Nume pietoso ec.[…]


Perché, dio del male, hai tu posto nella vita qualche apparenza di piacere? L'amore? Per travagliarci col desiderio, col confronto degli altri e del tempo nostro passato ec.?”

Chi – ribadisco – potrebbe contestare che la natura, di là dalle sue parvenze amene, non è basata su un ciclo di creazione- distruzione? Chi potrebbe negare la presenza del male nelle forme evocate dal poeta che si spinge persino a demolire il sogno di un rinnovamento sociale utopico e ferale? “E il mondo delira cercando nuovi ordini e leggi e spera perfezione”.


APOCALISSI ALIENE: il libro

X Times di luglio in edicola

E' in edicola il numero di luglio della rivista "X Times", mensile diretto da Lavinia Pallotta e da Pino Morelli.

Leggi qui il lucido editoriale della Direttrice.


APOCALISSI ALIENE: il libro

07 luglio, 2011

Sirene

Dunque è tutto finito. La lampada della camera è spenta. Il giardino, sepolto nell’oscurità, non ha più un fremito. Ora anche i ricordi si sbriciolano, grani di cenere fra le mani, e le stelle, sirene di ghiaccio, guardano con la vitrea fissità del nulla.

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05 luglio, 2011

Messaggi dall'universo

L’attuale noioso e stagnante panorama della letteratura ufologica, è stato finalmente avvivato dalla pubblicazione del testo vergato da Stan Romanek, scritto in collaborazione con J. Allan Danelek, Messaggi dall’universo, Milano, 2011.

Romanek è un cittadino del Colorado, i cui incontri con gli extraterrestri sono considerati tra i più documentati. Egli è in possesso di video, di numerose fotografie e di prove fisiche del suo vissuto. Il primo avvistamento di Romanek risale al 27 dicembre 2000. Egli, da allora, sostiene di aver avuto più di cento esperienze individuali.

Romanek ha, in passato, prodotto fotografie di cicatrici sul suo corpo, dovute - stando al testimone - ai suoi rapitori. Egli ha anche esibito fotografie di segni di combustione nel cortile dell'appartamento in cui abita nonché di un U.F.O. mentre decolla. Il contattato ha anche elaborato strane equazioni, la cui autenticità ha causato infuocate controversie. Nel 2003, quando l'uomo viveva in Nebraska, installò una videocamera per riprendere quello che egli pensava fosse un voyeur. Grande fu la sua sorpresa, allorché si accorse che il video mostrava presumibilmente la testa di un furtivo extraterrestre in atto di sbirciare attraverso la finestra di casa.

A Romanek si devono pure delle sibilline predizioni, frutto dei suoi abboccamenti con i visitatori. Egli reputa che l'umanità sia ormai prossima a qualcosa di cruciale: è necessario prepararsi per affrontare il cambiamento che è un bivio. Se non compiamo il passo decisivo per maturare, saremo perduti, sebbene il rapito ritenga che il percorso temporale stia deviando verso una situazione un po' più propizia rispetto a quanto paventato, allontanandoci dal Nuovo ordine mondiale
”.

E’ quanto scrivevo tempo fa, nell'articolo "Le linee temporali", prima che il libro fosse tradotto in italiano. La lettura del volume conferma che l’approccio di Romanek è eccezionale: l’autore è lontano sia dalla saggistica pedantesca ed inconcludente alla Pinotti sia dal superficiale ottimismo dei contattisti. Le aperture, gli addentellati e le convergenze di “Messaggi dall’universo” si focalizzano su domande cruciali: Chi sono? Che cosa vogliono? Sono benevoli o ostili? Il Nostro non risponde, ma offre un vastissimo e, a mio parere, più che credibile campionario di esperienze: grazie a tale inventario si potrà aprire qualche prospettiva. L’insegnamento che si trae dal testo è forse nell’invito a superare il dualismo alieni buoni o alieni cattivi, come schematismi monopolari: si comprende come certe dicotomie siano funzionali al potere ed alle ideologie dominanti. Gli Altri sono gli Altri: le categorie, come sempre, pur comode, vincolano ad una sola interpretazione, ma la realtà è molto più complessa, contraddittoria, talvolta spaventosa, di come la concepiamo.

