30 giugno, 2016

L'unico giorno

Il presente testo è scaturito da una bella conversazione con l'amico Wlady.

Spesso si ripete che bisogna vivere ogni giorno, come se fosse l’ultimo. Così si rischia di sdrucciolare nel cieco edonismo o, nel migliore dei casi, nel Carpe diem di Orazio, nell’invito ad assaporare le gioie del momento, nella consapevolezza che il futuro è incerto, scivoloso.

Credo, invece, che bisognerebbe vivere ogni giorno quasi fosse l’unico. Se ci pensiamo, ogni giorno racchiude in sé la parabola dell’intera esistenza: l’alba è l’infanzia con il suo innocente stupore; il mattino è l’alacrità della giovinezza, l’entusiasmo di sentirsi vivi; il pomeriggio è la maturità con il suo equilibrio, le sue conquiste per quanto fragili; la sera è la senilità, l’accorato ripiegamento sul tempo fuggito, è la malinconia, anche a volte, la quiete dopo i tumultuosi anni precedenti; la notte... la notte è la morte.

Un unico giorno contiene in sé anche la morte, il buio dell’ignoto, le incognite di un futuro inchiostrato dalle tenebre.

Sarebbe bello, se la vita assomigliasse solo all’alba, all’infanzia, età dell’innocenza e dell’incoscienza.

In testa all'articolo un dipinto dell'artista Carla Colombo.

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6 commenti:

  1. Cito dal post: "Sarebbe bello, se la vita assomigliasse solo all’alba, all’infanzia, età dell’innocenza e dell’incoscienza."

    Non sono d'accordo, sarebbe una vita incompleta, la maturità, la vecchiaia e la morte sono parti essenziali, sono esperienza per l'anima (prima) e lo spirito (poi), l'essere umano si realizza nell'evoluzione spirituale e fisica, come due binari che inesorabilmente corrono nella stessa direzione. Lo scopo della vita, per come ho inteso, è proprio quello di finire, ma questa non vuole essere una visione cinica, ma una visione di speranza, la vita muore per rinnovarsi in altre forme, noi moriamo e diventiamo altro.

    In tutto questo, in questa cannibalizzazione della vita che mangia la vita, penso che in aggiunte alle eterne domande fondamentali bisogna chiedersi, ognuno dovrebbe farlo, che scopo voglio dare alla mia vita? L'Eterno fa esperienza con attraverso noi, esprime e conosce sé stesso in noi e con noi quindi, la Domanda è: che significato voglio dare al mio vivere?

    Grazie a Zret e a Wlady per aver stimolato questa riflessione.

    Ciao

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    1. E' un sogno, un desiderio ingenuo. concordo con Te, tuttavia i bambini sono anche vegliardi, come scrissi appunto in "Vegliardi" ed hanno già vissuto tutto.

      La domanda è quella che poni, ma anche che senso ha tutto questo? Qual è il senso?

      Ciao

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  2. Citazione:
    "la notte ... la notte è la morte", ma a volte la morte si beffa della vita riportandoci nel sonno rem profondo un continuo della vita stessa, portando ad eccezioni, capita che un sogno riproduca un'esperienza con la completezza della veglia.

    A essere ricordati, spesso non sono gli avvenimenti che durante la veglia si ritengono importanti, ma spesso sono ritagli secondari e accessori, indifferenti ed irrilevanti, appartenenti ad un passato più o meno remoto.

    Forse il dormire e il sognare è il continuo della vita in forma onirica, si può senza dubbio dire che in quel momento il nostro corpo è morto, inerte, solo una piccola attività elettrica del cervello è viva fluttuando nella astralità di un corpo che fluttua senza gravità, senza un'età definita; "un'alba continua dell'incoscienza".

    Chissà ...

    Ciao

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    1. Chi può poi sapere che cosa ci attende oltre la soglia? Finalmente un barlume o il samsara, in una specie di nietzchiano "eterno ritorno", anzi "inferno ritorno"?

      Ciao

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  3. https://zret.blogspot.it/2009/10/vegliardi.html

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  4. Guardiamo quei bambini che giocano sul prato. Sono incoscienti, perché non sono consapevoli: non hanno ancora sperimentato la sofferenza, non hanno ancora sperimentato il male nella sua tetragona assurdità. Certo, hanno già incontrato il dolore per una caduta, per una febbre alta, ma sono state condizioni passeggere che hanno dimenticato presto e che non hanno ancora incrinato la loro istintiva visione dell’esistenza. Poi un giorno all’improvviso, muore loro un fratello o un genitore o un nonno ed ecco che devono affrontare il male. I bambini, però, non lo riconoscono come opposto del bene: per loro è qualcosa di imperscrutabile, di strano, di anormale. Il male è anormale. Gli adulti subito si adoperano a ripristinare l’eden violato: il fratello deceduto è volato in cielo, è diventato un angelo; il nonno ora è felice in paradiso. Allora perché tutti piangono e si disperano? Il nonno non era già felice quando rideva e giocava con lui? Perché andar via? Il piccolo è gettato nella dissonanza: da un lato gli raccontano che le lacrime sono segno di gioia, dall’altro vede una crepa nel mondo perfetto in cui sino ad allora era vissuto. Di solito, passato poco tempo, il bimbo supera il problema e ritorna nel suo giardino fatato. A volte, però, si insinua un’ombra…

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