03 febbraio, 2016

Communion



La logica è follia mascherata da raziocinio.

Era il 1987 ed il romanziere Whitley Strieber pubblicò il volume “Communion, una storia vera”. Fu un successo a livello internazionale, poiché Strieber aprì una breccia nel muro di silenzio e di paura eretto per occultare il tema dei rapimenti. A distanza di quasi trent’anni il resoconto dell’autore non pare, però, aver promosso l’abbrivo di indagini altrettanto coraggiose, di riflessioni altrettanto profonde.

Strieber dà il meglio di sé non nelle mediocri opere narrative, aduggiate da un fiacco ambientalismo, ma nei saggi, appunto in “Communion” e nell’inevitabile prosecuzione “Contatto con l’infinito” (titolo originale, "The breakthrough"). E’ quindi un peccato che la sua ricerca sia caduta quasi del tutto nell’oblio. Tanto rumore per nulla dunque? No, giacché “Communion” è una pietra miliare nella storia dell’ufologia e non tanto per le sconvolgenti esperienze di cui l’autore ci rende partecipi, ma per le risonanze emotive e per gli echi filosofici che esse suscitano. Con rara acutezza il Nostro, attraverso paure, dubbi, domande, scopre inattesi orizzonti, lacera il velo dell’ignoto per rivelare in parte una realtà inquietante, nondimeno quasi numinosa.

Il campionario che offre il testo è quello con cui gli ufologi hanno dimestichezza: incontri con i Grigi, con creature dalla mente collettiva, alieni insettoidi, impianti e cicatrici triangolari, abductions che si perpetuano di generazione in generazione, corrusche luci nella notte, interferenze elettromagnetiche sulle apparecchiature, posti fuori posto, ingegneria genetica, ricordi rimossi... In questo ampio repertorio colpisce soprattutto l’evocazione di archetipi e simboli, un’evocazione culminante nella sfocata, eppure indimenticabile visione di un essere che ricorda la dea sumera Ishtar, con i suoi occhi magnetici, ipnotici.

Strieber evita di scivolare negli estremi: non aderisce all’ingenua devozione nei confronti dei “fratelli dello spazio”, ma si rifiuta (un meccanismo di autodifesa?) di vedere nei sequestratori solo degli spregiudicati intrusi.

Notevoli le sue intuizioni, anche se gli manca una comprensione delle dinamiche occulte che legano il potere alle abductions (nell’ambito della stessa letteratura, Stan Romanek si dimostra più scaltrito e disincantato); di solito avvincente lo stile che tocca vertici lirici nel bellissimo epilogo; istruttivo il ventaglio delle ipotesi snocciolate dallo scrittore circa l’origine del fenomeno (extraterrestri come ufonauti provenienti da altri pianeti, viaggiatori nel tempo e nelle dimensioni, manifestazioni dell’inconscio, affioramento di presenze che preannunciano i tempi finali...).

Insomma, “Communion” è un testo da leggere e da rileggere, sebbene oggi sia pressoché introvabile. Potremo vivere una “storia vera”, vera come solo un sogno o un incubo può essere.

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