E’ vero che alcune ipotesi di Romanek derivano dalla prassi dell’ìpnosi regressiva, da reputare una breccia attraverso cui si infiltrano entità oscure, più che un affidabile metodo per disseppellire esperienze giacenti nell’inconscio. Nondimeno il ruolo svolto dalle ricostruzioni tramite ipnosi è esiguo, mentre spazio amplissimo assume un’esperienza vissuta sulla propria pelle (letteralmente…): abductions con la loro eredità di microlesioni cutanee ed epistassi, contatti con creature sfuggenti, sfere rosse che sfrecciano nelle stanze, filmati e fotogrammi strabilianti, linee telefoniche sotto controllo, inspiegabili incendi di apparecchiature, pedinamenti…

Sulla storia grava l’ombra dei servizi e pure del governo occulto: Romanek non è uno studioso di cospirazioni, ma si imbatte in sabotaggi e minacce di chiara origine. L’intreccio tra casistica ufologica ed interessi strategici è inestricabile e Romanek ne dà conto con l’ingenuità ma la schiettezza tipica del cittadino medio, il cui ordinario consenso nei confronti delle istituzioni può essere incrinato solo dall’irruzione nella vita dello straordinario.

Mi limito ad elencare alcuni temi dell’opera, poiché anche solo sfiorarli tutti richiederebbe troppo tempo. Sono contenuti da approfondire e da comparare con altri disseminati nella saggistica non solo xenologica: la commistione tra fenomenologia U.F.O. e manifestazioni metapsichiche, il dodicesimo pianeta, i ponti di Einstein-Rosen, il legame tra l’idioma dei visitatori e l’aramaico, l’energia del punto zero, l’apertura di un portale nel 2012, l’ipercubo, i Grigi e le Mantidi, gli esperimenti genetici e gli ibridi…

Romanek, che probabilmente non è informato circa la bio-geoingegneria, per serendipità ci fornisce delle utili chiavi di lettura più di tanti ricercatori, magari ancora atrofizzati sullo scopo della manipolazione climatica. Le complicate equazioni prodotte da Romanek sembrano riguardare la possibilità di influire sul continuum spazio-temporale, attraverso l’uso dell’energia elettrodinamica(?): è quanto, secondo fonti attendibili, stanno tentando i militari per mezzo del binomio chimica ed elettromagnetismo. Sempre in modo involontario, il testimone chiarisce per quale motivo gli aerei chimici siano tanto spesso impegnati a dissolvere le nuvole.

Alle disavventure della storia si alternano indugi riflessivi: il più profondo tocca la questione per eccellenza, l’interrogativo su Dio. A pagina 271 si legge: “Grandpa (un presunto Grigio, n.d.r.) ci disse che Dio va di là dalla comprensione umana, ma che anch’essi stanno ancora cercando di capire il concetto di divinità”.

Non siamo i soli nell’universo a porsi domande.


APOCALISSI ALIENE: il libro

02 luglio, 2011

Jail

Michel Foucault, nel celebre saggio “Sorvegliare e punire”, individua nel carcere, inteso come luogo-istituzione, il marchio e la mentalità dello stato moderno e contemporaneo. L’opera di Foucault esamina il problema in modo lucido, stringente: dovrebbe essere letta e compresa da chi vede nell’apparato penitenziario qualcosa di “normale”.

Siamo portati a pensare che i penitenziari come quelli attuali siano sempre esistiti. Non è così. Nell’antichità il carcere era un luogo dove il reo era temporaneamente rinchiuso in attesa che venisse eseguita la condanna: si pensi a Socrate che aspettò in prigione di trangugiare la cicuta o a Giugurta incatenato nel Tullianum per alcuni terribili giorni, prima di essere strangolato dal boia. Anche nel Medioevo nella cella il colpevole o presunto tale è custodito sino all’esecuzione della pena (la morte, una mutilazione, la gogna...): colà è interrogato o torturato. Il sistema penale del passato, nel complesso, appare paradossalmente più mite di quello odierno.

