22 marzo, 2017

Infelici e contenti



Ha ragione il glottologo russo, Roman Jakobson, quando afferma che i sinonimi perfetti non esistono: infatti, se prendiamo in considerazione la contentezza, dobbiamo constatare che essa non equivale alla felicità. Essere contenti significa essere appagati: per dirla con Epicuro “non aver fame, non aver sete, non aver freddo, non aver caldo”. E’ una “felicità da moribondi”: così accortamente la giudica lo storico della Letteratura greca, Gennaro Perrotta. E’ un mero soddisfacimento di istinti naturali ed è già molto, se pensiamo che molti uomini, nel nostro mondo civile, soffrono i morsi dell’inedia e dell’arsura.

Tuttavia tale soddisfazione è ben lungi dal combaciare con la felicità che è uno stato di grazia, una luce immateriale che rischiara l’anima e splende sulla vita. E’ evidente quanto sia rara tale condizione che – ha ragione La Rochefoucauld – “dipende dal gusto e non dalle cose”. Sebbene sappiamo che il desiderio di essere felici, è quasi sempre destinato alla frustrazione, non smettiamo mai di perseguire quegli obiettivi che ci potranno forse donare un istante di estasi. Così l’esistenza si consuma in vani tentativi, mentre immense energie si esauriscono in sacrifici degni di fini migliori. Si è che nel cuore umano l’anelito alla felicità è insopprimibile ove si intenda per felicità appunto quel senso di armonia con sé stessi e con il mondo, quella linfa che alimenta l’esistenza, il brivido d’infinito che trascorre l’arido tempo, non il volgare divertissement dei bruti.

E’ palese che, mentre la felicità è affatto infrequente, la serenità non esiste: per essere sereni, è necessario liberarsi di ogni magagna, fugare ogni affanno, sciogliere le tristi speranze del passato e gli esangui ricordi del futuro. Chi su questa martoriata terra può asserire di non essere neppure sfiorato dalle ombre del tempo?

Molti dunque sono – non è un paradosso – infelici ma contenti e vice versa. La formula conclusiva di molte fiabe, “E vissero felici e contenti”, è superficiale, fatua, falsa.

Una profonda ingiustizia, infine, rende la felicità ed il suo contrario, il dolore, non equilibrati, non equipollenti: invero, mentre la prima giunge ad un punto in cui non può andare oltre, la sofferenza non conosce limite alcuno, poiché di un patimento si può sempre immaginare ed esperire un’esacerbazione, uno stato peggiore. E’ per questo motivo che Dante scrive che le già intollerabili, spaventose, brutali pene dell'Inferno si accresceranno ulteriormente, allorquando le anime dei dannati, dopo il Giudizio universale, si ricongiungeranno ai corpi.

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