Quante volte, di fronte a delitti turpi e feroci, udiamo la reazione dell’uomo medio: “Bisognerebbe sbatterlo dietro le sbarre e buttare la chiave!” E’ un’indignata richiesta che si può comprendere, se non fosse che “dietro le sbarre” finiscono per lo più innocenti o ladri di polli o derelitti. I veri criminali non sono soltanto liberi cittadini: essi occupano i principali centri del potere e delinquono con la totale certezza dell’impunità. Militari, banchieri, governanti, giudici, giornalisti, questurini… perpetrano in tutta tranquillità nefandezze alla luce del sole, quel sole che i carcerati possono vedere solo a scacchi. Nella peggiore delle ipotesi (peggiore per alcuni di loro, di solito pesci piccolissimi), saranno disposti gli arresti domiciliari, magari in ville principesche: Gianfranco Boccalatte docet.

La cronaca è piena di incolpevoli condannati all’ergastolo o a pene detentive molto lunghe, di candidati manciuriani, di capri espiatori gettati tra le grinfie di un’opinione pubblica feroce e vendicativa. Costoro sono defraudati della libertà: costretti in pochi metri quadrati, sovente pigiati tra brande ed orinatoi, soffrono più per l’impossibilità di muoversi e di occupare il tempo in modo gratificante che per le condizioni igieniche spaventose. La noia soffoca più del dolore. Questa situazione è contro natura, come l’abitudine di tenere i volatili in gabbia.

Inoltre le cicatrici sul corpo e sull’anima di una detenzione iniqua sono indelebili: il principio giuridico “in dubio pro reo” non viene quasi mai applicato, specialmente in Italia dove pubblici ministeri e giudici, pur con qualche eccezione, sembrano smaniosi di gettare in galera un “responsabile” purchessia.

Si obietterà che i manigoldi non possono restare nel consorzio umano, poiché vanno puniti e deve essere impedito loro di reiterare il reato, ma non è forse lo stato, questo funesto idolo, con la sua perversione assoluta ed irredimibile, all’origine di quasi tutti i misfatti? Il denaro è un’invenzione dello stato, la povertà è un’invenzione dello stato, la guerra è un'invenzione dello stato, l’ingiustizia è un’invenzione dello stato, la violenza è un’invenzione dello stato, il fisco è un’invenzione dello stato, l’immoralità è un’invenzione dello stato, la corruzione è un’invenzione dello stato, la follia omicida è un’invenzione dello stato, il gioco d’azzardo è un’invenzione dello stato, il terrorismo è un’invenzione dello stato, il traffico di stupefacenti è un’invenzione dello stato, la mafia è un’invenzione dello stato, le malattie sono un’invenzione dello stato, l’ignoranza è un’invenzione dello stato, le truffe sono un'invenzione dello stato, l'inquinamento è un'invenzione dello stato... Prendiamo pure misure contro il singolo, ma nello stesso tempo aboliamo il sistema. Una volta trasceso il sistema, sarà ancora necessario assumere dei provvedimenti contro l’individuo?

E’ vero che gli uomini paiono più proclivi al male che al bene, ma ci siamo mai domandati quanto di questo male sia il lascito di una plurisecolare oppressione clerico-statale? Non esistono società perfette né forse sono mai esistite, ma presso alcune tribù di nativi americani non erano adoperati strumenti coercitivi anche nei confronti di chi violava le regole della convivenza civile. Il delitto era punizione a sé stesso. Forse è una ricostruzione idealizzata, come quella relativa alle società gilaniche. E’ incontestabile, però, che quanto più lo stato ed il controllo si rafforzano, tanto più si diffonde la delinquenza. E’ naturale che in un mondo rigenerato (se mai sorgerà) non esisteranno né carcerieri né carcerati, “né briganti né gendarmi”.

Già l’esistenza è, in non pochi casi, un carcere. Si eviti di aggiungere al danno un altro danno, soprattutto se si ricorda chi langue nelle “patrie galere”: nella maggior parte dei casi, cittadini ingiustamente incriminati ed ingiustamente reclusi.

Articolo correlato: Freeanimals, Gabbie, 2011


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01 luglio, 2011

Scettici e dogmatici (prima parte)

So che alcuni oggi cercano a tastoni e non sanno più di chi fidarsi. A costoro dico: credete a chi cerca la verità, non credete a chi la trova. (A. Gide)

Il termine “scettico”, contrariamente a quanto pensa il volgo, non significa “incredulo”, “proclive a dubitare di tutto”, ma derivando dal verbo greco “sképtomai”, scrutare, cercare, indagare... designa chi è dedito all’osservazione critica.

Lo “skeptikòs” è quindi agli antipodi non solo del dogmatico, che dispensa una verità preconfezionata (scientifica, religiosa etc.), ma anche dell’agnostico. Costui, infatti, rifiuta per principio di occuparsi di problemi che la ragione umana non può comprendere ed analizzare. L’agnostico considera inconoscibile quanto oltrepassa i dati empirici studiati con il metodo delle "scienze" positive. Quanto siano ingenue le posizioni degli agnostici è evidente: in verità essi, nel momento in cui postulano, una realtà là fuori (che esista e che sia indipendente dalla coscienza sono idee indimostrabili), confluiscono nella stessa genia degli assiomatici religiosi contro cui spesso si avventano.

Il vero scettico dunque è un Suchende, un cercatore: egli mostra un’attitudine euristica né ritiene che solo il raziocinio possa essere utile per esplorare i vari campi dello scibile. Egli non si perita di accostarsi a temi delicati: la coscienza, il cosmo, Dio. Pur ricorrendo ai più disparati strumenti interpretativi e ad una gran copia di fonti, le conclusioni dello scettico possono essere soltanto provvisorie, dubitative, aperte a revisioni e calibrature.

Lo scettico non è ateo: l’ateo è un credente con il segno meno. Come il credente, possiede una certezza apodittica, da cui discendono vari teoremi. E’ invidiabile la vita del miscredente e dell’uomo dalla fede tetragona: nessuna perplessità può turbare la loro olimpica calma. I fenomeni più grandiosi, nel bene o nel male, non possono scalfire la loro visione del mondo: l’ateo attribuisce le meraviglie dell’universo al caso, all’evoluzione naturale; il credente le ascrive a Dio. Il male assurdo, incomprensibile, irrazionale… conferma il primo nella sua negazione di Dio; costringe l’altro a miliardi di funambolismi, quando non ha la sicumera di affermare che il male non esiste.

Per quanto mi riguarda, non posso asserire di essere miscredente, perché, in tal caso, diventerei un dogmatico. Tuttavia mi pare che l’universo e Dio siano molto elusivi. Con il passare del tempo, ho come l’impressione che Dio si sia eclissato. Chissà: abbiamo forse sempre sbagliato a concepire il Creatore. Egli non è come lo immaginiamo. Distratto ed indolente, osserva il cosmo e le civiltà che lo popolano da una lontananza abissale. Non si spiegherebbe diversamente il diluvio di mali che ci inonda da tempo immemorabile. Non mi si tedii con la logora storia del “libero” arbitrio, di Eva che mangiò il frutto proibito (in verità ella non lo mangiò!), del serpente tentatore. E’ come se un matematico tentasse di spiegare complesse equazioni ad un bambino di tre anni: intercorre uno scarto irriducibile.

In un’opera misconosciuta ma pregevole di Flaubert (la gloria di molti autori è affidata sovente a libri sopravvalutati, nella fattispecie “L’educazione sentimentale”), “La tentazione di Sant’Antonio”, una specie di tragico e sontuoso affresco della condizione umana, nella visionaria parte finale, è inscenato il botta e risposta tra l’eremita ed il Diavolo. Il Maligno, posto l’anacoreta sul dorso, lo trasporta in un’ascensione vertiginosa tra gli spazi siderali per incalzarlo con le sue affilate argomentazioni. Lucifero mostra al santo “il firmamento che è soltanto un tessuto di stelle, la luna che pare un pezzo di ghiaccio rotondo, piena di una luce immobile, tra crateri spenti, sotto un cielo completamente nero… gli astri si moltiplicano, brillano, la Via Lattea allo zenith si dispiega come un’immensa cintura. … Vede gli astri giungere da lontano e sospesi come pietre di una fionda, descrivere le orbite, spingere su le orbite…”


APOCALISSI ALIENE: il libro

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